finanza

Depositi delle banche italiane raddoppiati negli ultimi 10 anni

Depositi delle banche italiane raddoppiati negli ultimi 10 anni

NOTA

In dieci anni le banche italiane hanno visto i propri depositi crescere del 96%, per un controvalore di circa 1.160 miliardi di euro, ma di questi meno della metà (530 miliardi) è servita a finanziare famiglie e imprese (+47% nello stesso periodo), mentre la restante parte è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli (cresciuta del +189% oppure 559 miliardi).
Le rilevazioni del Sistema Europeo delle Banche Centrali su 14 diversi sistemi bancari pongono l’Italia nei primi posti delle classifiche tra quelli che hanno visto incrementare maggiormente il proprio stock dei depositi nel periodo che va dal 2005 al 2015. La crescita, per il nostro paese, corrisponde sostanzialmente a un raddoppio: da 1207 a 2368 miliardi, gran parte dei quali accumulati nel periodo pre-crisi. Anche dopo il fallimento di Lehman, tuttavia, il sistema ha continuato ad aumentare la raccolta, seppure ad una velocità inferiore (+205 miliardi).

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Diverso il discorso per quanto attiene all’impiego di prestiti all’economia reale, ed in particolare a famiglie e imprese: in questo caso l’Italia si ritrova solo nella seconda metà della classifica, con una crescita del +47% corrispondente a 530 miliardi. Rispetto al settembre 2008 (data considerata come lo “spartiacque” prima e dopo il crollo di Lehman Brothers), i prestiti verso le imprese sono diminuiti del -6% (56 miliardi) mentre verso le famiglie sono comunque incrementati del +28% (132 miliardi).

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Ciò che più è aumentato negli attivi dei bilanci bancari italiani è infatti l’impiego in titoli di stato e obbligazionari, triplicati nell’ultimo decennio con un aumento di 559 miliardi (+189%). Solamente il sistema portoghese ha visto una crescita maggiore della nostra nello stesso periodo, mostrando un +288% pari a 81 miliardi circa.

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Questi dati certificano dunque la radicale trasformazione del modello di business delle nostre banche rispetto ai livelli pre-crisi, al quale è corrisposto un ricorso ben maggiore all’acquisto di titoli di stato e obbligazionari rispetto agli impieghi verso famiglie e, soprattutto, imprese. In tale direzione infatti si è incanalata la maggior parte degli oltre 1.100 miliardi di nuovi depositi, al quale peraltro si è accompagnata una crescita di 276 miliardi della raccolta in titoli di debito e di ulteriori 271 miliardi di capitale e riserve.
Banche popolari, gli intrecci pericolosi (da tagliare)

Banche popolari, gli intrecci pericolosi (da tagliare)

Daniele Manca – Corriere della Sera

Ancora una volta la riforma delle banche popolari potrebbe non essere varata. Più volte in Parlamento sono arrivati progetti di riforma, la Banca d’Italia ha tentato in tutti i modi di superare quelle norme che sono alla base del funzionamento di questi istituti. E che si basano sul principio di una testa un voto. Per approvare i bilanci, decidere i vertici, che si abbia un milione di azioni o una soltanto si conta alla stessa maniera. Un sistema che ha permesso di organizzare il controllo sugli istituti a partire dal consenso e non dalle cose da fare. E chi è il campione nella creazione del consenso? La politica.

E così il legame con il territorio, che nei casi virtuosi è significato assistere le imprese migliori, in quelli peggiori non si è trasformato solo in inefficienza, ma anche in pesanti scandali. Lodi, Novara, Milano, l’elenco è lungo. E altrettanto lungo quello dei politici schierati a difesa. Non c’è solo il colorito Salvini della Lega, ma lo schieramento è trasversale con esponenti in tutti i partiti dal Pd passando per Forza Italia arrivando alle sigle minori. Tutti pronti a bloccare qualsiasi riforma. Cosa che ha impedito in passato di avviare quel processo graduale, non esente da traumi, che dovrà portare alla separazione delle fondazioni dalle banche. Difficile pensare che le popolari possano resistere per molto tempo ancora.

La foglia di fico delle modalità scelte dal governo non riesce a coprire la debolezza strutturale del settore. La frammentazione del sistema creditizio italiano è seconda solo a quella tedesca. Le aggregazioni tra istituti minori e più grandi non può attendere. Il rafforzamento e l’irrobustimento del sistema, ossatura economica del Paese, non può essere frenato dagli interessi di chi riesce a organizzare poche centinaia o migliaia di votanti per mantenere il proprio potere.

Inutile chiedere a Draghi di far arrivare denaro all’economia se chi poi dovrà gestire quei soldi sarà guidato da interessi di corporazione o peggio di bottega e li userà per tappare propri buchi. Pensare poi che il già avvenuto passaggio della vigilanza sugli istituti da Roma a Francoforte possa garantire una maggiore distanza è un grande errore. Anzi. La vista corta ci garantirà per l’ennesima volta che l’agenda delle nostre riforme venga dettata fuori dai confini nazionali. Che bel risultato.

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.

Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati – non senza ragione – destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.

Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.

La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.

La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.

I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.

Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dipartimento Finanze mette una pezza a una dimenticanza della politica e con la risoluzione 1/Df/ 2015 diffusa ieri fa rivivere le vecchie tasse, canoni e imposte su occupazione del suolo pubblico, pubblicità e pubbliche affissioni. L’intervento ministeriale chiude un buco da almeno un miliardo all’anno, ma visto che questi soldi devono arrivare dai contribuenti servirà forse far seguire a questo primo passo un nuovo puntello normativo per evitare una nuova ondata di carte bollate: le occasioni del resto non mancano, a partire dal Milleproroghe in corso di conversione alla Camera (ieri sono state respinte le pregiudiziali di costituzionalità).

Il problema nasce infatti proprio da una mancata proroga (segnalata sul Sole 24 Ore del 23 dicembre scorso), perché a differenza dello scorso anno la legge di stabilità non si è preoccupata di confermare anche per il 2015 i vecchi sistemi di prelievo su occupazione del suolo pubblico e pubblicità. Queste voci, che oltre a Tosap e Cosap comprendono infatti anche l’imposta sulla pubblicità, il diritto sulle pubbliche affissioni e il canone per l’autorìzzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari (Cimp), sarebbero dovute uscire di scena dal 1° gennaio scorso, per essere sostituite dall’«Imu secondaria» prevista dal federalismo fiscale nel 2011 ma mai attuata. La manovra si è concentrata prima sulla «local tax», che con il canone unico avrebbe superato il problema, ma dopo il temporaneo accantonamento della riforma non si è preoccupata troppo delle conseguenze.

Per partire davvero, e arricchire la già fitta lista di acronimi del Fisco locale, l’«Imus» avrebbe però bisogno di un regolamento applicativo (lo chiede l’articolo 11 del Dlgs 23/2011, il provvedimento sul «federalismo municipale» che l’ha istituita) con la «disciplina generale» della nuova imposta la sua articolazione a seconda del tipo di occupazione, della classe demografica del Comune e così via. Senza questo provvedimento, argomenta il dipartimento Finanze in risposta a un quesito dell’Anacap (l’associazione che riunisce le aziende concessionarie dei servizi di riscossione degli enti locali), l’Imu secondaria non può partire, perché i Comuni hanno un’autonomia tributaria, ma questa può esercitarsi solo nei limiti fissati dalla legge statale (articolo 52 del Dlgs 446/1997). Se l’Imu secondaria non può partire, i vecchi tributi non possono andare in pensione, anche perché a differenza dell’imposta di soggiorno (che i Comuni hanno potuto istituire anche senza decreto attuativo) questi prelievi sono obbligatori.

Gli “attacchi a orologeria” di fine anno sull’Italia

Gli “attacchi a orologeria” di fine anno sull’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Una mera coincidenza casuale? Si potrebbe pensare. Tuttavia, è curioso che proprio nei giorni di vigilia dell’ultimo Consiglio europeo a presidenza italiana (il prossimo avverrà almeno tra quattordici anni) uno dei più noti, se non più autorevoli, economisti europei, Daniel Gros, direttore del Center for european policy studies, divulghi un’analisi (il Ceps Policy Brief No. 326) che contraddice una delle linee di fondo dell’azione dell’Italia negli ultimi mesi.

E anche curioso che in parallelo, sempre sabato 13 dicembre, quando nei Paesi nordici si festeggia Santa Lucia al lume di candele, Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, in un’intervista a Repubblica, non a un quotidiano o periodico tedesco, si scagli apertamente contro il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi affermando: “L’acquisto di titoli sovrani nell’Eurozona è da valutare diversamente che in altre aree valutarie”. “In Europa accanto alla politica monetaria comune abbiamo 18 Stati con politiche finanziarie indipendenti e rating e situazioni di debito ben diversi. Ciò crea tentazioni di indebitarsi di più e scaricare le conseguenze sugli altri”. Frase non solitaria – Weidmann è considerato il proprio faro da un gruppo di Governatori di banche centrali europee – e con la quale si intende seppellire, una volte per tutte, quelle manovre monetarie “non convenzionali”, altro punto di fondo del semestre in cui l’Italia ha avuto l’onere di guidare gli organi di governo dell’Unione europea.

Ancora più curioso, infine, che il lavoro di Gros e l’intervista di Weidmann avvengano proprio mentre a Roma, il 12 e il 13 dicembre, si teneva una conferenza su “Investire sull’Europa a lungo termine”, in cui si sono alternati sul podio o nelle tavole rotonde circa quaranta relatori, tra cui due Ministri in carica, due Commissari europei, il Vice Segretario Generale dell’Ocse ed esponenti non solo delle maggiori istituzioni internazionali ma anche di quella che viene comunemente chiamata “società civile”.

Gli argomenti di Weidmann non solamente riflettono un punto di vista espresso, in maniera più sfumata, altre volte e chiariscono le posizioni assunte il 4 dicembre al Consiglio Bce, ma avvengono proprio mentre si paventa una nuova crisi greca, di cui, secondo studi interni della Bundesbank, l’Italia potrebbe essere la cinghia di trasmissione che contagerebbe il resto d’Europa.

Più complesso il lavoro di Daniel Gros, in quanto avanza un’ipotesi intrigante: il tanto lamentato declino del tasso d’investimento dal 2007 (particolarmente accentuato in Italia e altri paesi dell’Europa meridionale) sarebbe più fittizio che reale, poiché negli anni precedenti la crisi l’investimento sarebbe stato drogato da un eccesso di liquidità e di credito. Inoltre, un aumento dell’investimento avrebbe pochi effetti in un’Europa la cui popolazione e il cui apparato produttivo sono in veloce invecchiamento e in cui la produttività totale dei fattori produttivi ristagna. “Di per sé – afferma Gros in toni un po’ apodittici – la riduzione della produttività totale dei fattori produttivi abbassa il tasso d’investimento”.

Non è questa la sede per indicare come la conferenza sugli investimenti a lungo termine del 12-13 dicembre a Roma (gli atti saranno tra breve disponibili sul sito della Federazione delle Banche, delle Assicurazioni e della Finanza) abbia implicitamente risposto a queste critiche, specialmente alla seconda. In una fase come l’attuale, nell’eurozona, un aumento dell’investimento a lungo termine è essenziale sia per una migliore utilizzazione, nel breve periodo, della capacità di produzione, sia per un aumento, nel medio e lungo termine, della produttività dei fattori. Su questo punto, al convegno di Roma, la risposta è stata unanime. Soprattutto ha riguardato non solo l’infrastruttura tradizionale (strade, ponti, aeroporti), ma anche le reti e l’infrastruttura sociale (scuole, giardini d’infanzia, ospedali, social housing).

È difficile dire se l’appello per una politica di crescita imperniata sull’investimento di lungo periodo sia un esito del “semestre italiano” oppure il frutto dell’esigenza fortemente sentita che l’Europa riprenda a crescere. È certo comunque che se non si investe non si produce per il futuro e non si cresce.

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Gli accordi che svelano il nostro “buco”

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

L’Italia è alle prese con una nuova sfida, ma a Roma e a Milano pare non accorgersene nessuno. Se ne parla in cenacoli come quelli dello Iai, dell’Ispi, della Fondazione Ugo La Malfa, dell’Istituto Bruni Leoni, ma non si è sentita voce istituzionale. Neanche un tweet dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi o dai Ministri preposti (Affari esteri e Sviluppo economico) o da enti sempre sul punto di essere chiusi o riformati, come l’Ice. Proprio a quest’ultimo, la nuova sfida darebbe spunto per una nuova e più forte ragione di vita.

In breve, la globalizzazione che sembrava sgretolarsi dopo la crisi del 2008 è tornata alla grande. Questa è la conclusione a cui giungono Pankaj Ghemawat della Stern School della New York University e Steven Altman della Business School dell’Iese. Hanno compilato il Global Connectedness Index della Dhl sulla base di dati di 140 paesi che rappresentano il 99% del Pil e il 95% della popolazione mondiale. Utilizzano una vasta congerie di indicatori per misurare l’ampiezza e la profondità dell’integrazione internazionale: flussi commerciali, movimenti di capitale, migrazioni, rapidità e diffusione delle informazioni.

Secondo lo studio, dopo un arresto nel 2008-2009, la globalizzazione ha ripreso, più in profondità che in ampiezza. L’eurozona è rimasta un po’ all’angolo (e l’Italia in particolare è tra i fanalini di coda). Soprattutto, dopo una fase della globalizzazione pilotata dal mondo “avanzato” occidentale, adesso le imprese dei grandi paesi occidentali stanno rispondendo stancamente, e con un colpevole ritardo, alla tendenza, con il rischio di trovarsi spiazzate sui mercati più dinamici. Nel 2013, ad esempio, i Paesi in via di sviluppo emergenti hanno rappresentato (con il 36% della popolazione mondiale) il 17% degli utili delle cento maggiori imprese internazionali. L’anno scorso i paesi che hanno “globalizzato” di più (abbattendo barriere) sono quelli dell’America Latina e dei Caraibi. Particolarmente veloce, la globalizzazione delle informazioni, in accelerazione dal 2010.

Tra gli indicatori di integrazione internazionale, mentre i flussi finanziari sono in ripresa, preoccupa il commercio. Nel lontano autunno 2000, nell’ambito della Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) si aprì a Doha un negoziato multilaterale che avrebbe dovuto rimuovere le ultime restanti restrizioni agli scambi internazionali, particolarmente nei comparti dell’agricoltura e dei servizi. Sinora il negoziato non ha portato a nulla di concreto. È nel frattempo scaduta “l’autorizzazione” data dal Congresso americano al Presidente di presentarne i risultati per una ratifica in blocco.

C’è stato un pullulare di accordi bilaterali che hanno reso il commercio internazionale un vero e proprio labirinto. Su proposta della Casa Bianca sono iniziati negoziati per due vaste aree di “partnership” economica e commerciale – attraverso l’Atlantico e il Pacifico. Queste due trattative stanno proseguendo. Purtroppo, l’Italia pare schierata con la Francia in materia di “eccezioni culturali” (un termine nobile per indicare meno nobili protezioni dell’audiovisivo), dimenticando che un commercio più libero è la premessa per un mondo più libero. Speriamo che cambi idea e linea.

Anche e sopratutto perché il 13 novembre, gli Stati Uniti e l’India hanno raggiunto, dopo anni di trattative che bloccavano il negoziato multilaterale, un accordo sul commercio agricolo (in particolare sugli stoccaggi delle derrate alimentare) a cui si lavorava sin dal Kennedy Round degli anni Sessanta del secolo scorso. Non è questa la sede per analizzare i dettagli tecnici di un accordo, i cui lineamenti erano già stati posti alla riunione ministeriale Wto in dicembre 2013 a Bali. Secondo stime dell’ufficio del Rappresentante speciale del Presidente Usa per i negoziati commerciali – se sbloccato questo nodo la trattativa multilaterale si riapre -, l’accordo potrebbe portare a 21 milioni di nuovi occupati e aggiungere mille miliardi di dollari al Pil dell’economia mondiale. I Paesi in via di sviluppo dovrebbero fare uno sforzo in investimenti, anche infrastrutturali, per gli stoccaggi.

Occorre a questo punto chiedersi quale è la posizione del Governo italiano in sede di Unione europea (la Commissione europea negozia per tutti in base al Trattato di Roma) e se siamo pronti a rimuovere la nostra pregiudiziale sulla “eccezione culturale”. Si gradisce risposta.

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Carlo Lottieri

Siena è una città bellissima, ricca di storia e monumenti, che conserva istituzioni e tradizioni uniche. Una città che conquista chi la visita e che è ancora oggi carica di potenzialità. Ma in questo tempo di scandali si tratta ormai di una realtà umiliata, piegata in due, smarrita, che vede venir meno ogni riferimento. Questo minuscolo capoluogo del mondo è sempre più una rappresentazione in scala ridotta del disastro italiano, un’esagerazione di quanto sta avvenendo nell’intera Penisola: sia per quanto esso è bello, sia per quanto è disperato. La folle vicenda del Monte dei Paschi è solo l’ultimo episodio di una disfatta. Negli scorsi anni si era assistito anche al progressivo declinare del sistema turistico e alberghiero, con molti esercizi costretti a chiudere, e soprattutto allo sfaldarsi dell’università, che sotto il rettorato Tosi ha infoltito oltre ogni ragionevolezza gli organici – specie nel settore amministrativo – e si è lanciata in spese difficilmente giustificabili, accumulando una quantità impressionante di debiti. Ora l’ateneo sta provando a risalire la china, ma deve fare i conti con una pesante eredità.
Siena è un piccolo gioiello magnifico che si trova ora a fare i conti con un recente passato pieno di errori, un presente che l’ umilia e un futuro davvero a rischio. E le ragioni di questa situazione sono chiare. A Siena è trionfato quel mix di ideologia e cinismo che è uno tra i tratti più caratteristici dello statalismo nazionale. Non soltanto l’Italia è il Paese che per anni e anni ha avuto il partito comunista più forte dell’Occidente, ma qui si è anche elaborato un interventismo “di relazione” che è basato sul favore e sul’appartenenza. La contrada, la loggia, la sede di partito, la parrocchia o qualsiasi altra cosa sia in grado di creare un legame faccia-a-faccia è in grado di permettere il raggiungimento di obiettivi altrimenti fuori portata.
Se l’ideologia ha voluto fornire una giustificazione “alta” a ogni forma di intervento pubblico, la relazione para-familiare ha gestito nei fatti il giorno dopo giorno di questo progressivo ampliamento del numero delle prebende e dei privilegi. A Siena ci si rivolgeva a questo o a quello per andare a lavorare in Mps, e quasi ogni altro ambito cittadino rispondeva a questo tipo di logiche. La banca faceva comunque da cassa un poco per tutti, dalle associazioni alle imprese, offrendo lavoro e finanziamenti con grande generosità e al di fuori di logiche di mercato.
Siena muore per la politica: a causa della politica. È una città in cui relazioni interpersonali anche di grande efficacia e tutt’altro che da demonizzare (si pensi al fenomeno formidabile delle contrade: una realtà che tutto il mondo ammira) sono state “imbastardite” da una progressiva pubblicizzazione di ogni ambito: con la conseguenza che quasi ogni comportamento ha finito per configurarsi come un favore a questo o quello.
Siena potrà rialzarsi se penserà che la propria tradizione bancaria è essenzialmente una tradizione di mercato, e che quanto è avvenuto negli ultimi decenni può diventare solo una (triste) parentesi. Siena può salvarsi se saprà riscoprire e valorizzare, con spirito competitivo, quanto ha di eccellente: in università e non solo (si pensi, ad esempio, a un’istituzione musicale ammirevole come l’Accademia Chigiana). La città uscirà da questo psicodramma che ormai dura da anni solo se tornerà a essere una città di imprenditori: nel turismo e in altri settori. Ma parlare di Siena vuol dire parlare dell’Italia. Il microcosmo toscano è in qualche eccessivo nel raffigurare tutto il bene e tutto il male della Penisola. Siamo tutti un poco senesi, in questo senso, e tutti dobbiamo allora riscoprire il meglio del nostro passato per poter presto dimenticare questo presente che ci offre davvero ben poco.
L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Il Documento di Economia e Finanza (modificato in seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere. C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club, pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i 10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT, holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso, anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare – non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24 ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito, con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del “Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Stress test

Stress test

Enrico Cisnetto – Il Foglio

La Banca dei Regolamenti internazionali ha calcolato che attualmente nel mondo ci sono derivati per 710 trilioni di dollari, oltre 9 volte l’ammontare del pil planetario, di cui circa 300 allocati nelle prime cinque banche americane (quelle “too big to fail”). Se si pensa che nel 2007, subito prima che a partire dallo scoppio della bolla dei mutui subprime Usa si innescasse la grande crisi finanziaria mondiale, l’ammontare di questo tipo di strumenti era di 530 trilioni di dollari, e che solo due anni fa era meno di 470 trilioni di dollari, questo dà la misura del grado di pericolo che tutti noi corriamo di ritrovarci nel pieno di una bufera finanziaria epocale, con in più l’aggravante di non aver ancora smaltito, specie in Europa – e in Italia in particolare – le conseguenze, soprattutto recessive e deflattive, della crisi precedente. Naturalmente, questi numeri indicano il valore nominale dei derivati in circolazione, mentre il rischio sottostante è inferiore. Ma è altrettanto vero che essendoci oggi il 25 per cento in più di questi strumenti rispetto al 2007, il pericolo non può che essere aumentato.

Dico questo non per menar gramo, ma per misurare la distanza siderale che c’è tra il rigore dei controlli sulle banche europee che in queste ore, con gli stress test del duo Bce-Eba, stanno facendo tremare i polsi di molti banchieri – e che dovrebbero fare lo stesso effetto agli uomini di governo, se solo avessero contezza della minaccia sistemica che pende sui loro paesi – e l’allegra spensieratezza che, specie oltreoceano, spinge i grandi istituti all’azzardo senza che nessuno intervenga. E già, perché queste verifiche sulla congruità patrimoniale delle banche – che tra l’altro ha generato una speculazione borsistica (e non solo) sugli esiti dei test che definire scandalosa è poco – sono state costruite all’insegna della più assoluta intransigenza, mentre nessun organismo, né nazionale né sovranazionale, ha aperto bocca di fronte al fenomeno della moltiplicazione dei derivati. Non solo.

Come sette anni fa, anche questa volta è sui mercati anglo-americani che si sono prevalentemente sviluppate attività che possano generare titoli tossici, ma anche questa volta, se la storia dovesse ripetersi, sarebbe l’Europa – dove, a parte un caso, non ci sono istituti ingolfati di derivati – a pagare il prezzo più alto. Allora, francamente non si capisce perché accanirsi sulle banche continentali – siamo alla terza tornata di stress test dal 2010 – tra l’altro appena reduci da ristrutturazioni pesanti e massicci aumenti di capitale (complessivamente sono stati chiesti al mercato 70 miliardi, di cui 10 solo in Italia). E se fosse vera la cifra di cui si parla in questa tormentata vigilia (domenica saranno ufficialmente annunciati i risultati dell’asset quality review), e cioè 50 miliardi di ulteriore fabbisogno patrimoniale, si capirebbe che trattasi di puro masochismo.

Si dice: ma così si assicura la stabilità finanziaria europea, indispensabile sia per poter realizzare l’Unione bancaria sia per dare corpo alla ripresa economica. Può darsi, è sperabile. Ma intanto si è ottenuto il risultato di tenere sotto pressione per un anno 130 banche, commerciali e d’investimento, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto dedicarsi totalmente al rilancio degli impieghi, e di aver offerto una clamorosa occasione di guadagno alla peggiore speculazione, che ha approfittato per lanciare rumors di ogni genere facendo in molti casi letteralmente crollare il corso dei titoli di diverse banche. Ma questo, paradossalmente, è niente se pensiamo a quale valore di affidabilità si possa assegnare a graduatorie che pretendono di essere uniformi ma sono stilate sulla base di regole nazionali del tutto diverse tra loro. Non sfuggirà, infatti, che chi fosse eventualmente bocciato – e dunque costretto a prevedere nuove ricapitalizzazioni – si troverebbe facilmente preda di banche straniere. E aggregazioni cross-border figlie di asimmetrie normative sarebbero il modo peggiore per costruire un sistema bancario europeo integrato. Cosa abbiamo speso a fare?

È per queste considerazioni che ritengo che la questione doveva e dovrebbe essere affrontata dai governi europei. E in particolare da quelli di paesi, come l’Italia, che potrebbero ricavare maggior danno da questa “giostra”. Per carità, le authority è giusto che abbiano la loro autonomia, ma quando le scelte che esse fanno hanno ricadute sistemiche, allora è necessario che i governi si prendano le loro responsabilità. Il credito è troppo importante per lasciarne i destini in mano – con tutto il rispetto – al signor Andrea Enria (presidente dell’Eba, italiano) e alla gentile signora Daniele Nouy (responsabile della Vigilanza della Bce, francese), Anche perché, uno si domanda, a suo tempo cosa abbiamo speso a fare un mucchio di quattrini per evitare che le nostre banche facessero la stessa fine della Lehman, se poi i governi le lasciano dipendere da improbabili pagelle redatte da maestri (?) totalmente privi di responsabilità pubblica?

Il pericolo dell’infarto finanziario

Il pericolo dell’infarto finanziario

Mario Deaglio – La Stampa

Meno 4,4 per cento; meno 1,21 per cento; più 3,42 per cento. Queste cifre mostrano la variazione del Ftse Mib, il principale indice della Borsa di Milano nelle ultime tre sedute della settimana scorsa e ripetono, un poco amplificati, gli andamenti delle Borse di tutto il mondo. Variazioni di queste dimensioni, per di più senza una direzione precisa, escono dai limiti della normalità, soprattutto se si tien conto che, in questi giorni, nell’economia reale non è cambiato pressoché nulla, con l’Europa sull’orlo di una recessione – che potrebbe anche non arrivare o essere molto lieve – e gli Stati Uniti impegnati in una ripresa non del tutto convincente (nella prima metà dell’anno la crescita americana è risultata di poco superiore all’1 per cento, meno dell’aumento della popolazione).

Siamo quindi di fronte a una fibrillazione dei mercati. Potrebbe derivarne un infarto? Perché? Perché proprio ora? Il pericolo di un infarto finanziario deriva dal fatto che la trasparenza e la regolazione dei grandi mercati mondiali non hanno compiuto molti passi avanti dal 2007-08 anche se non c’è oggi una specifica categoria di titoli ma a rischio, come erano allora i famigerati americani mutui «subprime». Una parte importante della risposta va cercata nella politica mondiale. Inforcando le lenti della politica occorre guardare al paese che vanta il maggior mercato finanziario globale nonché (ancora per poco, ossia finché non sarà superato dalla Cina, probabilmente nel 2015) il maggior sistema economico del pianeta.

Naturalmente stiamo parlando degli Stati Uniti dove ogni due anni viene rinnovata gran parte del Congresso. Tra una ventina di giorni, e precisamente il 4 novembre, si terranno negli Stati Uniti le cosiddette «elezioni di metà mandato» ed esiste la possibilità che i democratici del presidente Obama si trovino in minoranza sia al Senato (che attualmente controllano) sia alla Camera dei Rappresentati, dove già oggi sono in netta minoranza.

Se così fosse, Obama diventerebbe ciò che nel gergo politico di quel paese si chiama un’«anatra zoppa», non più in grado di perseguire efficacemente alcuna vera azione politica né interna né internazionale senza il «permesso» dei suoi oppositori repubblicani. La prossimità delle elezioni sta inoltre frenando il possibile intervento militare americano in Siria-Iraq soprattutto perché gli elettori americani sono stanchi di guerre. Ai curdi che difendono accanitamente la città di Kobane arrivano soprattutto le armi mandate dagli alleati europei degli Stati Uniti e l’aiuto di un numero non elevato di incursioni di aerei americani.

Nei prossimi venti giorni, l’incertezza sui risultati elettorali americani potrebbe incidere negativamente sui listini, così come potrebbe avere un impatto negativo una sconfitta dei democratici di Obama proprio per la paralisi governativa che ne deriverebbe. Un possibile vuoto di politica economica potrebbe riguardare anche l’Unione Europea, dove la nuova Commissione muoverà in novembre i suoi primi passi, necessariamente incerti. Non va però trascurata la politica estera.

Il vuoto politico si aggiunge così al vuoto economico, la politica contribuisce, e non poco, a bloccare l’economia. E questo non solo – o non tanto – in Italia dove il processo di approvazione della «manovra» non ha la rapidità auspicata dal presidente del Consiglio, ma comunque procede molto più celermente che in passato; ma anche, e soprattutto, a livello mondiale. Alle Borse non rimane altro che guardare alle relazioni trimestrali delle imprese e alle previsioni di crescita dei diversi settori e quel che vi possono scorgere non è precisamente entusiasmante: a livello mondiale, sono dati molto variegati mentre la Fed parla di crescita complessivamente «moderata» o «modesta». E Janet Yellen, da pochi mesi a capo della Fed, sottolinea la crescente diseguaglianza della ricchezza e dei redditi negli Stati Uniti come motivo di preoccupazione perché costituisce un blocco alla ripresa.

Ai pazienti a rischio d’infarto i medici prescrivono spesso una serie di pillole e suggeriscono di cambiare stile di vita. Alle economie ricche (e ai ricchi mercati finanziari) a rischio d’infarto è necessario proporre qualche pillola di nuova liquidità e un cambiamento di politica economica che introduca qualche modificazione nella distribuzione dei redditi in modo da incoraggiare, quanto meno nel breve periodo, un certo rilancio dei consumi interni. Spesso il malato non segue i buoni consigli e la Signora Merkel non ha, nelle ultime settimane, dato prova di quel pragmatismo, di quel «buon senso» del quale l’Europa e l’intera economia mondiale hanno disperatamente bisogno. C’è da sperare che l’aria di Milano, dove si è svolto un inedito incontro Europa-Asia la convinca (e convinca i suoi ministri economici) che economia e ragioneria sono due discipline diverse e che la politica economica non si fa contando i decimali di – eventuale – sforamento del tre per cento del rapporto deficit/prodotto lordo.