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Sul fisco servono le ricette del ’94. Ma i giallorossi faranno il contrario

Sul fisco servono le ricette del ’94. Ma i giallorossi faranno il contrario

Massimo Blasoni è il presidente del Centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro, ma soprattutto un imprenditore di prima generazione. Con il Gruppo Sereni Orizzonti, uno dei principali operatori sul mercato, costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani in Italia, Germania e Spagna.

In Italia c’è poca o troppa politica?

«È un’opinione personale, sia chiaro, ma le vicende politiche degli ultimi mesi fanno pensare a una soap opera. Colpi di scena, esibizioni estive, repentini cambiamenti di fronte: gli ingredienti ci sono tutti. Le pagine politiche rischiano di assomigliare a quelle del gossip. Poco male se le scelte dei partiti non ricadessero pesantemente sulla vita di tutti noi. Oggi a valori reali gli italiani sono più poveri di quanto non lo fossero nel 2007 e il reddito pro capite tedesco è ormai una volta e mezzo il nostro. Bassa crescita e debito sono un cocktail devastante».

Riuscirà a modificare la situazione attuale il nuovo governo giallo-rosso?

«Temo proprio di no, anzi il rischio è che lo statalismo e il giacobinismo dei 5 Stelle si saldino con la parte del Pd che è ancora ancorata alla centralità della Pa ed è latamente antagonista dell’impresa. Non credo che si privatizzerà Alitalia o si porteranno a termine processi incompiuti come quello di Poste Italiane e Ferrovie. Non credo nemmeno che muterà l’atteggiamento sostanzialmente contrario alle grandi opere dei 5 Stelle. Un errore marchiano in un Paese che ha invece bisogno di rafforzare il sistema di infrastrutture fisiche e digitali. Vagheggiare come risolutivo l’intervento pubblico è quanto di più sbagliato si possa fare. La soluzione non è incrementare il ruolo dello Stato in economia ma piuttosto il contrario. Bisogna agevolare la nascita di nuove imprese non promettendo contributi pubblici ma attirando gli investimenti con meno burocrazia, meno tasse e più formazione dei lavoratori. Occorre trasferire ai giovani il messaggio che è possibile realizzare le proprie idee e creare un’azienda. Andrebbero riproposte misure come quella parte del decreto Tremonti del 1994 che per un triennio stabiliva la completa detassazione delle nuove imprese avviate da under 32. Toglieva Ires, Irap e imposte comunali per l’esercizio di imprese e per ogni tributo i connessi gravosi adempimenti burocratici».

«Statisticamente sì, per certo nel mio caso. Ho avviato la mia azienda sulla base di questa misura che semplificava lo start up e oggi ho più di 3000 dipendenti».

Altre cose da fare?

«Comprendere che non è frutto di un ordine necessario che lo Stato gestisca molta parte della nostra vita. Se penso al sistema pensionistico, ad esempio, è oggettivamente insostenibile e rischia di minare la stabilità dei conti pubblici tanto che ogni anno occorre utilizzare risorse della fiscalità generale per pareggiare i conti in rosso dell’Inps. Perché non ipotizzare un passaggio graduale dal sistema pubblico a ripartizione a uno privato a capitalizzazione? Perché deve essere l’Inps a gestire obbligatoriamente, e male, i denari delle nostre pensioni?».

Proposte azzardate?

«Forse, ma il Paese rischia di essere travolto dall’immobilismo di chi dice di volerlo cambiare».

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

di Mino Rossi

Il dato è ormai stabilizzato. Dal 2011 in avanti l’Agenzia delle Entrate aumenta ogni anno di 65 miliardi il magazzino dei crediti forzosi di Equitalia (vedasi qui Corte dei Conti, Rendiconto generale 2015 vol. I, pagina 76, Tavola 3.12). Stando alla prassi ultradecennale, tuttavia, si tratta di somme che frutteranno all’erario una quota pressoché simbolica: meno del 10 per cento, e per di più diluiti in un tempo infinito (10-15 anni). Nel 2015, ad esempio, gli incassi forzosi, per la catasta di accertamenti insoluti degli ultimi 15 anni, sono stati appena 1,8 mld, rateazioni comprese.

E così, a passo di lumaca, di fronte a un ammontare da riscuotere di 800 mld, ne sono stati incassati 35, mentre 700 mld (l’87%) si sa già che sono destinati al macero per inesigibilità (ne abbiamo parlato qui). Com’è intuibile, la consistenza vistosamente “marziana” di quest’ultima cifra non poteva che ingolfare il sistema, che da anni è pericolosamente fuori controllo, specie riguardo al funzionamento delle garanzie di imparzialità e di effettività dei recuperi.  Nel senso che né Equitalia, né l’Agenzia delle Entrate, sono materialmente in grado di rilasciare il cosiddetto discarico dei crediti inesigibili. E questo significa che – a causa di una sorta di overbooking – nessuno più oggi sorveglia sul fatto che in questo spaventoso mare magnum di partite da cestinare, non si ritrovino infilati, magari senza volerlo, fronde di intestatari-evasori viceversa ricchi e possidenti.

I numeri visti sopra sembrano appartenere a un altro pianeta, altro che tesoretto! C’è da chiedersi davvero se gli altissimi costi di sistema, compresi quelli sulla tenuta sociale, non superino i vantaggi monetari, che, come visto, sono (e saranno) sempre esigui. D’altro canto, è evidente che il tappezzare di cartelle Equitalia tutto il Paese non poteva che deprimere l’economia piuttosto che risollevarla. Soprattutto se lo hai fatto in forma massiva e a casaccio, come ha dimostrato di fare, del tutto incolpevolmente – e nonostante gli elevati livelli di professionalità raggiunti (è bene chiarirlo) – l’Agenzia delle Entrate.

Prendiamo a esempio, il tasso di errore delle somme date in riscossione forzosa. In un normale sistema, quando vai ad armare la mano del “fuciliere”-Equitalia, autorizzandone l’esercizio di poteri letali sulla incolumità patrimoniale dei destinatari, non dovrebbero essere tollerati errori superiori allo zero virgola zero. E, invece, è successo che l’Agenzia delle Entrate, dopo aver consegnato all’esattore un elenco sconfinato di condanne a “morte economica” (oltre 150 milioni di posizioni, tre per ogni italiano, neonati compresi), ha cancellato il debito, fuori tempo massimo, nel pieno svolgersi della fase esecutiva. E lo ha fatto per una cifra stratosferica: 180 mld, pari al 22% del carico.

L’entità dell’errore non lascia adito a dubbi. Non può essere che l’Agenzia fiscale sia incorsa in uno svarione megagalattico. Trattasi, piuttosto, di segno evidente che la riscossione forzata ha in pancia problemi enormi. Il più rilevante dei quali è dato dal tasso di imprecisione oggettivo della cifra originaria da riscuotere. Una imprecisione che, a sua volta, dipende dal carattere strutturalmente inagguantabile, e oggettivamente ballerino, del quantum evaso.Se riguardasse solo una percentuale ridotta di casi, l’anomalia non avrebbe riverberi e questo non sarebbe un problema per il sistema. Ciò che preoccupa, invece, è che il “vizio” della approssimazione è presente nella stragrande maggioranza dei casi, essendo diventato fenomeno di massa.

E, invero, tolte le situazioni di morosità in dichiarazione (dove, è ovvio, la cifra in riscossione ha “fisiologicamente” un tasso di precisione del cento per cento), negli altri casi, che rappresentano forse i due terzi del carico, si viene chiamati da Equitalia per una cifra presuntiva, e dunque per un quantum, “sistematicamente” inficiato a monte da un tasso di imprecisione elevato. L’altra cosa paradossale è che, mentre sui crediti granitici (morosità in dichiarazione) la penalità è del 30 per cento, è invece quattro volte tanto, la sanzione applicata agli addebiti presuntivi. Ciò nonostante che, in questi ultimi casi, la base di calcolo – cioè, l’imposta evasa – resta niente più che una ipotesi (per quanto qualificata e assolutamente probabile).

La responsabilità di tutto questo non può che essere nelle procedure di legge: sono esse il problema. Te ne accorgi anche da una controprova: in sede di accertamento con adesione, l’Agenzia delle Entrate, in ossequio alle regole vigenti, fa in molti casi dietrofront e si autoriduce l’evasione accertata, applicando uno sconto del 44 per cento. Non si tratta di situazioni sporadiche, ma della riduzione media applicata a circa un quinto del plafond accertato. A dimostrazione che la stessa Agenzia “sa” dell’alto tasso di approssimazione che è insito nei suoi “prodotti”. Per il 2014, a esempio, un’evasione inizialmente quantificata in 4,391 mld, in adesione è stata autoridotta dalle Entrate a 2,459 mld (somma riferita a solo imposte – vedasi qui il Rapporto sui risultati del contrasto all’evasione – Tabella I.16 pagina 15).

Ecco perché, quindi, al di là della regolarità formale degli atti mandati in riscossione, si può dire che l’esiguità degli incassi è anche dovuta alla intrinseca dubbiosità (anzi, ancor più, della dubbiosità percepita) del quantum accertato. Un problema, quest’ultimo, dovuto all’errore di aver consentito – come regola, piuttosto che come eccezione – la diffusione della comoda scorciatoia dell’accertamento presuntivo. Benché prevista per legge, infatti, questo tipo di procedura già di per sé costituisce sanzione assai grave. Proprio per gli effetti che ne derivano, anch’essi letali, pertanto, essa andrebbe piuttosto utilizzata solo in casi eccezionali e dopo il superamento di alcuni filtri. Così era nello spirito saggio della riforma dei primi anni ’70 (legge 825 del 1971), che aveva puntato sul cosiddetto accertamento induttivo, ma solo per casi eccezionali, in presenza di scorrettezze contabili molto gravi, e dopo averne verificato de visu le prove, in sede di controllo in flagrante (vidimazioni periodiche, tempestività e regolarità delle annotazioni contabili, eccetera).

Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

di Mino Rossi

A pochi giorni dalla pubblicazione dei due dossier sulle criticità di funzionamento del Fisco italiano, a cura delle massime istituzioni internazionali (Ocse-Fmi – vedasi qui), tornano assai preziosi i dati pubblicati il 23 giugno scorso  dalla benemerita “nostra” Corte dei Conti (vedasi qui Rendiconto generale dello Stato  per il 2015, vol. I).

Dati che ci aiutano in primis a capire, fra le altre criticità, un’anomalia, tutta italiana, riferita al comparto delle Entrate. Incrementatasi, col passaparola, a partire dai primi anni 2000, e che ha raggiunto oggi le dimensioni di una zavorra annua fatta di ruoli per qualche decina di miliardi. I quali nascono inesigibili in partenza, poiché riferiti ad accertamenti intestati o a persone nullatenenti o a società fantasma (parliamo di circa il 40% del carico lordo).

Dimensioni e gravità del fenomeno erano già note, grazie ad alcuni  dossier elaborati in passato dalla Corte dei Conti. Ma il documento di recente pubblicato conferma che il problema è  ancora lì, irrisolto. E lo rivela un dettaglio non da poco: nel 2015, infatti,  sono stati circa 90mila, su un totale di 300mila, gli accertamenti lavorati e notificati dalle Entrate nella indifferenza dei loro destinatari. I quali non hanno né impugnato, né pagato alcunché. Il valore della relativa imposta evasa accertata, al netto delle sanzioni, è stato pari a 7,6 mld (vedasi qui Rendiconto generale 2015 vol. I, pagine 37 e 38, Tavole 2.11 e 2.12).

Ma la novità più grande si rinviene incrociando questi ultimi dati con quelli comunicati il 9 febbraio 2016 alla Commissione Finanze del Senato, nella Audizione resa dall’amministratore delegato di Equitalia. Nella Tabella da noi elaborata sono stati messi a confronto fra loro gli esiti della riscossione coattiva: quella su mandato della Agenzia delle Entrate, e quella ad opera dell’Inps (insieme, i due Enti coprono l’89% del totale di 1.051 mld di ruoli consegnati a Equitalia).

equitalia

La Tabella è molto eloquente. Perché, non solo conferma che il carico iniziale delle Entrate è  davvero stratosferico (800 mld di euro, in quindici anni). Ma, anche perché, essa dimostra che la quota Entrate del “magazzino insoluti”, ovvero la parte ufficialmente destinata al macero, ad oggi “pesa” 700 mld, l’87% della cifra iniziale (cifra che in futuro può solo amentare). Inoltre, al confronto con l’Agenzia fiscale, l’Inps (che di certo non è l’Ente più virtuoso al mondo) sembra la Scandinavia. Con una percentuale di 20,8 punti in meno del magazzino insoluti.  E incassi del 15,8 per cento, che triplicano, quasi, il 4,4 delle Entrate. Vale a dire che se i crediti partoriti dall’Agenzia fiscale avessero ottenuto lo stesso tasso di riscossione (più 11,4%) lo Stato avrebbe introitato fino a oggi 90 mld di euro in più.

Il combinato disposto di dati così univoci e convergenti, dunque, costituisce prova del fatto che la prima emergenza da affrontare nel Fisco italiano è il dilagare incontrollato (e incontrollabile, a normativa vigente) della cosiddetta evasione da riscossione. Fenomeno delinquenziale diffusissimo, oramai, preordinato con sistematicità da abili colletti bianchi capaci di blindare a monte la propria impunità patrimoniale, neutralizzando ogni futura azione esecutiva di Equitalia.

Il tutto nascondendosi dietro grappoli di società fittizie – del tipo “apri e chiudi” – che solo momentaneamente appaiono in regola. E che si passano tra loro il testimone, dopo pochi mesi di vita, prima di scomparire nel nulla (magari spostando la sede legale in un paradiso fiscale). Nel mentre, gli sconosciuti burattinai (destinati quasi sempre a rimanere anonimi) ci sguazzano per davvero, affogando nella enorme liquidità illecita loro consentita dalle vendite commerciali esentasse. Vendite effettuate camaleonticamente alla pari, nel mercato legale, dove però tutte le altre aziende, quelle sane, sono spinte fuori mercato poiché esse i contributi Inps non li compensano certo con crediti d’imposta fasulli, mentre l’Iva, l’Ires, l’Irap e le addizionali, li versano fino all’ultimo euro. Puntualmente.

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea in cui si colloca) va individuata nell’espansione del prelievo fiscale. Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Nel corso della storia sono numerose le società fallite a causa di una tassazione abnorme: deve allora farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamento e all’espansione monetaria, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.

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Federcontribuenti: “Fisco, un sistema da ripensare”

Federcontribuenti: “Fisco, un sistema da ripensare”

Federcontribuenti*

Siamo sempre più emarginati ed isolati dal resto di Europa, un quadro fiscale che deve mettere paura non solo ai cittadini italiani ma allo stesso governo. Dialoghiamo costantemente con i Paesi presi in esame, ed è sentito da tutti il bisogno di rivedere il sistema fiscale di ogni Paese membro della Ue.

L’Euro necessita di un eguale sistema fiscale, un eguale costo della manodopera e un eguale costo delle materie prime per diventare forte e unita. Del resto i numeri parlano chiaro, l’Italia continua a pagare un prezzo troppo alto in vite umane e imprese chiuse con gravi ripercussioni sull’occupazione e sulle stesse entrate erariali. Non si capisce come mai un discorso tanto semplice appaia incomprensibile alla classe politica.

*Da Blasting News

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie dovrebbe aver raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in ulteriore crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Lo rivela un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale si conferma comunque l’escalation registrata a partire dal 2011, anno che ha dato il via a una serie di repentini aumenti su tutti i fronti delle imposte applicabili agli investimenti finanziari.

C’è di più: il lieve calo del gettito 2015 rispetto alle attese potrebbe accompagnarsi a un’ulteriore riduzione per il 2016 (e sarebbe la prima volta in tutto l’arco temporale abbracciato dello studio), tanto da far pensare a possibili contromosse del governo destinate a sfociare in nuove strette fiscali. È certo infatti che il calo di gettito non risulterebbe da un allentamento della morsa fiscale, ma esclusivamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi presso il pubblico dei piccoli risparmiatori: lo scorso anno i tassi sui depsiti bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04%  e i titoli di stato all’1,19%. In base ai diversi scenari di “stress” la perdita di gettito complessiva dalle rendite finanziarie potrebbe anche superare il miliardo.

Il prelievo complessivo, comunque oggi più che raddoppiato rispetto al 2011 (quando era quantificabile in “soli” 6,9 miliardi), si compone di vari elementi, il più rilevante dei quali è determinato dall’imposta sostitutiva sui guadagni di natura finanziaria: da sola essa preme per oltre 10 miliardi di euro all’anno, in particolar modo da quando l’ultimo giro di vite (datato giugno 2014) ha portato l’aliquota standard al 26% con la sola eccezione dei titoli di Stato, la cui tassazione rimane agevolata al 12,5%. Da tale componente proviene il gettito fiscale che risulterebbe dunque maggiormente incerto per il futuro, essendo legato all’andamento dei mercati finanziari, oltre che delle politiche accomodanti della Banca centrale europea a livello di tassi d’interesse e di immissione straordinaria di liquidità nel sistema.

Un secondo elemento di tassazione per grado d’importanza nell’attuale sistema è quello dell’imposta di bollo su depositi e investimenti finanziari. Nata come balzello fisso sugli estratti conto del deposito titoli (34 euro e 20 centesimi all’anno), ha resistito come tale solo fino alla metà del 2011, quando la crisi dello spread ha portato i nostri governi a trasformarla rapidamente in una patrimoniale che colpisce in misura ora proporzionale sostanzialmente ogni strumento finanziario (ad eccezione di conti correnti, fondi pensione e alcuni tipi di polizze vita). Dopo l’ultima revisione dell’imposta (passata allo 0,2% nel 2014), il bollo sugli investimenti garantisce allo stato ben 4,1 miliardi annui: una misura decuplicata rispetto al 2011 (quando pesava solo 400 milioni) raggiungendo misure paragonabili ad altre imposte nel frattempo scomparse come la vecchia IMU sulla prima casa.

L’imposta di bollo sugli investimenti non va confusa con quella sui conti correnti, che resiste nella sua attuale configurazione sin dal 2012, quando venne introdotta l’esenzione per i conti intestati a persone fisiche che non superano i 5.000 euro di giacenza media: da questa voce lo Stato si attende ogni anno circa 600 milioni di euro.

Tra le tasse sugli strumenti finanziari va aggiunta la Tobin Tax, che colpisce in particolare le transazioni di taluni titoli sui mercati italiani, indipendentemente dal fatto che esse si concludano in guadagno oppure in perdita per l’investitore, e che frutta però soli 300 milioni di euro circa alle casse dello Stato, tanto che a più riprese ci si è chiesti se nel complesso determini complessivamente più costi per il sistema che benefici per l’erario.

Considerato dunque tutto il mix di imposte su depositi e investimenti finanziari, in uno scenario di rendimenti decrescenti tenderà a prevalere sempre di più la componente patrimoniale rispetto a quella commisurata al reale reddito ricavato dai piccoli investitori. L’incidenza reale di queste imposte è stata calcolata da ImpresaLavoro per il 2015 al 33,5%, in aumento di ben due punti e mezzo rispetto all’anno precedente, quando era pari al 31%. Con risultati paradossali per chi, per esempio, continua a investire in titoli di Stato a breve termine: oltre a offrire un rendimento negativo (con interessi a carico del sottoscrittore), i Bot rimangono comunque soggetti all’imposta di bollo.

Il tax rate è ben oltre il 26% anche in tutti i casi in cui gioca a sfavore del contribuente il meccanismo spesso contorto (e ignoto ai più) che determina la compensabilità delle minusvalenze pregresse nel regime più comune del risparmio amministrato, limitandola a specifiche categorie di titoli e a particolari tipologie di redditi finanziari.

Nonostante tutto, il calo dei rendimenti sui mercati del debito pubblico dovrebbe produrre a livello di bilancio soprattutto un calo della spesa per interessi sul debito (dagli 84 miliardi del 2012 ai 67 previsti per il 2016): beneficio notevolmente più grande rispetto alla flessione delle entrate sulle rendite finanziarie, ma che lo Stato potrebbe voler comunque compensare attingendo da altre fonti.

Lo spettro che aleggia spesso nella mente degli italiani è quello del prelievo forzoso sui conti correnti, alla stregua di quanto avvenuto nell’estate del 1992 per decisione del governo Amato. Ma se lo stesso 6 per mille di prelievo sui conti fosse applicato oggi, non frutterebbe che 3,3 miliardi una tantum.

Ecco dunque che potrebbe manifestarsi ben presto un nuovo giro di vite fiscale, inatteso, sul tema successioni e donazioni. Proprio di recente infatti sono emerse delle proposte d’intervento: le prime a distanza di dieci anni dalla riforma che ha reintrodotto l’imposta. In particolare si prevederebbe di raddoppiare le aliquote (triplicarle al di sopra di una certa soglia) e nel contempo abbassare le franchigie di esenzione, che rimarrebbero distinte per grado di parentela. L’imposta, che oggi frutta circa 600-700 milioni di euro l’anno, potrebbe dunque essere la prima candidata ad un ritocco. L’unica speranza, a quel punto, è che l’incremento sia soltanto un lontano parente di quelli visti sinora.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati
** ricercatrice Centro studi ImpresaLavoro

 

La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

Andrea Giacobino – Avvenire

Si aprirà il prossimo 5 aprile a Milano il “Salone del risparmio”, un’importante manifestazione organizzata da Assogestioni, che raggruppa per tre giorni nello spazio fieristico del Mico tutti i principali attori del mondo degli investimenti, a cominciare dai fondi comuni. Il “Salone” è diventato in questi anni un vero e proprio punto di riferimento anche per gli interlocutori della politica e così non stupisce che il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan sia ospite della conferenza inaugurale intitolata «Risparmio al centro. Demografia, liquidità, sviluppo» mentre il viceministro Enrico Zanetti tirerà le fila di un dibattito sul futuro della previdenza. L’hashtag scelto per simboleggiare lo spirito del Salone è #risparmioalcentro. Ma c’è da chiedersi se davvero il risparmio degli italiani sia al centro delle scelte della politica.

Dal 2011 allo scorso anno le tasse sul risparmio hanno registrato un incremento progressivo del 130%, pari a 9 miliardi di euro. A tanto, infatti, ammonta l’aumento del prelievo complessivo dello Stato sulle attività finanziarie, passato da 6,9 miliardi nel 2011 ai 15,9 del 2015, stando a una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati e indici Banca d’Italia, Abi, Mef e Fideuram. Tale cifra si deve per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale e per solo 0,3 miliardi alla Tobin Tax.

Lo studio rileva come, secondo i più recenti dati di Bankitalia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato, a partire dalla fine del 2011, un «progressivo e repentino inasprimento fiscale». Questo incremento nella tassazione del risparmio appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività dei titoli di Stato e dei depositi bancari. A inasprire la situazione dall’inizio del 2015 è entrato in vigore un “giro di vite fiscale” anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e Tfr. Lo studio mostra che l’incremento delle aliquote sui fondi pensione al 20% ridurrà il montante contributivo atteso dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 5% e l’8,6%.

In tale contesto il futuro della previdenza italiana è tutto in salita. E bene fa il Salone a mettere al centro dell’attenzione i Pepp, acronimo scelto dalla Commissione Europea per i Pan european personal pensions, piani di pensione individuali pan-europei che dovrebbero introdurre nei paesi dell’Unione quel “terzo pilastro” previdenziale volto a coprire il gap che ancora caratterizza molte nazioni. Ma a questi prodotti, per decollare davvero, serviranno benefici fiscali: e anche questo tocca è responsabilità della politica.

Tasse, con pressione fiscale spagnola pagheremmo 145 miliardi di euro in meno

Tasse, con pressione fiscale spagnola pagheremmo 145 miliardi di euro in meno

Se nel nostro paese la pressione fiscale fosse agli stessi livelli delle altre economie occidentali avanzate (esclusa la Francia), i contribuenti italiani nel 2016 pagherebbero molte decine di miliardi in meno di tasse. È questo il risultato di uno studio di ImpresaLavoro realizzato utilizzando i dati di Ocse, Def e Legge di Stabilità relativi alle previsioni sull’andamento della pressione fiscale per l’anno appena cominciato.

In Italia, infatti,anche al netto delle clausole di salvaguardia e del bonus 80 euro per il 2016, la pressione fiscale prevista dal documento di programmazione economica e finanziaria del governo è pari al 42,6% del Pil. Una percentuale che, anche se in leggero calo rispetto all’anno appena trascorso, resta decisamente superiore a quella prevista per gran parte delle economie avanzate con l’eccezione appunto della sola Francia, in cui livello di tassazione è leggermente superiore al nostro.

Questa differenza del carico fiscale nel confronto con gli altri paesi, che oscilla tra il 3,2% rispetto alla Germania e il 14,8% rispetto agli Stati Uniti d’America, corrisponde – in valore assoluto – a molte decine di miliardi di euro. Più in dettaglio: se il livello di pressione fiscale in Italia fosse identico a quello tedesco, i contribuenti italiani pagherebbero 54,61 miliardi di tasse in meno. E ancora:se importassimo il livello di pressione fiscale britannico verseremmo invece al Fisco 138,81 miliardi di euro in meno, che diventano 145,23 miliardi se ci allineassimo alla pressione fiscale spagnola. Ancora più elevato il gap rispetto ai paesi extra-europei: 187,62 miliardi rispetto al Giappone; 195,81 miliardi rispetto al Canada; addirittura 248,62 miliardi di euro se si applicasse al Pil italiano lo stesso livello di pressione fiscale degli Stati Uniti.

Considerando l’intera popolazione residente in Italia (inclusi i bambini), se nel nostro paese ci fosse il livello di pressione fiscale della Germania tutti avrebbero 898 euro all’anno in più nel proprio portafoglio. Una somma che crescerebbe fino a raggiungere i 2.283 euro con il livello di pressione fiscale britannico, i 2.389 euro con il livello spagnolo, i 3.086 euro con il livello giapponese, i 3.221 con il livello canadese, toccando infine i 4.089 euro all’anno se in Italia la pressione fiscale fosse uguale a quella statunitense.

«Queste cifre – commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni – testimoniano, se ce ne fosse ancora bisogno, come la pressione fiscale nel nostro paese rimanga il problema centrale. Le previsioni del governo segnalano una timida inversione di tendenza e una pressione fiscale in leggerissima discesa. Tuttavia la comparazione rispetto alle altre grandi economie occidentali dimostra che la strada da fare è ancora lunga. E che non sarà possibile arrivare a livelli di normalità “occidentale” senza affrontare, radicalmente, la questione relativa alla dimensione della nostra spesa pubblica e alla conseguente riduzione del perimetro dello Stato. Senza una spending review coraggiosa e non solo annunciata saremo costretti ad accontentarci di riduzioni fiscali del tutto irrilevanti, ben comprendendo che sui conti degli anni futuri pesano ancora le incognite delle clausole di salvaguardia, e quindi di nuove tasse e nuove imposte».

TabellaTasse

 

Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Roberto Petrini – La Repubblica

Conto alla rovescia per il tax­Day sulla casa. Martedì 19,7 milioni di proprietari di prima casa e 25 milioni di proprietari di altri immobili saranno chiamati a pagare rispettivamente l’acconto Tasi e la prima rata dell’Imu. Un doppio prelievo fiscale che vale almeno 12 miliardi (9,7 di Imu e 2,3 di Tasi). La data rischia di essere un vero e proprio «martedì nero»: tra acconti e saldi Irpef, Ires e Irap e altro i contribuenti saranno chiamati a versare altri 38 miliardi.

Il costo medio della Tasi, secondo il consueto rapporto della Uil servizio politiche territoriali, sarà di 180 euro medi (90 euro da versare con l’acconto), ma se si prendono a riferimento le città capoluogo l’importo sale a 230 euro medi (115 euro per l’acconto), con punte di 403 euro. Cifre decisamente più alte per quanto riguarda l’acconto Imu sulle seconde case: il costo medio in questo caso è di 866 euro di cui 433 euro da pagare con l’accconto di giugno, con punte di 2.028 euro a Roma (1.014 euro l’acconto) e 1.828 euro a Milano (914 euro di acconto). Tra le città in cui l’acconto Tasi prima casa sarà «mini», la classifica vede in prima fila Asti (10 euro), seguita da Ascoli Piceno (23 euro) e da Crotone con 26 euro.

Le sorprese tuttavia non sono finite. Quest’anno non dovrebbe verificarsi il caos del 2014 quando si rimase nell’incertezza dell’aliquota in attesa delle delibere: si pagherà infatti con l’aliquota approvata dai Comuni per l’anno 2014.Tuttavia questo sollievo potrebbe essere solo apparente, perché i Municipi hanno tempo fino al 31 luglio per approvare i bilanci e le relative delibere Tasi- Imu: di conseguenza in sede di saldo, il 16 dicembre, potrebbe arrivare la «stangata» dell’aumento. Ad oggi infatti, secondo uno studio dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti, solo il 16,5 per cento dei Comuni ha deliberato le nuove aliquote, il restante 83,5 per cento potrebbe riservare una sgradevole scoperta al contribuente. In pochissimi casi, a parte la virtuosa Valle d’Aosta che raggiunge un 81 per cento, nelle regioni italiane si trovano percentuali superiori al 20 per cento. Al Sud le delibere non raggiungono il 10 per cento. «Dove non c’è delibera non si possono dormire sonni tranquilli», dice Mirco Mion, presidente dell’Agefis.

La pressione fiscale sulla casa è comunque in crescita: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro il totale delle imposte che gravano sugli immobili sono cresciute rapidamente negli ultimi quattro anni, passando dai 38 del 2011 agli oltre 50 nel 2014. Si attende per il prossimo anno la più volte annunciata local tax: «Cambierà il nome, ma non la sostanza delle cose, bisogna rivedere le addizionali comunali Irpef, avverte Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil.

Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Davide Giacalone – Libero

Ingannevole e intollerabile. Un Paese ricco abitato da poveri. Queste le caratteristiche del ritratto fiscale, come ogni anno desumibile dalle dichiarazioni dei redditi. Un profilo deformato dal satanismo fiscale, in una gara di disonestà fra l’esattore e l’esatto, il cui esito è l’impoverimento collettivo.

L’Italia è in cima alla classifica europea per il prelievo fiscale sui redditi da lavoro (implicit tax rate). Al secondo per quello sui redditi d’impresa. Al quarto, ma stiamo risalendo, per la tassazione ricorrente sul patrimonio immobiliare. Ha un senso che chi tassa molto il patrimonio tassi meno i redditi, e viceversa, ma noi primeggiamo nel tassare tutto, portando il prelievo fiscale al 43,4% del prodotto interno lordo, nel mentre la spesa per investimenti è crollata, in tre anni, del 27%. In sei anni, dal 2009 al 2014, le entrate fiscali sono cresciute di 55 miliardi. La media europea del peso fiscale sui ricavi d’impresa (total tax rate) è del 41,8%. Lasciamo nel mondo dei sogni (nostri), il Regno Unito, dove è del 33,7, ma in Germania arriva al 48,8, mentre da noi ha toccato la vetta del 65,4%.

Intollerabile quel che emerge dalle dichiarazioni dei redditi, perché nel mentre si continua a sentir dire che dovrebbe aumentare la pressione fiscale sui ricchi, lasciando perdere le fasce meno abbienti, questa è la realtà (messa bene in luce da Alberto Brambilla e Paolo Novati): lo 0.19% dei contribuenti versa il 6.9% dell’intero gettito Irpef; l’1,2 il 16,3; il 4,01 il 32.6. A questi signori si dovrebbe fare un monumento, invece li si continua a tartassare con la scusa che sono “ricchi”. In realtà non lo sono affatto. Sono solo onesti. Intanto poco più di 10 milioni di italiani, il 25,23% dei contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi (circa 41 milioni), non versa praticamente nulla: 55 euro. Già solo per pagare le loro spese sanitarie si deve ricorrere ai soldi altrui. Mettete questi numeri in relazione con la retorica del dagli­al­ricco e arrivate alla conclusione: intollerabile. Ma anche ingannevole. Perché l’Irpef è solo l’imposta sui redditi, mica il complesso delle pretese fiscali dello Stato. Martedì 16 si pagano le tasse sulla casa, che sono patrimoniali variamente mascherate. Quest’anno si batterà il record: per la prima volta si sfonda il tetto dei 50 miliardi. Il calcolo fatto dal centro studi ImpresaLavoro è impressionante: nel 2011 gravavano, sulla casa, tasse per 38 miliardi, quattro anni dopo siamo sopra 50. Non so quanti sono in grado di ricordare il balletto delle sigle: Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tari e Tasi. Ogni volta si prometteva che non ci sarebbero stati aggravi, se non addirittura sgravi, il risultato è quello appena descritto.

Già, però abbiamo avuto le semplificazioni. Quali? Le dichiarazioni precompilate si sono rivelate, come qui anticipato, precomplicate. Siamo giunti al punto che quelle già firmate e inviate potevano essere modificate e rispedite, dato che la fonte degli errori era l’amministrazione pubblica. L’introduzione della certificazione unica ha creato un caos pericoloso, anche perché il programma per poterla fare correttamente è stato distribuito pochi giorni prima della scadenza, risultato: ritardi, errori, certificazioni non regolari. Per ciascuna difformità il contribuente dovrebbe pagare 100 euro di multa, salvo l’aggravio d’imposta e relativa maggiorazione. Stanno provando a eliminare almeno la multa, visto che è proprio l’Agenzia a perdonare sé stessa. Per le tasse locali dovevano arrivare i bollettini precompilati, che non solo mancano, nella grande maggioranza dei casi, ma neanche è stata fissata l’aliquota da pagarsi, per cui martedì siamo tenuti a pagare quanto pagammo l’anno scorso, salvo attendere che ci facciano sapere a quanto ammonta la differenza da versare poi. Alla faccia delle semplificazioni.

Il satanismo fiscale, inoltre, ha affondato l’ipotesi di far aumentare la liquidità nelle tasche delle famiglie, quindi la propensione alla spesa, mediante anticipazione in busta paga del Trattamento fine rapporto. Ha aderito all’idea solo lo 0,056% dei lavoratori, mentre il 60% dichiarava di non volerlo fare perché avrebbe comportato un consistente svantaggio fiscale. Ed è così.

Nessuno, che sia serio e abbia sale in zucca, crede che questa sia una materia semplice o che si possa cambiarla con un tocco di bacchetta magica. Ma nessuno, che non sia un propagandista da tre palle un soldo, può sostenere che si siano fatti passi in avanti. Il cappio è invariato: la pressione fiscale quale variabile dipendente dalla spesa pubblica, che nonostante i tagli, il drastico abbattimento degli investimenti e i bassi tassi d’interesse che dobbiamo alla Banca centrale europea, continua a camminare per i fatti suoi. Questo è il quadro in cui si deve inserire l’idea del governo Renzi di tornare al capitalismo di Stato, che nell’illusione di far crescere il pil mantiene altissima una pressione fiscale che lo asfissia.