federico fubini

Il capitalismo senza idee che vede solo i dividendi

Il capitalismo senza idee che vede solo i dividendi

Federico Fubini – Affari & Finanza

A guardarli così, sembra di vivere in un altro Paese. La scorsa settimana ha portato un’infornata di relazioni trimestrali delle società quotate ma, scorrendo i numeri, non emergono molte tracce dell’Italia che ci circonda. Quest’ultima è la sola economia che non ha mai smesso di contrarsi dalla primavera del 2011: da allora Palazzo Chigi ha cambiato quattro presidenti del Consiglio, Mario Balotelli ha cambiato tre squadre e l’Irlanda è passata dalla richiesta di aiuto alla troika a una crescita che a metà di quest’anno superava quella della Cina. In Italia invece la recessione è rimasta tale, ma si fatica a crederlo quando si guarda ai dati delle ultime trimestrali. La maggioranza delle imprese ha aumentato l’utile netto o almeno il margine lordo, quello prima di contare gli ammortamenti e pagare le tasse. Lo hanno fatto in tutti i settori e con tutte le vocazioni, sia all’export che al debolissimo mercato nazionale, sia con azionisti privati che pubblici.

Le imprese del made in Italy sono riuscite a guadagnare qualcosa di più nelle costruzioni, nei servizi urbani in rete, nella moda e nel lusso, nella meccanica, nell’auto, nell’elettronica. Quest’anno un gruppo pubblico controverso come Finmeccanica aumenterà il margine lordo e la protagonista di una privatizzazione (quasi) mancata come Fincantieri accrescerà l’utile netto. Sta guadagnando di più Acea, malgrado le invadenze della politica, e ci stanno riuscendo gruppi ad azionariato tutto privato come Trevi (elettronica di consumo), Brembo (freni per auto), Cementir, Ferragamo o, per i margini lordi, Autogrill. La lista potrebbe continuare. I manager della corporate Italy sanno come difendere gli azionisti e in questo non ci sarebbe niente di male, anzi: il profitto è il dovere di qualunque impresa che voglia andare avanti. Eppure quando si guarda al futuro viene qualche dubbio sulla qualità di quegli utili. Il made in Italy di Piazza Affari, così come quello che non osa affrontare i listini, sembra sempre più allergico agli investimenti.

Oggi un gruppo che aspira ad avere un posto nella competizione internazionale deve impiegare almeno il 6% dei suoi ricavi in ricerca, nuove tecnologie, presìdi nei mercati in crescita. In Italia non si vede niente del genere. A un sondaggio condotto da General Electric all’inizio di quest’anno i capitani d’impresa italiani dicevano che per il 2014 programmavano di ridurre gli investimenti di un quarto (sono stati di parola), mentre in Francia, Gran Bretagna o Spagna aumentavano. Ci sono molte importanti eccezioni nel panorama del made in Italy. Ma la stessa Ge stima all’Italia spetti il record delle «opportunità perdute», per decine di miliardi l’anno, a causa di impianti vecchi e inefficienti. Le tasse, la burocrazia, la giustizia lenta saranno sì degli ostacoli. Ma nessuno è più urgente da superare come quello di un certo capitalismo senza un’idea in testa, se non quella di acciuffare in qualche modo il prossimo dividendo.

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

Federico Fubini e Roberto Mania – La Repubblica

Prestiti dal Tesoro non regolarmente iscritti fra debiti, in Piemonte. Cessioni di immobili della Liguria che risultano partite di giro in grado di arricchire, grazie alle commissioni, solo la Cassa di Risparmio di Genova. “Discrasie” che impediscono alla Corte dei conti di “parificare” (cioè dichiarare credibile) il bilancio della Campania. POI le spese non coperte della Sardegna, i controlli inesistenti della Calabria, le leggi senza relazione tecnica della Sicilia, gli aumenti di capitale delle società termali della Toscana, le spese non giustificate dei presidenti in Trentino-Alto Adige, i 1.600 dipendenti fuori bilancio del Friuli. Non c’è quasi Regione che ne esca indenne. Da quest’anno la Corte dei Conti ha il potere di controllare e certificare i conti dei governatori, grazie a una norma dell’ottobre 2012. E da qualche mese nelle relazioni della Corte stanno venendo alla luce centinaia di trucchi e imbellettature che a volte sconfinano nella falsificazione dei bilanci.

L’esercizio della magistratura contabile è di quelli condotti al di sotto dei radar, senza clamori. È un’operazione fra le più ardue perché – miracolo del federalismo all’italiana – ogni Regione d’Italia scrive il bilancio in base a regole che si è scelta da sola. Nell’ultimo decennio quasi nessuna si era mai dovuta assoggettare a un controllo esterno. Ora però sta succedendo mentre si avvicina una legge di Stabilità che taglia 4 miliardi alle Regioni stesse. E da un esame delle carte della Corte emerge che in molti casi i tagli e la pulizia di bilancio saranno durissimi.

Fra i casi più controversi c’è il Piemonte, dove la magistratura contabile ha negato la “parifica”, cioè la certificazione, di parte del bilancio. Una relazione della Corte dell’11 luglio parla di “dubbi sulla corretta iscrizione a bilancio della anticipazioni”, cioè di oltre due miliardi di euro prestati dal Tesoro nel 2013 per pagare gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità. La Corte nota che il Piemonte nel 2012 “ha finanziato con le risorse ricevute dei debiti diversi”, e “passività pregresse extra bilancio”. L’accusa sarebbe dunque duplice: la giunta ha preso un prestito dal Tesoro per saldare le imprese creditrici, ma ha usato quei soldi per altre spese; in più, ha cancellato dal bilancio i debiti verso i fornitori già pagati, ma non ha iscritto i prestiti del Tesoro come nuovo debito. Se lo facesse uno Stato europeo, sarebbe un caso politico dirompente a Bruxelles e a Francoforte.

Ancora più drastico il giudizio sulla Campania, relativo al bilancio 2012. La Corte nega in blocco la parifica. “La Procura Regionale – si legge nella requisitoria del giudice – condivide le osservazioni attinenti alla mera regolarità contabile formulate dalla Sezione di controllo”. Poche parole burocratiche ma devastanti, a fronte di un bilancio da 16,8 miliardi con un deficit di 1,7 miliardi. La giunta ha fatto ricorso e per ora ha ottenuto il ritiro del giudizio della Corte dei Conti, ma questa resta un’amministrazione “vicina al default”.

Molto duro poi anche il giudizio sulla Liguria, dove la Corte nega il timbro su 91 milioni di “residui attivi” (crediti presunti ma in realtà inesigibili), su 103 milioni di cessioni di immobili e su 17,5 milioni di operazioni in derivati con la banca americana Merrill Lynch. L’amministrazione ligure presenta in realtà anche problemi più piccoli ma quasi grotteschi. Primo fra tutti, un bonus fino al 20% della paga in più dato ai direttori delle Aziende sanitarie. La Corte parla di “stortura”, perché l’obiettivo di produzione del premio di produzione 2013 ai dirigenti Asl viene fissato un mese prima della fine dell’anno stesso a un livello molto vicino: impossibile mancarlo, a quel punto. “Una scelta del tutto irrispettosa dei principi di efficienza”, dice il magistrato. Ancora peggio la presunta “cessione” per 103 milioni di immobili della Regione a Arte, un ente strumentale della Regione e con i soldi sempre della Regione transitati da un conto di Carige: certificazione negata.

Assai seri anche i problemi del Veneto, anch’esso a rischio bocciatura: la requisitoria del magistrato parla di “errori” di contabilizzazione dell’indebitamento e “rappresentazioni contabili scorrette”. Ma pure le giunte che passano l’esame non ne escono bene. Nelle provincie autonome di Trento e di Bolzano spese “di rappresentanza” dei due presidenti per decine di migliaia di euro non hanno giustificativi ritenuti credibili. In Toscana nel 2013 emerge uno scostamento al rialzo addirittura del 75% delle spese fra preventivo e consuntivo, da quota 10,4 miliardi fino a 18,4 miliardi. La giunta, invece di privatizzare, si è addirittura spinta a salire nel capitale della società Terme di Chianciano e in Fidi Toscana, una finanziaria in perdita che ha partecipazioni in tutto: dai caseifici della Maremma agli allevamenti ittici. Quanto al Friuli-Venezia Giulia, la Corte mostra che presenta 2.800 dipendenti, ma altri 1.700 lavorano per la stessa Regione, fuori bilancio, in un “sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società, enti funzionali”.

Insomma, credevamo che il fiscal compact ci avesse cambiato la vita. Fine della finanza pubblica allegra, nessuno sforamento se non in casi eccezionali. Le Regioni italiane, però, senza troppo clamore, vivono in un’altra epoca. Violando le regole dell’Unione, quelle del Parlamento nazionale, quelle del buon senso come quelle, infine, delle “più elementari regole contabili “, come ha scritto la Corte dei Conti nella relazione al bilancio della Sardegna. Già perché da quelle parti, ma non solo da quelle parti, si è davvero esagerato. Come nel 2010 e nel 2011 anche nel 2013 si è ricorso all’esercizio provvisorio. Il bilancio 2013 è stato approvato a maggio. Ma nel frattempo i legislatori sardi hanno approvato leggi senza alcuna copertura finanziaria, rinviando, per le coperture, proprio alla legge di bilancio che sarebbe arrivata dopo.

Pensate se un simile schema fosse adottato da un governo nazionale nei confronti di Bruxelles: prima spendo poi troverò le coperture. I giudici contabili parlano di una situazione “particolarmente grave”, di una situazione di “irregolarità complessiva”. E irregolarità per irregolarità, la regione Sardegna ha continuato a trasferire risorse alle partecipate, spesso senza che queste abbiamo un regolare contratto di servizio e spesso nonostante siano in perdita. Trasferimento, in quest’ultimo caso, in violazione della legge. C’è pure il caso della Fluorite di Silius (manutenzione e bonifica delle strutture minerarie) finita in liquidazione dal 2009. Bene, nel 2013 la Fluorite ha aumentato la propria spesa per il personale passando da poco più di tre milioni a 3,7 milioni. Si può? Certo che no. E la legge stabilisce che spetti proprio all’amministrazione regionale controllante il compito di contenere le voci della spesa corrente. Ma questa è una società partecipata da una Regione per di più a statuto speciale. Regione che non controlla nulla, non le partecipate, ma nemmeno i suoi assessorati. Hanno scritto i giudici della Corte dei Conti: “Si è potuto riscontrare che la Regione non esercita alcun controllo, in termini di semplice conoscenza, su aspetti essenziali ai fini dell’esercizio dei propri compiti gestionali e della propria programmazione finanziaria “. Regioni come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo.

In Sicilia solo la metà delle leggi presentate dalla giunta sono accompagnate dalla relazione tecnica. “Ciò – scrivono i giudici contabili – non consente l’emersione di oneri che potrebbero rimanere occulti “. D’altra parte siamo nella regione in cui ci sono ancora pensionati con l’assegno calcolato sull’ultima retribuzione tanto che dal 2009 al 2013 la spesa previdenziale è cresciuta dell’8%. L’89% delle risorse va a spesa corrente il che pone “a serio rischio, per il futuro, il mantenimento dei necessari equilibri di bilancio”, scrive la Corte.

Andiamo in Calabria. Qui i debiti fuori bilancio sono diventati la norma, non l’eccezione. Nell’esercizio del 2013 sono stati riconosciuti oltre 2,3 milioni di debiti senza copertura ai quali aggiungere 24,5 milioni di debiti “da riconoscere ” già pagati a seguito di pignoramenti senza però copertura. In totale quasi 27 milioni di debiti scoperti. “L’esistenza di debiti senza copertura finanziaria condiziona pesantemente gli equilibri finanziari della Regione, in piena continuità ed assonanza con la deleteria prassi di procedere al riconoscimento di debiti fuori bilancio per somme sempre più ingenti”. Ma quando si arriva a pagina 55 del Giudizio sulla Calabria si rischia di rimanere allibiti: “La Regione non solo non è dotata di strumenti e sistemi atti a garantire in termini di cassa il rispetto dei vincoli tra entrate e spese, ma non è oggettivamente nelle condizioni di conoscere le proprie disponibilità di cassa vincolata dell’anno, né quelle per le quali occorrerebbe provvedere alla ricostituzione. Tale situazione costituisce violazione del principio di trasparenza ed è certamente foriera di una grave situazione di squilibrio della gestione vincolata della cassa regionale”. E anche di quelle statali, aggiungiamo noi.

Le certezze che mancano

Le certezze che mancano

Federico Fubini – La Repubblica

Il passo del governo di recente è così rapido che è mancato il tempo di ripensare a un dettaglio. È un peccato, perché su di esso si giocano la legge di Stabilità o il rapporto dell’Italia con il resto d’Europa. E quel dettaglio è ingombrante: quest’anno le previsioni di crescita si sono dimostrate fuori bersaglio di 15 miliardi. L’Italia credeva di essere in ripresa, ma era in recessione.

Si tratta di capire come sia stato possibile sbagliare la mira di tanto. È una domanda decisiva per la legge di Stabilità in gestazione, perché nella soluzione di quel rebus il governo di Matteo Renzi può trovare una guida che gli eviti nuove trappole. L’Italia nel 2014 è andata peggio del previsto in parte perché l’export ha deluso, anche a causa della frenata in Cina, Russia o Germania. Ma l’altra origine della recessione del 2014 è più vicina a casa ed è questo che conta per la legge di Stabilità 2015: il Pil è sceso perché gli italiani hanno investito in costruzioni e macchinari industriali molto meno del previsto. Gli investimenti dei privati sono scesi del 2%. È mancata la fiducia: chi ha denaro da mettere al lavoro per creare impianti lo ha tenuto fermo, incapace di farsi un’idea su cosa lo aspetta sulle tasse, le regole del lavoro o i tempi della giustizia.

L’incertezza produce paralisi, ma proprio per questo ha un ruolo di primo piano nella legge di Stabilità di cui ieri al Quirinale hanno parlato Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Il nuovo bilancio potrà contenere o togliere un premio ai ceti medio-bassi o ai fondi pensione, togliere tasse dalle imprese o dai nuovi contratti e imporre tagli agli enti decentrati. Ma non otterrà quello che vuole – il primo anno di crescita dal 2010 – se non produce certezze su ciò che gli italiani si devono attendere da ora in poi. In assenza di questo ingrediente immateriale, nessuno investirà per ampliare un cementificio, aprire un ristorante, situare una fabbrica in Italia anziché in Romania.

Quanto a questo, i fotogrammi che passano sotto gli occhi in queste ore non aiutano. Non c’è dubbio che la Ragioneria generale dello Stato alla fine metterà il suo timbro sulla legge di Stabilità, né che il capo dello Stato assecondi – nel suo ruolo – la spinta di Renzi per disincagliare l’economia. Qualche dubbio invece può esserci sulla capacità di questa legge di bilancio di produrre certezze. L’aggiornamento al documento di economia e finanza del Tesoro, un paio di settimane fa, annuncia che anche nei prossimi anni gli italiani cammineranno su un terreno mobile. L’Iva può salire in automatico di 12 miliardi nel 2016 e fino a 21 nel 2018 se non fossero raggiunti gli obiettivi di deficit. Il Tesoro stesso avverte che ciò può portare a una caduta di consumi e investimenti e meno Pil per circa 10 miliardi. Sulla base di una nota a pie’ di pagina nei documenti del governo, non è facile rischiare i propri soldi per produrre beni o servizi al consumatore in Italia. Più difficile ancora se, per varare la legge di Stabilità su un terreno solido in termini contabili, una clausola simile fosse inserita già dal 2015.

L’incertezza ha un suo modo virale di trasmettersi e questa viene da quella di certi provvedimenti inseriti a copertura dei tagli di tasse nella legge di Stabilità. Già da ora il governo per esempio prevede entrate in più per 3,8 miliardi dalla lotta all’evasione. Le novità su questo fronte sono importanti e una di queste è il pagamento dell’Iva da parte dei committenti, non più da parte di imprese di pulizia o costruzioni che spesso “dimenticano” di farlo. Yoram Gutgeld, consigliere di Renzi, è in buona fede quando prevede che le risorse dalla lotta all’evasione saranno anche maggiori del previsto. Ma tredici anni di impegno su questo fronte hanno prodotto dieci miliardi e, se avverrà, il 2015 segnerebbe dunque un balzo straordinario. Certo quest’anno le risorse dall’evasione sono state di 300 milioni, dieci volte meno. Prudenza imporrebbe di non dar quasi niente per scontato e tenere conto dei risultati solo a fine anno: così farà la Commissione europea nel giudicare il bilancio italiano, non a caso il governo deve ricorrere alle maxi-clausole sull’Iva che bloccano la visibilità sul futuro.

Altri dubbi si potrebbero poi avere sui 6,2 miliardi di tagli su regioni e enti locali. La realtà dell’Italia di oggi è che moltissime amministrazioni hanno conti in parte falsi, da ripulire dolorosamente: trovare sei miliardi in più di economie presuppone una profonda riorganizzazione dei poteri locali, del loro numero e dei loro statuti autonomi o speciali. Eppure nessuno ne parla, meno di tutti il governo. Renzi ha impostato una legge di Stabilità per dare una scossa positiva alle famiglie e alle imprese, a costo di sfidare la Commissione Ue. Ormai non gli serve a nulla trovare nuovi capri espiatori se qualcosa non va. Il suo compito, più faticoso, adesso è solo produrre certezze.

Capitali di nuovo in fuga dall’Italia, oltreconfine 67 miliardi in due mesi

Capitali di nuovo in fuga dall’Italia, oltreconfine 67 miliardi in due mesi

Federico Fubini – La Repubblica

Un deflusso del genere dall’Italia non si era visto da prima che Mario Draghi, nel luglio del 2012, pronunciasse le sue parole più celebri: “Faremo qualunque cosa per preservare l’euro”. Quel giorno il presidente della Bce arrestò e poi invertì la corrente della fuga di capitali da Paesi più in crisi. Ora, per la prima volta da quei giorni, la direzione di marcia si è ribaltata: via dall’Italia, verso l’estero.

Questa non è una replica del film di due o tre anni fa, in cui un’intera porzione d’Europea fu colpita dalla sfiducia. Stavolta, sugli ultimi due mesi, la fuoriuscita di denaro riguarda solo l’Italia. Nelle altre economie della cosiddetta “periferia”, Grecia, Spagna e Portogallo inclusi, la bilancia delle partite finanziarie procede come nell’ultimo anno o due. In agosto dall’Italia invece sono usciti capitali per 30,3 miliardi di euro, mentre la corsa verso l’estero in settembre ha addirittura accelerato con un saldo negativo di 37 miliardi. Era dal periodo drammatico fra la primavera 2011 e la primavera del 2012 che non si assisteva a un’emorragia così sostenuta. La tendenza è fotografata dal sistema europeo delle banche centrali, l’Eurosistema che dà vita alla Bce, attraverso i saldi di Target 2. Quest’ultimo è il meccanismo di pagamenti anche fra privati in Europa, che l’Eurosistema segue perché sono le stesse banche centrali a regolare i pagamenti attraverso i confini con un meccanismo di crediti e debiti.

È questo il termometro che ha segnalato la grande corsa verso l’uscita dall’Italia negli ultimi due mesi. Poiché gli scambi di import e export procedono di solito a ritmo costante, è sicuro che la fuoriuscita di capitali sia data da una decisione degli investitori finanziari: risparmiatori, fondi, banche. Sulla base dei dati pubblici è più difficile spiegare quali categorie di titoli italiani siano smobilizzate per portare denaro fuori. Per ora la fuga non sembra riguardare i titoli di Stato, ma dal 4 settembre scorso il Ftse-Mib, principale listino della borsa di Milano, ha perso il 9,5%: è una fuga di circa 40 miliardi di euro. Parte di questo denaro sembra essere stato parcheggiato in Germania: la posizione creditoria della Bundesbank nell’Eurosistema negli stessi mesi si è infatti impennata per circa la metà dei volumi finanziari persi dall’Italia. Il resto sembra essere finito fuori dall’area euro, contribuendo alla svalutazione della moneta unica.

Anche nel 2011 andò così: la fuga di capitali dall’Italia investì prima il mercato azionario, quindi quello dei titoli di Stato dopo qualche mese di deflussi dall’azionario. Non è detto che stavolta debba ripetersi il copione della crisi finanziaria, partendo dalla debolezza di borsa per poi si allargarsi ai titoli di Stato e facendo impennare lo spread con i bund tedeschi. Ma Frank Westermann dell’università di Osnabrueck ha notato lo smottamento di agosto e settembre e si è chiesto perché riguardi solo l’economia più grande dell’Europa del Sud. La prima spiegazione è la più ovvia: l’Italia è il solo Paese della periferia che resta in recessione, senza risultati visibili dalle riforme. Inoltre, poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre duecento miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Westermann però offre anche una spiegazione politica: Draghi nel 2012 promise interventi illimitati della Bce solo in difesa di quei Paesi che avessero accettato la troika, cioè un programma di politiche controllate e monitorate dal resto d’Europa. L’Italia è il solo Paese del Sud a non averlo sottoscritto, e ha un sistema politico che rifiuta la troika. È un tema del quale i politici nel Paese e nel resto d’Europa non parlano mai. I dati sulle fughe di capitale, ogni tanto, invece sì.

Serve la riforma, non uno scalpo

Serve la riforma, non uno scalpo

Federico Fubini – La Repubblica

Dopo la fiducia sul Jobs Act in Senato, archiviato il vertice di Milano, Matteo Renzi pub fermarsi un attimo a misurare lo spread che forse oggi conta di più. Non è finanziario, è politico e psicologico. E aiuta a capire chi alla fine riuscirà, e chi no, a districarsi in questa interminabile crisi dell’euro. Ciò che rivela quello spread è che non ce la stanno facendo tanto i Paesi che, per dirla nel gergo di Bruxelles, “hanno fatto le riforme”. Ne stanno uscendo meglio quelli che, piuttosto, si sono detti dall’inizio: questa crisi è frutto in primo luogo dei nostri limiti, ce la siamo creata con le nostre mani, dobbiamo innovare su noi stessi per liberarcene. A restare indietro sono gli altri, quelli che per anni si sono esercitati a dare sempre e solo la colpa agli altri – a chiunque altro – e ora affrontano trasformazioni importanti senza sapere perché, o verso dove.

Dev’essere questa la sfumatura che mette oggi l’Irlanda e la Spagna in traiettoria di ripresa, ma la Francia e l’Italia ancora in mezzo alla palude. Ovunque in questi quattro Paesi si sentono argomenti anche molto validi su ciò che la Germania e la Banca centrale europea dovrebbero fare e non fanno. Ma c’è una qualità della reazione mentale allo shock che fa la differenza, ancor più se declinata sulla scena che abbiamo sotto gli occhi: i voti di fiducia in Senato su una riforma ancora imprecisata dei contratti di lavoro permanenti; le pressioni e le attese a Berlino, i giudizi di Bruxelles, le tensioni nella Bce sul futuro di un potenziale ordigno finanziario chiamato Italia; e nel Paese, la fine dell’illusione che il tempo sia comunque dalla nostra parte.

A Roma c’è un premier sempre più costretto a muoversi fra questi campi di forza, ciascuno intento a catturarlo nella propria gravitazione. Nel governo tedesco si è ormai convinti («sulla base dell’esperienza», nota il ministro Wolfgang Schaeuble) che i Paesi fragili affrontano il cambiamento solo se vincolati a farlo. Può essere un modo più o meno elegante per dire che solo la troika funziona su gente come noi, o per alzare l’intensità della sorveglianza e delle relative condizioni, o magari solo il segnale che la Germania non ha fretta: può lasciare l’Italia nella sua agonia economica, finché non capirà che deve cambiare strada.

Poi c’è il cantiere aperto della riforma del lavoro, con il passaggio drammatico di ieri. È senz’altro legato alle pressioni europee, perché Renzi di colpo ha affrontato l’articolo 18 e la disciplina dei licenziamenti dopo aver spiegato a lungo che queste cose contavano poco. Ha cambiato rotta solo dopo i suoi contatti estivi con i leader europei. Il risultato è che ieri, con François Hollande e Angela Merkel a Milano, a Roma è andato in scena il più strano dei voti di fiducia: il Senato ha delegato il governo a riformare i contratti sulla base di un testo che non ha una sola parola sul punto più delicato, il regime dei licenziamenti economici e disciplinari. In realtà Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, ha delineato in aula un percorso: nei nuovi contratti (non negli esistenti) i licenziamenti economici non prevedono il reintegro per decisione giudiziaria, mentre nei casi disciplinari la possibilità di reintegro sarà delimitata. E sarebbe ingeneroso sostenere che la delega votata ieri è in bianco, perché il testo contiene un disegno equilibrato: dal welfare alle politiche attive di formazione e collocamento, fino alla pulizia nella giungla delle forme di precariato, i passi avanti si vedono e dovevano arrivare già anni fa, decisi magari da chi oggi protesta.

Resta però l’impressione di un colossale corto circuito fra ciò che si fa e le ragioni per le quali si cerca di farlo. Forzando i tempi e il dibattito, facendo leva sul timore di molti senatori di andare a casa se cade il governo e si va al voto, il premier ha preferito mettere parti del suo stesso partito spalle al muro in nome di un simbolo: l’articolo 18. Anche la transizione ai negoziati sui salari in azienda è sul tavolo, è anche più importante dell’articolo 18, ma semplicemente non se ne parla perché come totem funziona piuttosto male. Non riescono a brandirlo né i riformatori, né i loro nemici. Pier Carlo Padoan ripete spesso che le riforme approvate fanno bene all’economia solo se su di esse «c’è consenso: non sono uno scalpo da offrire, ma un’innovazione da spiegare e da condividere. Quella del lavoro, così com’è, ha molti aspetti positivi. È ora di parlarne, e mettere scalpi, simboli e totem nel posto che li attende da tempo: il solaio.

Fondazioni e banche, il sonno della politica

Fondazioni e banche, il sonno della politica

Federico Fubini – Affari & Finanza

Qualche anno fa il sistema bancario italiano, come l’intero Paese, è entrato in una zona d’ombra in cui l’imperativo non era migliorarsi. Era vivere. Non c’era tempo per ripensare le strutture di governo del sistema finanziario, anche se molto è già stato fatto per renderle più credibili. Poí è iniziata la stagione degli esami europei sugli istituti di credito in vista del passaggio della vigilanza a Francoforte, e anche quella ha congelato qualunque altra priorità. Tra poco però giustificazioni del genere non varranno più, perché il passato recente ha lasciato tracce profonde.

Se c’è qualcosa che colpisce per esempio nel disastro di Mps, nove miliardi di perdite dal 2011 per gli errori della vecchia gestione, è l’ambivalenza nel Paese. Il sistema Italia ha risposto con sorprendente efficienza ai problemi della banca ma ha evitato di intervenire sui modelli di gestione che l’hanno generato. Il governo ha tenuto in piedi Mps, permettendo ai contribuenti di guadagnare con gli alti interessi sui prestiti a Siena; le élite del mondo finanziario hanno messo a disposizione manager capaci per la nuova gestione; la Banca d’Italia ha spinto sul rafforzamento del bilancio e del capitale della banca, e continuerà a farlo dopo gli stress test europei; l’establishment del Paese è riuscito a dare leader più trasparenti e sensati alla fondazione. Eppure nessuno ha mai fatto chiarezza sulla domanda di fondo: Montepaschi è stata un’anomalia o un caso estremo?

Gli investimenti scriteriati, l’ansia da scalate a prezzi illogici, i prestiti clientelari sono il frutto della specifica inettitudine di pochi: non si trovano in Italia altri casi del genere fra le grandi banche (fra le medie e piccole sì). Ma un recente rapporto del Fmi sottolinea alcuni problemi sistemici senza i quali per Mps non sarebbe mai finita così. L’Fmi mostra che le fondazioni sono ancora molto influenti sulle banche, e certo le hanno aiutate ad attraversare la crisi. In Intesa Sanpaolo e Unicredit, due istituti gestiti molto meglio del vecchio Monte, esprimono oltre l’80% dei posti in consiglio rispettivamente con il 25% e il 9% delle azioni. In 35 banche hanno più del 20% del capitale e di fatto le controllano. E solo un quarto delle fondazioni è davvero uscito dal mondo del credito.

Questi enti, accusa l’Fmi, sono dominati dai politici, con il 47% dei loro consigli eletto dalle amministrazioni locali. Sono soggetti a conflitti d’interesse. Le fondazioni non sono costrette a pubblicare conti certificati, non hanno limiti sul loro indebitamento e sono sottoposte a una vigilanza debole: una sentenza della Corte costituzionale del 2003 limita i poteri di controllo del Tesoro e questo vuoto da allora non è mai stato colmato. Gli ex sindaci dell’Italia centrale che oggi sono a Palazzo Chigi di questi problemi hanno una conoscenza di prima mano. Dovrebbero occuparsene. Oppure non potranno sostenere che il prossimo caso “à la Mps” è stato solo sfortuna.

L’asse fragile con la Francia

L’asse fragile con la Francia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un punto che accomuna le due capitali, è piuttosto il tentativo di non soffocare un’economia già debole con un’ulteriore stretta ai conti. Entrambi i leader, Matteo Renzi e Hollande, sono in cerca di investimenti, consumi delle famiglie, un qualche segno di ripresa all’orizzonte. Ma entrambi stanno toccando con mano lo stesso limite: nella loro situazione di fragilità, c’è ormai pochissimo che i due governi nazionali possono fare per far ripartire la domanda nell’immediato. Per l’Italia provare a farlo con il deficit, o mettendo in tasca ai lavoratori gli accantonamenti pensionistici nelle aziende, è un gioco ad altissimo rischio e rendimento minimo. La spinta alla domanda ormai spetta quasi solo a dei progetti europei, alla Bce, all’euro che si svaluta o a una eventuale svolta della Germania. Renzi e Hollande possono solo pensare a modernizzare i propri Paesi, a metterli al passo con l’economia globale del ventunesimo secolo. Ed è qui che avanzano, in questo davvero insieme, come nella giungla di notte.

Se l’Italia seguisse le orme di Parigi sul deficit il suo debito salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo. Se l’Italia pagasse interessi sul debito come la Francia, sarebbe la Germania. E se la Francia pagasse interessi sul debito come l’Italia, sarebbe sul punto di chiamare la troika. Naturalmente niente di tutto questo succede nella realtà, ma la situazione nei due Paesi è tanto simile in superficie quanto diversa a una seconda occhiata. I due governi hanno molti degli stessi problemi e delle stesse idee, ma non hanno interesse a prendersi l’un l’altro a modello. Parigi gestisce un esercizio di bilancio anche più fragile di quello italiano, stando ai dati della Commissione Ue. Prima ancora di pagare gli interessi su un debito che ormai sfiora il 100% del Pil, il governo francese è già in rosso di oltre l’1,5% del prodotto lordo. L’Italia invece è in surplus di bilancio quasi quanto la Germania (almeno per ora), cioè di oltre il 2% del Pil prima di onorare le cedole sui suoi titoli di Stato e gli altri strumenti di debito. Se la Francia non ha un deficit ancora più alto, una dinamica del debito ancora più esplosiva e costi di finanziamento delle imprese più insostenibili, è per un solo motivo: paga tassi d’interesse più bassi dell’Italia e allineati a quelli tedeschi.

Ancora oggi, dopo anni di compressione degli spread fra i vari Paesi dell’euro, i titoli a dieci anni della Francia rendono ben 100 punti-base (cioè l’1%) meno di quelli italiani. Nella psiche degli investitori, Parigi è ancora assimilata con Berlino come nucleo base del progetto europeo. In quei prezzi di mercato così simili fra le due capitali è racchiusa l’identificazione politica fra i due grandi Paesi dell’area e l’idea che la Germania potrà sì lasciar cadere l’Italia, la Spagna o la Grecia; ma il suo alleato sull’altra sponda del Reno, questo mai. Viene di qui la storica riluttanza di tutti i governi di Parigi a effettuare un vero cambio di alleanze, ammesso che davvero il gioco europeo funzioni così. Se l’Eliseo cercasse di saldare un presunto «asse» con Palazzo Chigi, in contrasto con Berlino, gli investitori ne prenderebbero atto e tratterebbero la Francia di conseguenza: i tassi d’interesse sul debito di Parigi si allontanerebbero da quelli tedeschi, si avvicinerebbero a quelli italiani, e gli equilibri dell’economia transalpina salterebbero.Questa Francia così poco competitiva, così minacciata dal Front National di Marine Le Pen, può resistere solo se assimilata dal mondo esterno al «nucleo duro» d’Europa. Non alla cosiddetta «periferia».

Allo stesso tempo, neanche il governo di Roma ha interesse a seguire le orme di François Hollande. È vero che se l’Italia avesse un costo del debito «francese» – al 2,5% e non al 5% del Pil – il suo deficit scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia, paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda.

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Federico Fubini – Affari & Finanza

Pochi Paesi sono ossessionati come l’Italia dal proprio declino, pochissimi sembrano così incapaci di venirne a capo. Dalle regole del lavoro alla burocrazia, alle tasse, ovunque vengono additati dei colpevoli. Una categoria però sembra attraversare indenne il crollo della produzione industriale del 25% in questi anni: coloro che ad essa hanno presieduto, gli imprenditori. Valutazioni sulla capacità e competenza di molti di loro non entrano nei dibattiti sulle riforme strutturali. Qualche indizio dice che è il caso di iniziare a farlo. Non sarà tutta colpa dell’articolo 18 se le imprese italiane sono fra le più fragili in Europa: nelle loro strutture finanziarie, il capitale proprio è il 15% (il resto è debito), contro il 24% della Francia, il 28% della Germania, il 44% della Gran Bretagna. Gli imprenditori non mettono i loro soldi in azienda e non lasciano che lo facciano altri, magari in Borsa.

Bruno Pellegrino dell’Università della California e Luigi Zingales di Chicago stanno per pubblicare uno studio per il National Bureau of Economic Research, il primo think tank economico degli Stati Uniti, dove mostrano un fallimento. Gli imprenditori italiani hanno azzoppato la produttività del Paese perché spesso hanno preferito circondarsi di manager scarsi ma fedeli piuttosto che bravi. Il virus del familismo ha portato al potere nelle imprese troppi incompetenti, che non sono riusciti a cavalcare la rivoluzione tecnologica. Dicono Pellegrino e Zingales: «Il clientelismo e favoritismo nelle imprese sono le cause ultime della malattia italiana». L’aspetto sorprendente è che non è vero ovunque.

C’è un ceto di imprese italiane fra i 500 milioni e i tre miliardi di fatturato, spesso leader mondiali di settore, che in questi anni sta prosperando. Intercos nella cosmetica, Ima o Gd nel packaging, Interpump nella meccanica, Danieli nell’acciaio e vari altri. Nomi che alla maggioranza degli italiani dicono poco, ma non solo perché non sono a contatto con i consumatori. Se non se ne parla, è perché i loro azionisti e manager non cercano sponde nei partiti o nelle lobby. È gente che sa lavorare, cresce sul serio e, in questo caos di Paese ha rinunciato da un pezzo a esercitare la prerogativa più preziosa: il potere dell’esempio. Preferiscono sparire, volare sotto al radar per non attrarsi guai, piuttosto che mostrare ai colleghi come si fa e tutti gli italiani che vincere si può. Su questo ceto di aziende, medie su scala globale, adesso grava una responsabilità. Devono assumere il ruolo delle grandi imprese che l’Italia non ha più. Nella moda, nel packaging, nella meccanica o nell’alimentare è ora che cadano le logiche di famiglia, le rivalità di distretto o le gelosie di marchio per creare, nel tempo, nuove realtà con muscoli davvero globali. Soggetti aggregatori senza passaporto francese o indiano, ma italiano. È una riforma strutturale che non necessita accordi nelle sedi di partito: forse, per una volta, si può.

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Per l’articolo 18 sarà un lungo addio, l’apartheid tra i contratti durerà un decennio

Federico Fubini – La Repubblica

Seguaci di Margaret Thatcher contro fedeli della bocciofila. Rottamatori contro custodi di una visione che in Germania fu superata nel 1959, a Bad Godesberg, quando la socialdemocrazia accettò l’Occidente. E via con gli scambi di accuse. Non appena si tocca il tema del lavoro in Italia, i decibel salgono al punto da coprire qualunque altro segnale. Le proposte assumono un significato che, sul momento, sembra superare il loro impatto concreto. In questo l’idea di introdurre un contratto permanente a tutele progressive, ma senza diritto di reintegro per via giudiziaria, non fa eccezione.

I semplici numeri alla base di questa ipotesi però raccontano una situazione diversa. Questa riforma non ha l’aria di segnare una svolta radicale, ma un’evoluzione (quasi) cauta rispetto all’aggressività con cui avanza il male italiano. Il tutto, sullo sfondo di sistema di welfare ormai talmente ingiusto verso i più deboli che, visto nei dati reali, grida al cambiamento. Le statistiche su cui il ministero del Lavoro sta misurando gli effetti reali della riforma sono quelle sui nuovi contratti di lavoro. E quanto a questo, i dati segnalano un fenomeno crescente: ai ritmi attuali, le nuovi assunzioni a tempo indeterminato rischiano di diventare una specie in via di estinzione. Nel 2011 sono state 1,8 milioni, nel 2012 sono scese a 1,7 milioni e l’anno scorso si sono ridotte a 1,5 milioni. Non c’entra solo la poca disponibilità di posti di lavoro, perché i contratti coperti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un tempo la norma, calano molto più in fretta degli altri. Negli ultimi tre anni sono passati dal 20% al 16% di tutti i nuovi contratti. È una tendenza al declino che continua e trova la sua contropartita nella crescita dei contratti a tempo: erano il 63% del totale nel 2011 e sono saliti al 68%. Malgrado un crollo dell’economia del 5% intervenuto nel frattempo, ne sono stati firmati ben 6,5 milioni sia quattro anni fa che l’anno scorso.

Se questi sembrano numeri elevati per un Paese così affamato di lavoro, è perché gli stessi precari firmano più contratti brevi in un solo anno. Ma le statistiche del ministero del Lavoro rivelano anche un’altra conseguenza della riforma voluta da Matteo Renzi: molto probabilmente, al premier serviranno non meno di sette o anche dieci anni per cambiare a fondo il rapporto fra le imprese e i loro dipendenti permanenti. Più che una rivoluzione, sembra una trasformazione progressiva.

Possibile? L’idea del premier sulle tutele crescenti ricorda un aspetto del modello iberico, da Renzi spesso deprecato. In Spagna le tutele crescenti valgono per tutti, perché l’indennizzo in caso di licenziamento per motivi economici vale per qualunque dipendente a tempo indeterminato. Per i giovani il governo di Mariano Rajoy propone qualcosa di simile a ciò che ora vuole fare Renzi: incentivi fiscali o contributivi sui primi due anni per le imprese che li assumono con contratti permanenti. In questo l’Italia cerca di applicare una versione di ciò che la Spagna fa già.

L’impatto però sarebbe graduale, perché la riforma non si applica ai contratti esistenti ma solo alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Queste ultime in Italia sono state due milioni nel 2011 e 1,5 milioni nel 2013, risulta al ministero del Lavoro. Ma poiché l’Istat registra circa 14,5 milioni di dipendenti assunti in modo permanente, l’attrito dei nuovi contratti fa sì che la scomparsa dell’attuale tutela dell’articolo 18 prenderebbe gran parte del prossimo decennio. Un effetto collaterale può verificarsi subito: certi lavoratori potrebbero diventare riluttanti a cambiare azienda, perché non avrebbero più la protezione di cui godono oggi in caso di licenziamento. Con il vecchio contratto potrebbero contare su un giudice del lavoro che li rimette al loro posto, se l’azienda vuole cacciarli; con il nuovo avrebbero diritto solo a un indennizzo. Dunque la coesistenza dei due regimi può bloccare gli ingranaggi di un normale mercato del lavoro, perché pochi avranno ancora voglia di muoversi.

L’altro punto critico riguarda il sostegno ai disoccupati. Chi resta senza cassa integrazione o mobilità, perché era precario o perché è a casa da troppo tempo, oggi può contare solo sull’assistenza sociale dei comuni. Di qui la povertà estrema che si sta diffondendo in molte parti d’Italia, specie fra chi vive in comuni rimasti senza soldi. Finisce così che il welfare è più ricco dove serve di meno, ma miserabile dove sarebbe più drammaticamente necessario. A dati Istat, nel 2011 la spesa per abitante in interventi sociali ha superato i 250 euro in Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, ma è stata di 25 euro in Calabria e di 45 in Campania. Non è un caso: grazie al loro statuto speciale, Trentino e Valle d’Aosta ricevono dallo Stato oltre il doppio dei trasferimenti, sempre per abitante, rispetto alle regioni del Sud. Questo non è un welfare possibile nel terremoto prolungato che il Paese sta vivendo. Renzi ha trovato una parola per definirlo, e i numeri gli danno ragione. Apartheid.

Tre strade per cambiare

Tre strade per cambiare

Tito Boeri – La Repubblica

Ieri alla Camera Renzi ha detto che il suo governo intende varare la riforma del lavoro prima della fine dell’anno se necessario ricorrendo ad un decreto. Bene in effetti decidere in fretta prima che ci tolgano quel poco di sovranità limitata che ci è restata. Fondamentale dare segnali forti, che possano essere percepiti dai giovani che stanno decidendo se e dove emigrare e da chi guarda al nostro Paese da molto lontano e ha soldi da investire.

Questa settimana dovrebbe concludersi l’esame in Commissione al Senato della legge delega sulla riforma del lavoro. Una legge delega dovrebbe fissare principi generali e affidare al governo il compito di tradurli in norme specifiche. Invece l’impressione è che sin qui si sia discusso di tanti dettagli (mansioni, controlli a distanza, scambi di ferie, etc.) perdendo la visione d’insieme e con questa il senso delle sfide che stanno di fronte alle politiche del lavoro in Italia.

Il problema centrale è quello della bassa produttività. Come ricordava ieri Federico Fubini su queste colonne, il divario nel prodotto per addetto fra il nostro Paese e la Germania continua ad aumentare. Non va molto meglio se ci compariamo al Regno Unito e alla stessa Spagna. Questi andamenti sono tutt’altro che accidentali, per certi aspetti sono ricercati. Da ormai vent’anni abbiamo deciso di puntare tutto sui lavori e i lavoratori temporanei, a bassa produttività e bassi salari. Nelle parole di Maurizio Sacconi, che più a lungo di tutti ha gestito le politiche del lavoro in Italia, il futuro è nei “lavori umili” e i giovani devono “rivalutare il lavoro manuale”. E’ stato accontentato: nella disoccupazione giovanile al 43 per cento spicca il fatto che i laureati tra i 25 e i 29 anni faticano più dei diplomati a trovare lavoro. Non ci sono posti per loro. Eppure accettano di tutto, non sono “choosy”, schizzinosi, come lamentava Elsa Fornero: un terzo dei giovani che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori non solo temporanei, ma anche con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). I lavoratori potenzialmente più produttivi, sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne vanno all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Se ne vanno perché la segregazione cui ha accennato ieri Renzi alla Camera diventa sempre più forte, purtroppo grazie anche alle politiche varate sin qui dal suo governo. Da quando è entrato in vigore il decreto Poletti, è infatti ulteriormente aumentata la quota di assunzioni e licenziamenti su contratti temporanei (è diminuita quella su contratti a tempo indeterminato), mentre sono diminuite le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il turnover avviene ormai tutto in questo segmento nettamente separato dal resto del mercato del lavoro. Non dà un futuro, non dà speranze.

Se la riforma del lavoro vuole davvero lasciare il segno, dovrebbe investire nella creazione di posti di lavoro che non siano nati con una data di scadenza e che offrano vere opportunità di miglioramento di salari e produttività nel corso della carriera. Sono posti in cui conta la qualità dell’incontro fra domanda e offerta e l’investimento in formazione sul posto di lavoro. Il contratto a tutele crescenti permette di sperimentare se un rapporto di lavoro a tempo indeterminato funziona o no dando modo al datore di lavoro, nel caso in cui la risposta fosse negativa, di interromperlo almeno in una fase iniziale con costi certi e relativamente contenuti. Imporre a chi dà lavoro di pagare per il licenziamento di un neoassunto quanto paga per il licenziamento di un lavoratore con vent’anni o più di anzianità aziendale è una negazione della sperimentazione. Impedisce di creare posti a tempo indeterminato su mansioni in cui la qualità dell’offerente non può essere valutata con un semplice colloquio di lavoro, ma richiede mesi di compresenze in azienda. Offrire un compenso monetario al lavoratore in caso di licenziamento, che sia crescente con la durata dell’impiego, incentiva il lavoratore a investire nella durata del rapporto di lavoro, dunque nella formazione. Permettere i licenziamenti individuali e non solo quelli collettivi, lasciando al datore di lavoro facoltà di scegliere chi licenziare e chi no, stimola fortemente gli investimenti in produttività, di entrambe le parti, lavoratori e imprese.

Il problema della produttività è particolarmente acuto da noi perché il regime di contrattazione non permette di legare salari e produttività. Per le imprese che devono creare lavoro quel che conta è il rapporto fra quanto il lavoro produce e quanto costa, fra produttività del lavoro e salari. Stranamente in Commissione a Palazzo Madama si è parlato di tutto tranne che di salari, come se non avessero nulla a che vedere con il mercato del lavoro. Può ovviare a questa grave dimenticanza un accordo tra le parti che sancisca che, come in Spagna e in Germania, nelle aziende dove si svolge la contrattazione aziendale, le decisioni prese in questi accordi devono poter prevalere su quanto stabilito dai contratti nazionali, fatte salve ovviamente le leggi dello Stato. Sarebbe un modo per stimolare la contrattazione decentrata, azienda per azienda, prendendo atto del fatto che gli incentivi fiscali introdotti in questi anni, con la detassazione dei premi di produttività, non sono serviti a nulla: da quando ci sono, è diminuita la quota di aziende in cui si fa la cosiddetta contrattazione di secondo livello. Potremmo cancellare gli incentivi fiscali, risparmiando quasi un miliardo, da destinare ad allargare la platea dei beneficiari del bonus di 80 euro.

Per investire nei nuovi lavori bisogna affinare il passaggio dalla scuola al lavoro. Qui possiamo trasformare un fallimento in una grande opportunità, una cocente delusione in una riforma pilota anche per l’Europa. Il fallimento è quello, peraltro annunciato, della cosiddetta Garanzia giovani. A fronte dei quasi 200.000 giovani che si sono iscritti, i centri dell’impiego hanno identificato 103 opportunità d’impiego. Nove giovani su dieci iscritti su www.garanziagiovani.gov.it non hanno neanche ricevuto il primo colloquio di orientamento. E’ l’ennesima delusione, dopo il rapimento dei 200.000 posti di lavoro promessi dal pacchetto sul lavoro del Governo Letta. Chi li ha visti? Mentre chiediamo maggiori investimenti all’Europa non possiamo permetterci di far affondare l’unico investimento che ha fatto in questi anni nel nostro mercato del lavoro. Perché allora non permettere ai giovani di spendere la dote loro concessa dall’Europa in corsi avanzati di formazione-lavoro organizzati da università sul territorio in contatto con le aziende? Perché lasciare che questi soldi vengano buttati via presso qualche centro dell’impiego o finiscano per arricchire unicamente gli intermediari privati, anziché favorire i giovani? L’apparato normativo c’è già. Le università possono già oggi istituire corsi brevi di formazione a contatto con le aziende, in cui i frequentanti passano metà del tempo nelle aule universitarie e l’altra metà in azienda. La partecipazione e il lavoro dei giovani potrebbe essere in gran parte remunerata con la dote. Questi corsi non offrono garanzie di trovare lavoro, ma trasferiscono capitale umano, competenze che sono davvero utili alle aziende, che ci mettono del proprio nel formare il potenziale dipendente e che hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che l’università faccia bene il suo mestiere.

Una riforma del lavoro che riesca a incidere su questi tre aspetti, regimi contrattuali, contrattazione salariale e formazione tecnica avanzata, darebbe un segnale forte ai giovani, all’Europa e a chi guarda anche da lontano al nostro Paese. Saremmo i primi a introdurre un contratto di lavoro che serve a unificare il mercato del lavoro, riducendo la segregazione dei lavoratori temporanei. Saremmo i primi a utilizzare i miliardi della garanzia giovani per introdurre un sistema di formazione duale come in Germania, Austria e Svizzera, i Paesi dove la disoccupazione giovanile è più bassa. E non spingeremmo più chi ha soldi da spendere e vuole creare posti da lavoro ad andare altrove perché ritiene che da noi comunque non conterebbe nulla. Bisogna offrire a questi investitori la possibilità di negoziare su tutto, orari, organizzazione del lavoro e salari. Lo farà con le organizzazioni dei lavoratori nell’azienda in cui vuole investire senza vederselo imposto dall’alto.