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Una doccia gelata l’Iva dovuta sugli aiuti

Una doccia gelata l’Iva dovuta sugli aiuti

Giangiacomo Schiavi – Corriere della Sera

Questa è una storia di lutti, di solidarietà, di rinascita. E anche di una doccia gelata. Una storia che coinvolge persone, legami, speranze. E si svolge attorno a una scuola: un investimento sul futuro. Cavezzo, Emilia: il paese più colpito dal terremoto di due anni fa. Qui la ricostruzione di un polo scolastico è diventata un atto di fiducia nel quale si è ritrovata una comunità. C’è voluto un po’ di tempo, ma la buona volontà e il sostegno convinto della Regione Emilia-Romagna, del Comune, dei sindaci, degli insegnanti e dei genitori dei 600 bambini, ha vinto su tutto: burocrazia, divisioni politiche, ostacoli tecnici. Grazie alla sottoscrizione dei lettori del Corriere e del Tg La7 sono state realizzate aule, laboratori, palestra, sala riunioni, un learning garden, l’orto didattico e un piccolo parco, perché con gli alberi si cresce e si educa all’ambiente.
L’avventura della ricostruzione è stata una lezione di tenacia e di umanità. Fra qualche giorno verrà consegnato alla comunità locale un complesso educativo, civile e sociale realizzato grazie a un’innovativa alleanza tra privati e amministrazione pubblica nel paese che nella terribile primavera del 2012 divenne uno dei simboli del cratere sismico: quattro morti, decine di feriti, settemila sfollati, ottocento abitazioni inagibili, un quadro di rovine e disperazione.

Il giardino della conoscenza

Per arrivare a questo, per cucire assieme i precedenti interventi di Regione e Comunità delle Giudicarie e trasformare un campo di mais al confine del paese in un «giardino della conoscenza», sono stati impiegati i quasi tre milioni di euro raccolti da «Un aiuto subito» la sottoscrizione del Corriere e del Tg La7. Ci hanno dato una grossa mano Renzo Piano e gli architetti della sua fondazione: sono stati a Cavezzo, hanno offerto consulenze e progetti, cercando di integrare con le nuove costruzioni quel che era stato fatto nell’emergenza per garantire le lezioni ai bambini. Il progetto, affidato allo studio Carlo Ratti di Torino, utilizza le migliori tecniche di edificabilità e sostenibilità ambientale. Ci piacerebbe farlo diventare la seconda piazza del paese: un luogo di studio, di sport e di civiltà.

Il «prezzo»della beneficienza

È giusto ringraziare tutti, tutti meno lo Stato, la cui presenza si è materializzata solo sotto forma di esoso esattore. Ciò che resta dei fondi se li prende lui. Per aver realizzato un polo scolastico con i soldi dei lettori, dobbiamo pagare una tassa. Una tassa sulla generosità prevista con l’Iva: trecentomila euro. Mentre si prepara la riforma del non profit, nessuno pensa a rimuovere un balzello che pesa sulla beneficienza: oggi in Italia lo deve pagare l’azienda che decide di ristrutturare a sue spese un padiglione d’ospedale e l’associazione che regala un’ambulanza al pronto soccorso. Un’assurdità. Accade ai Rotary, ai Lyons, alle associazioni e alle fondazioni che decidono di farsi carico di opere o lavori destinati alla pubblica utilità. Si paga l’Iva per la biblioteca restaurata dopo l’alluvione di Aulla, per la Casa del volontariato di Milano, per realizzare il centro sportivo di Scampia gestito gratuitamente dai volontari. Si paga l’Iva su tutto, calamità (ovviamente) comprese.

I paradossi del fisco

L’Iva, per chi compra o vende, è un obbligo di legge. L’imposta sul valore aggiunto si paga al 22 per cento, ma quando si realizzano opere di valore sociale come le scuole si ottiene uno sconto fino al 10 per cento. In sede di bilancio non è un problema: si tratta di una partita di giro. Chi la carica sulla merce acquistata può scaricarla su quella venduta. Per noi (e certamente per altri benefattori) invece è un extra: non abbiamo partite di giro, si paga e basta. Sono i paradossi della nostra disciplina fiscale: invece di essere agevolato, chi fa del bene viene spesso ostacolato. Non serve una doccia gelata qui: basterebbe un emendamento del governo o del parlamento per annullare un’assurda gabella, restituendola ai terremotati di Cavezzo, ai sindaci impegnati nella ricostruzione, alle insegnanti e ai bambini del polo scolastico. Sarebbe un atto di buon senso e l’inizio di una fattiva collaborazione tra privati e istituzioni, in caso di disastri e calamità. Ma nessuno ci ha pensato.

Le giuste distinzioni

Si dirà che la questione è poca cosa rispetto ai guai che stiamo attraversando. Ma l’insieme di tante piccole cose che non vanno sta diventando un intralcio alle tante spinte positive che ci sono nella società. Perché lo Stato invece di favorire il cittadino o l’azienda che gli fa risparmiare milioni di euro pretende da questi una tassa? In un Paese dove abusi e illegalità devastano l’economia pubblica con ruberie di ogni sorta, perché non si fa qualche distinzione sulla disciplina dell’Iva per chi fa del bene? Non sarebbe un incentivo per tante aziende a investire nella solidarietà? Si obietterà: l’Iva si paga perché lo prevede una normativa comunitaria. Ma l’Iva non è uniforme e la normativa europea stabilisce solo limiti e criteri, dando facoltà poi agli Stati di definire esattamente il quadro giuridico. Qual è la risposta di questo governo?

La fiducia che alimenta la democrazia

Chi fa beneficenza non può essere trattato come il gestore di una slot machine , anzi peggio (i gestori hanno avuto uno sconto milionario sugli arretrati da pagare allo Stato). Noi vorremmo che una ricostruzione nata dal cuore con un gruppo di lavoro straordinario, diventasse un valore condiviso anche dallo Stato, in cui vogliamo avere fiducia. È la fiducia, è l’affidamento nelle lealtà delle istituzioni, che dà benzina alla democrazia, ha scritto Michele Ainis. Ma se lo Stato agisce come un esoso mercante, che fiducia si può avere? Uno Stato che non si pone il problema del bene comune suscita disaffezione, fastidio. E anche ostilità. Sentimenti che, davanti a quanto di buono ogni giorno viene fatto in Italia, tutti noi vorremmo non provare.
(PS: la tassa di trecentomila euro rischia di ridimensionare il progetto per Cavezzo. Ma noi non vogliamo lasciare il lavoro interrotto: andremo avanti comunque. Chiederemo un piccolo aiuto a chi può darlo. E uno più grande a chi ha una maggiore disponibilità. Sul conto «Un aiuto subito» presso Intesa San Paolo abbiamo lasciato per mesi 2.975.076 euro a un modesto tasso di interesse. Fosse lo stesso che ci chiede oggi lo Stato, saremmo a posto. La generosità di Intesa San Paolo ha spesso sostenuto avventurose imprese di Stato con milioni di euro, bruciati inutilmente in pochi mesi. A Cavezzo non ci sono capitani coraggiosi del capitalismo, ma cittadini e studenti. Per la banca dovrebbero essere un valore su cui investire; per lo Stato un’occasione per riflettere: questa storia riguarda tutti, non solo noi).

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Una spirale di tasse e di spese da spezzare

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Ma se il Fisco continua a rincorrere le maggiori spese pubbliche, quante speranze ha l’Italia di ritrovare la crescita? La risposta è: zero. Spezzare questa spirale perversa per cui la famosa austerity si scarica su famiglie e imprese e non vale per lo Stato (che ha tagliato però gli investimenti in conto capitale e di fatto rinunciato a qualsivoglia ruolo propulsivo) dovrebbe essere una delle “grandi” riforme, al pari di quella, per fare un esempio, che il Governo Renzi ha annunciato per la giustizia civile.

Uno sguardo incrociato alle scadenze tributarie di fine estate e inizio autunno e agli appuntamenti per la politica economica del Governo riporta la questione fiscale in primo piano. Diciamo subito che aver messo nel 2012 il principio del pareggio di bilancio in Costituzione non è un’assicurazione. Non avendo previsto né un tetto alla pressione fiscale né un tetto alla spesa, può accadere che sia quest’ultima ad aumentare di continuo inducendo governi e parlamenti a rincorrerla a suon di aumento delle tasse più che facendo ricorso alla revisione della spesa.

È quello che è successo negli ultimi anni, con i risultati, pessimi, che conosciamo. Non è pertanto un caso che la spesa pubblica si avvii a chiudere il 2014 a quota 825 miliardi (di cui 535 di spese correnti), quasi un +8% rispetto al 2013, mentre la pressione fiscale – superiore di oltre 5 punti alla media europea – raggiunge il 44% in rapporto al Pil (che diventa però oltre il 53% reale se consideriamo l’economia sommersa e oltre il 65% come tassazione complessiva per le imprese).

È su questo sfondo di numeri deprimenti che si gioca la partita. L’attesa revisione del Pil secondo le nuove regole europee (è dato in lieve crescita) non può fare miracoli.

Renzi («No a nuove tasse, sì ai tagli di spesa») pare deciso ad imprimere una svolta dopo il chiacchiericcio estivo alimentato anche da ministri, viceministri e sottosegretari. Vedremo. Tanto più considerato che il calendario fiscale rimette sul piatto dei contribuenti la vicenda Tasi (Tassa comunale sui servizi indivisibili): sono stati a giugno scorso solo 2.187 i Comuni che hanno rispettato le scadenze e dove si è pagata la prima rata di acconto 2014 entro il 16 giugno. Per tutti gli altri, circa 6mila Comuni, l’appuntamento è per il 16 ottobre ed entro il 10 settembre dovranno deliberare le nuove aliquote. Poi, il 16 dicembre versamento per tutti della seconda rata a saldo. La politica fiscale sulla casa, tanto arrembante sul terreno del gettito quanto oggetto di una persistente incertezza regolatoria che ha incrinato la fiducia dei contribuenti, viene così, con la scadenza del 16 ottobre, a battere cassa proprio nei giorni in cui il Governo, dopo aver aggiornato il Documento di economia e finanza (Def) presenta il 15 ottobre a Roma e a Bruxelles la Legge di stabilità per il 2015, sulla quale la Commissione europea esprimerà un giudizio entro il 15 novembre. Si tratta di una coincidenza, ma non è cosa da sottovalutare. E comunque, anche nel momento in cui il Governo Renzi affronterà in Europa un duro negoziato, contribuisce anch’essa a rimettere al centro, se davvero si vuole parlare di ripresa, la questione fiscale che a sua volta ripropone, o dovrebbe riproporre, l’irrisolto nodo della spesa pubblica. Conviene ricordare, per fare un solo esempio, la storia del fondo sanitario dal 2001 ad oggi come ricostruita dal Centro Studi Sintesi per il Sole 24 Ore. Sono stati distribuiti 512 miliardi, ma 87 euro ogni 100 hanno seguito il parametro della “spesa storica”, quello per il quale un anno dopo l’altro chi spende di più è di fatto garantito nella copertura della spesa. Questa componente della spesa avrebbe dovuto ridursi del 9% l’anno fino ad esaurirsi a partire dal 2013. Non è andata così e, a motivo di un ritmo di discesa concordato con le Regioni, o meglio di un piano quasi per nulla inclinato, l’addio è previsto per il 2066. Fantarealtà.

Un labirinto di prelievi e distrazioni diverse

Un labirinto di prelievi e distrazioni diverse

Michela Finizio – Il Sole 24 Ore

Mancano meno di due mesi al 16 ottobre e molti italiani ancora non hanno capito quanto (e se) devono pagare di Tasi. I dubbi sull’imposta comunale, però, rischiano solo di aumentare confrontandosi con amici o parenti più o meno lontani. A leggere le delibere pubblicate finora sul sito delle Finanze le regole sono diverse da città a città, con una variabilità molto superiore a quella sperimentata con l’Imu.
Cambia pelle da nord a sud, infatti, il tributo per i servizi comunali indivisibili, introdotto dal 2014. Come un dialetto che si adatta alle esigenze locali, si traduce in aliquote e detrazioni molto diverse a pochi chilometri di distanza. A Gorizia, per esempio, sulle abitazioni principali (escluse quelle di lusso in categoria A1, A8 e A9) l’aliquota è fissata all’1,5 per mille con detrazioni modulate in base alla rendita catastale; poco più in là, verso il mare, la cittadina di Grado ha ritenuto di azzerare la Tasi per il 2014, «in un’ottica di semplificazione del rapporto con i contribuenti», si legge nella delibera. Ma è probabile che i conti comunali beneficino dell’Imu pagata sulle numerose seconde case presenti in città.
La grande autonomia lasciata ai Comuni nel determinare la Tasi genera differenze così forti da rendere quasi impossibile confrontare il livello del prelievo sulle abitazioni principali: a Celle Ligure (Savona) l’aliquota è dell’1 per mille, grazie – anche qui – all’elevata densità di seconde case; a Carugate (Milano) sale al 3,3 per mille, anche se l’immobile è di proprietà di anziani o disabili in istituto di ricovero e non locato (la detrazione base è di 100 euro, cui se ne aggiungono 50 per ogni figlio). Detrazioni a parte, il prelievo varia molto anche nelle grandi città: a Brescia l’aliquota è del 2,5 per mille; a Pisa del 3,3; a Modena del 2,5; a Firenze del 3; a Bergamo del 3,2.
In alcuni casi, inoltre, la Tasi diventa una specie di “maggiorazione” sull’Imu: a Maratea, in Basilicata, all’imposta unica municipale si somma un’aliquota Tasi dello 0,4 per mille su residenze di lusso (in classe A1, A8 e A9), seconde case e immobili locati; a Roccaraso, in Abruzzo, il Comune ha scelto di “spalmare” su tutti i fabbricati la Tasi all’1 per mille.
Non tutti i Comuni, poi, hanno beneficiato del meccanismo delle detrazioni. Accade sia al confine con la Francia, a Ventimiglia, sia in Calabria a Vibo Valentia, dove in entrambi i casi è prevista un’aliquota del 2,5 per mille sulle abitazioni principali senza “sconti”. In questi casi, sulle case dalla rendita catastale modesta il conto è superiore a quello dell’Imu, che con la detrazione di 200 euro garantiva di fatto una no tax area.
Altre amministrazioni, invece, hanno “disegnato” un vero e proprio puzzle di sconti progressivi: Pisa prevede nove fasce, in base alla rendita catastale; Parma aggiunge le esenzioni in base all’Isee; a Cassinetta di Lugagnano (Milano) le famiglie con Isee sotto i 12mila euro non pagano. Sono diffuse anche le detrazioni (dai 25 euro a Pisa ai 50 a Bergamo) per ciascun figlio sotto i 26 anni. Ma a Cernobbio (Como), quasi per fare uno sgarbo ai “bamboccioni”, lo sconto di 30 euro sulla Tasi è solo per i figli sotto i 18 anni.
Mai come in questo caso, poi, il parametro dell’aliquota rischia di essere fuorviante. A Cava de’ Tirreni, per esempio, l’aliquota Tasi sulle abitazioni principali è quella massima del 3,3 per mille come nel vicino Comune di Salerno. In quest’ultimo, però, le unità con rendita catastale fino a 750 euro godono di uno sconto pari a 100 euro (che raddoppia se la rendita è inferiore a 350 euro). Meno fortunati i proprietari di Cava de’ Tirreni, e non solo perché le loro case in collina non si affacciano sul mare: per loro è prevista solo una detrazione base di 50 euro.  

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Antonio Salvi – Il Giornale

Bene ha fatto Draghi a ricordare ai governi europei che la politica monetaria da sola non può rilanciare in maniera strutturale le economie decotte. Ha parlato a nuora perché suocera (il primo ministro italiano, su tutti) intenda.

Draghi ha semplicemente sostenuto che, per sperare di prendere un buon voto a scuola occorre prima fare bene i propri compiti a casa e poi eventualmente sperare nella mano paterna del professore. Il rilancio delle economie in maniera non effimera non è mai, dico mai, stato realizzato attraverso l’attuazione di politiche monetarie ad hoc. Affinché il rilancio dell’economia avvenga in maniera durevole è necessario perseguire un recupero di competitività complessiva del sistema. Come? Facendo le riforme. L’Italia sta facendo i compiti a casa? No. E tutti i bei discorsi di Renzi? Parole al vento. Segnalo che sono già passati 6 mesi (centottanta giorni!), e ancora di riforme concrete non se ne vede l’ombra. Sacrosanto dunque il richiamo da parte di Draghi. L’agenda delle riforme che contano è chiara e il governo ha – temo per poco ancora – il giusto consenso nel paese per poterla attuare, eppure si traccheggia e si procede con tentativi velleitari e di pura facciata. Renzi non era colui che nell’ormai remoto 22 febbraio scorso aveva promesso una riforma al mese nei primi cento giorni del suo governo. Il fanfarone, vista la mala parata, ha pensato bene di aggiungere uno zero ai cento giorni, preferendo adesso cambiare il nostro paese in mille giorni. Approfittando della dabbenaggine degli italiani.

Ad avviso di chi scrive, la prima grande riforma da portare avanti è quella della pubblica amministrazione. Eppure, quella fin qui varata è solo una riformina che non cambia granché. Aspettiamo invece la legge delega, che forse arriverà nel giro di qualche anno. L’abolizione delle provincie? È solo sulla carta. Più in generale, è necessario ridurre la spesa pubblica. Dove? Ovunque. Sono solo io il cittadino italiano che quando entra in qualsiasi ufficio pubblico è investito dalla netta sensazione che dappertutto si batta la fiacca? E allora giù di scure, senza tanti riguardi. Il lavoro è un’altra emergenza del nostro paese. Renzi non ha fatto praticamente nulla a riguardo (salvo il poverissimo ddl Poletti), mentre la vera partita si gioca altrove, dove non c’è traccia di volontà del governo di voler intervenire seriamente. Ad esempio, sull’articolo 18, il quale andrebbe semplicemente cassato in toto. Si tratta di una tutela discriminatoria (distinguendo tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B) e anacronistica. Lo capiscono infatti anche i bambini (ma non le teste d’uovo della sinistra italiana) che inibire la crescita delle aziende oltre i 15 dipendenti vuol dire far partecipare il nostro sistema produttivo a una battaglia globale con i canotti, laddove gli altri paesi hanno le portaerei.

E poi c’è la riforma del fisco, inizialmente prevista per maggio, ma persasi anch’essa chissà dove. Renzi ha promesso la semplificazione fiscale. Chi l’ha vista? Intanto, nel 2015 ci arriverà il 730 precompilato, strumento straordinariamente illiberale, su cui non mi è parso di aver assistito a grandi grida di dolore da parte degli intellettuali liberali. E poi c’è la riforma della giustizia, anch’essa ferma alle buone intenzioni. E poi tanto altro ancora. Renzi ha affermato che è necessario togliere il paese dalle mani dei soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Capitalismo di relazione? E la politica che fa il nostro premier? Cos’altro è se non delle sue relazioni e del suo vicinato, visto che la maggior parte del tempo l’ha finora spesa a piazzare nei posti giusti amici e corregionali, con scelte molto spesso quantomeno di dubbio gusto. #Matteomafacciilpiacere…

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Walter Passerini – La Stampa

Puntuale come una sagra paesana, ogni fine agosto si celebra il tormentone delle pensioni, fatto apposta per demotivare il ritorno al lavoro e il rientro dalle vacanze. Le sembianze quest’anno vanno sotto il nome di prelievo di solidarietà, su cui si cimentano ministri, politici, contabili, liberisti, sovietologi e alchimisti vari. Alla insostenibile leggerezza degli assegni (l’importo medio annuo è di 11 mila euro lordi) si accompagna l’insopportabile leggerezza di Catoni e Censori che si divertono a gettare alcol sul fuoco, aumentando l’incertezza degli italiani e il loro umor cupo. Sulle pensioni non si scherza, simboleggiano e sostanziano non solo la capacità di avere un reddito, ma anche il patto di coesione sociale su cui si fondano le comunità e il patto di fiducia sui diritti acquisiti e sul futuro. Non può essere unicamente economico e contabile, quindi, il parametro su cui impostare la riapertura del cantiere pensioni, ad alcune condizioni.

La prima è che non si può fare cassa con la previdenza: le pensioni non sono né un bancomat né una slot machine. Gli eventuali risparmi della spesa previdenziale devono restare nel sistema previdenziale stesso. La seconda è che le pensioni non sono un campo di battaglia in cui consumare vendette: le storture ci sono, le ingiustizie pure (vedi i vitalizi di politici e parlamentari), e Robin Hood non è più in attività. Il rischio è illudere le masse che togliendo ai super-ricchi possano goderne i poveri. I Paperoni che guadagnano più di 20 mila euro lordi al mese sono 540, mentre sopra 3 mila al mese lordi ci sono 505 mila pensionati, che valgono 38 miliardi l’anno: poca cosa se li si vuole tassare al 10% con un prelievo di solidarietà. Il paniere si restringerebbe ulteriormente alzando l’asticella a più di 5 mila euro lordi al mese, che riguarda 140 mila individui, il cui sacrificio sarebbe ancora più inconsistente. I rimedi sinora proposti avrebbero un significato più simbolico che concreto. Nessuno ha oggi una ricetta del tutto convincente, anche perché per accontentare i contabili si abbassa l’asticella e l’alta tensione diventa micidiale. Cinque possibili le strade su cui far convergere opinione pubblica ed esperti, se si vuole dettare l’agenda ai politici. La prima è la costituzionalità, più ancora dell’efficacia, dell’eventuale prelievo di solidarietà. Già due recenti sentenze della Corte Costituzionale lo hanno bocciato. Sarebbe necessario un Fondo previdenziale, i cui proventi dovrebbero restare nel sistema pensionistico stesso.

La seconda è il valore delle pensioni. Il sistema contributivo riduce di un terzo il reddito medio percepito e rischia di creare una generazione di poveri. Oggi ci sono 13 milioni di pensioni retributive e solo 360 mila pensioni contributive, a cui vanno aggiunti 1,1 milioni di pensioni miste. Ma nel prossimo futuro il rapporto si rovescerà, creando potenziali bombe sociali nei sistemi di welfare.

La terza strada è il diritto all’informazione. Mentre il sistema retributivo legava con un coefficiente la pensione a stipendi e anni lavorati, oggi e domani la pensione dipenderà dai contributi effettivamente versati. Il cambiamento produrrà effetti depressivi sui redditi più bassi e insostenibili paradossi: chi vorrà lavorare oltre i 69-70 anni avrà una pensione superiore al 100% degli stipendi percepiti; i giovani e le donne, con una vita contributiva discontinua, si vedranno decurtare il reddito del 30%.

Per questo, ed è la quarta strada, si rende necessaria la busta arancione, un sistema di comunicazione che permetta ai cittadini di conoscere l’ammontare dei propri contributi e la simulazione del futuro assegno pensionistico. Cittadino informato, cittadino salvato? Forse nemmeno questo basterebbe, se non venisse affiancato, ed è la quinta strada, da un robusto rafforzamento della previdenza integrativa, più collettiva che individuale, per integrare un assegno pubblico che si preannuncia modesto. La questione previdenziale va legata alla questione del lavoro. Non si risolve trattenendo al lavoro più a lungo le persone, ma aumentando le entrate di nuovi lavoratori e di nuova linfa contributiva. E’ solo la creazione di nuovo lavoro che garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico nel futuro.

Cortesie del fisco obbligate e in ritardo

Cortesie del fisco obbligate e in ritardo

Massimo Fracaro – Corriere della Sera

Uno su due non ce la fa. Il boom dei pagamenti a rate delle cartelle esattorialinon è certo un bel segnale. Un’ulteriore conferma della crisi in cui aziende e imprese si dibattono da ormai sei anni e che sembra non finire mai. Il conto che viene presentato con le cartelle esattoriali in genere è di quelli pesanti, comporta cioè il pagamento di somme rilevanti, ma quando si ha a che fare con il Fisco è sempre meglio chiudere la partita in fretta. E togliersi il pensiero. La rateizzazione comporta, invece, il pagamento di pesanti interessi che vanno ad appesantire, e non di poco, il conto finale. Per non parlare dei casi nei quali i contribuenti, a corto di liquidità, sono anche costretti a chiedere aiuto al sistema bancario per onorare il debito. Interessi che si sommano agli interessi. E senza dimenticare il rischio che si corre se si salta una rata…

Le statistiche rese note lunedì evidenziano che la dilazione dei pagamenti è più diffusa tra le famiglie, un dato che conferma quanto siano oggi in difficoltà. Resta da chiedersi, e sarebbe interessante saperlo, di quali colpe si siano macchiate per essere costrette al pagamento rateale, immaginando che le cifre in ballo siano consistenti. Si tratta di multe stradali lievitate astronomicamente perché non sono state saldate in tempo? Di macroscopici errori, vere e proprie frodi, nelle dichiarazioni dei redditi? E, in questo caso, va forse rivista la mappa dell’evasione? Oppure di infrazioni causate dalla complessità del sistema tributario? La risposta sarebbe utile per capire se si tratta di una dinamica ordinaria nei rapporti tra cittadini e fisco o di un ennesimo episodio di oppressione fiscale. Perché, si sa, il Fisco italiano ha il brutto vizio di essere forte soprattutto con i deboli.

Forse spinta dall’evidenza dei dati, Equitalia ha annunciato sempre ieri un nuovo corso: dal 2015 verranno inviati assieme alla cartella esattoriale piani di rateizzazione precompilati del debito, in modo che il contribuente possa scegliere se saldare il conto tutto e subito oppure in 72 o 120 rate. Una decisione che va apprezzata. Resta da chiedersi perché sia stata presa solo adesso. Finora, infatti, come confessa ingenuamente Equitalia, i contribuenti dovevano recarsi allo sportello e fare la coda o simulare il piano di ammortamento dal sito Internet, per capire se e come saldare il conto a rate. Immaginiamo che, considerati i dati resi noti ieri, gli uffici negli ultimi mesi siano stati presi di assalto dai contribuenti interessati a dilazionare i pagamenti. Non si poteva fare prima questo piccolo gesto di cortesia verso i contribuenti? Chi ha sbagliato, deve pagare. Senza la pena accessoria della burocrazia.

Fisco a rate per 27 miliardi di euro

Fisco a rate per 27 miliardi di euro

Giorgio Costa – Il Sole 24 Ore

Dal prossimo anno le cartelle che Equitalia notificherà ai contribuenti avranno, in allegato, i piani di rateizzazione precompilati del debito che possono essere concessi in base ai parametri previsti dalla legge. Il contribuente, quindi, potrà scegliere di saldare in un’unica soluzione o aderire al piano di pagamento più adatto alle sue esigenze e alle sue disponibilità economiche. Utilizzando il piano precompilato, il contribuente non dovrà più recarsi allo sportello o simulare il piano di ammortamento dal sito Internet, ma avrà già a disposizione tutti gli elementi per decidere come pagare contestualmente alla notifica della cartella.
Ma anche senza attendere i piani precompilati, la rateizzazione si conferma lo strumento più utilizzato dai contribuenti per pagare le cartelle. Nello scorso mese, peraltro, è stato registrato il record di 156mila richieste, con una media settimanale pari a circa il doppio di quella registrata nei primi sei mesi dell’anno; e questo boom è stato anche dovuto al fatto che il 31 luglio scorso scadeva il termine entro cui chi era decaduto dal beneficio a fine giugno poteva rimettersi in termine e utilizzare nuovamente il sistema delle rateazione.

Ad oggi sono attive 2,4 milioni di rateazioni per un controvalore di 26,6 miliardi e di fatto più della metà delle riscossioni di Equitalia avviene oggi tramite il pagamento dilazionato, che può arrivare a 10 anni. Il 76,9% delle rateizzazioni in essere riguarda persone fisiche e il restante 23,1% società e partite Iva. Se invece si guarda agli importi, il 65,9% delle rateazioni è stato concesso alle imprese e solo il 34,1% a persone fisiche. Il 70,8% delle rateizzazioni riguarda debiti fino a 5mila euro, il 26,2% debiti tra 5mila e 50mila euro e il 2,9% somme oltre i 50mila euro. La Lombardia si conferma la regione che guida la “classifica” dei pagamenti dilazionati con oltre 384mila rateizzazioni attive per un importo di 5,5 miliardi, seguita dal Lazio (305mila per un importo di 3,7 miliardi), dalla Campania (265mila per un importo di 3,2 miliardi di euro) e dalla Toscana (231mila per un importo di 1,9 miliardi).
La grande quantità di richieste di rateizzazioni se da un lato dà l’idea delle difficoltà economiche in cui versano contribuenti e imprese, dall’altro può anche essere letta come il forte gradimento verso un sistema di pagamento più diluito e facile da ottenere visto che per importi fino a 50mila euro è sufficiente una semplice richiesta: di fatto un modo per “finanziare” la famiglia o l’impresa non chiedendo denari in prestito, ma spalmando sul medio periodo le somme da pagare al Fisco. Attualmente è possibile ottenere un piano di rateizzazione straordinario fino a 120 rate (10 anni) oppure un piano ordinario a 72 rate (6 anni). L’importo minimo di ogni rata è, salvo eccezioni, pari a 100 euro. I piani sono alternativi per cui, in caso di mancata concessione di una dilazione straordinaria, si può chiedere una rateazione ordinaria. Finché i pagamenti sono regolari il contribuente non è più considerato inadempiente e può ottenere il Durc e il certificato di regolarità fiscale per poter lavorare con le pubbliche amministrazioni. Inoltre il contribuente che paga a rate è al riparo da eventuali azioni cautelari o esecutive (fermi, ipoteche, pignoramenti).

Per debiti fino a 50mila euro si può ottenere un piano ordinario di rateizzazione (72 mesi), compilando un modulo disponibile sul sito Internet www.gruppoequitalia.it e negli sportelli di Equitalia, e riconsegnarlo a mano oppure spedirlo con raccomandata con ricevuta di ritorno. Per importi oltre 50mila euro serve, invece, allegare documenti che dimostrino lo stato di difficoltà economica. È possibile richiedere rate variabili e crescenti, anziché rate costanti, in modo da poter pagare meno all’inizio nella prospettiva di un miglioramento della condizioni economiche. Si può, invece, arrivare a 120 mesi in caso di grave e comprovata situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica ed estranea alla propria responsabilità e quando l’importo della singola rata è superiore al 20% del reddito mensile del nucleo familiare. Questo parametro è valido anche per le ditte individuali. Per le altre imprese, invece, la rata deve essere superiore al 10% del valore della produzione mensile. I piani di rateizzazione, ordinari e straordinari, possono essere prorogati una sola volta. In entrambi i casi si può chiedere una proroga ordinaria (in ulteriori 72 rate) oppure, in presenza dei requisiti previsti, una straordinaria (massimo 120 rate).  

Lasciate in pace il ceto medio

Lasciate in pace il ceto medio

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La parola chiave della politica sociale di metà agosto è «asticella». L’ha usata ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, intervistato sul Corriere da Enrico Marro. Si discuteva di un (non tanto) ipotetico contributo di solidarietà (slittamento lessicale che sostituisce la parola «tassa») a carico delle pensioni alte ed è rispuntato un progetto e un vecchio dilemma dei governi succedutisi in questi tribolati anni. Se il contributo di solidarietà lo si carica sugli assegni mensili veramente d’oro e d’argento le risorse che si rastrellano per questa via alla fine sono poche, assomigliano dal punto di vista del bilancio dello Stato a briciole. Se invece l’asticella ministeriale del prelievo viene collocata più in basso ecco che la platea dei colpiti diventa molto più larga e si raccoglie decisamente di più. Il guaio è che in questo modo non ci si limita a sforbiciare i redditi dei superburocrati che godono di una pensione aurea ma si tassa di nuovo una parte significativa del ceto medio.

Il governo Renzi ha scelto questa strada? La tesi di un prelievo con asticella bassa nel dibattito di politica economica viene in genere attribuita al deputato Yoram Gutgeld, renziano della seconda ora che in passato aveva immaginato un contributo del 10% sulle pensioni superiori a 3.500 euro per un incasso totale di 3,3 miliardi. Dopo essere stato per un lungo lasso di tempo in ombra, Gutgeld dovrebbe essere il perno della squadra di economisti che Matteo Renzi vuole vicino a sé da settembre a Palazzo Chigi e non è un caso, dunque, che i ministri ricomincino a ventilare l’ipotesi del contributo di solidarietà. Gutgeld è un ex manager di punta della società di consulenza McKinsey ed è naturale quindi che nella sua formazione economico-culturale prevalga un’impostazione di tipo illuministico, sorprende caso mai che Renzi, attentissimo al consenso popolare, la faccia propria. Una nuova tassa che colpisca il ceto medio, seppur la sua porzione relativamente più agiata, riporterebbe indietro le lancette dell’orologio del Pd. I democratici sarebbero risospinti nel solco della tradizione della sinistra italiana poco attenta ai mutamenti di opinione del ceto medio tartassato.

Attenzione, però. Già nei giorni scorsi le cronache hanno registrato un repentino cambio di umore a Nord Est con un sondaggio secondo il quale anche gli artigiani veneti – che pure avevano votato e si erano spellati le mani per Renzi – cominciano a nutrire dubbi sull’efficacia della sua azione. Il segnale, per quanto agostano, non va sottovalutato: vuol dire che i disillusi non albergano solo tra le élite. Ma al di là delle considerazioni che attengono al campo dei sondaggi e degli indici di popolarità, aprire uno scontro con il ceto medio proprio ora, alla ripresa delle attività dopo la breve pausa estiva, sarebbe un errore grossolano. Il Paese ha bisogno di un semestre di mobilitazione per la crescita, di sforzi sinergici tra azione di governo e sentimento della società civile. Gli 80 euro in busta paga devono servire a far riprendere i consumi e rianimare la boccheggiante domanda interna. Se invece alla fine a dominare la comunicazione dovesse essere ancora una volta la parola «tasse» saremmo punto e a capo. Saremmo pronti per organizzare il Festival della Depressione.

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Francesco Forte – Il Giornale

Il dopo ferragosto comincia con una brutta notizia, che riguarda la casa in Italia: i mutui immobiliari non beneficiano abbastanza del basso costo del denaro, dovuto al bassissimo tasso (appena lo 0,25%) della Banca centrale europea.

La differenza salta subito all’occhio facendo il confronto con il resto d’Europa: comprare casa con il mutuo a maggio costava il 3,1% annuo nel nostro Paese, mentre nel resto del Vecchio continente costa il 2,71%. E oltre al costo del mutuo c’è quello delle imposte patrimoniali, che in due anni sono aumentato del 107% secondo le stime diffuse ieri dalla Confartigianato, che sono una media per tutti gli immobili e non comprendono ancora il rincaro dovuto alla Tasi, il cui livello in molte città non è stato ancora determinato.

Non solo. La prima casa, che al tempo di Berlusconi, cioè sino al 2011, era esonerata dalla patrimoniale, prima con Monti, poi con Letta e ora con Renzi invece è tassata. La conseguenza è stata una contrazione dell’industria delle costruzioni. I cui risultati sono evidenti da queste cifre: le imprese del settore sono diminuite del 2,71% e gli occupati si sono ridotti del 4,8%, di circa 70mila unità, oltre lo 0,3 per cento degli occupati. Aggiungendo i posti persi nelle industrie che lavorano per l’edilizia da quelle dei laterizi, a quella delle piastrelle e del vetro e i posti persi nelle industrie e nei servizi che riguardano i nuovi immobili, ne risulta un rilevantissimo contributo alla crescita dei disoccupati e alla stagnazione della nostra economia.

Occorre anche aggiungere che si è creato un circolo vizioso fra la crisi delle industrie dell’edilizia e connesse e il costo dei mutui immobiliari, dovuto al fatto che le banche hanno, ora, parametri patrimoniali che rendono per loro difficile espandere più che tanto il credito. Tali parametri sono intaccati dalle perdite sui crediti concessi negli anni passati. Ciò non tanto per i muti immobiliari, che in Italia, a differenza che in altri Paesi, sono chiesti e concessi con maggior cautela, quanto nei prestiti alle imprese, in particolare dell’edilizia e del mercato immobiliare e delle industrie e dei servizi connessi, andate in difficoltà, con la crisi causata dalla nuova tassazione patrimoniale.

Ecco la sequenza della spirale perversa, che è stata scatenata dagli “apprendisti stregoni” della vetero sinistra italiana, al potere dalla fine del 2011, che credevano che la tassazione patrimoniale degli immobili e soprattutto della prima casa, servisse per l’equità (Monti aveva addirittura denominato «salva Italia» la sua manovra, in cui campeggiava la patrimoniale immobiliare, di cui la tassazione della prima casa era, per lui, uno degli strumenti maggiori del “salvataggio”).

Il mercato immobiliare viene depresso dalla nuova patrimoniale immobiliare e da altri tributi sul risparmio come il rincaro del bollo sui costi correnti. Prima scricchiola, poi crolla l’industria edilizia. Molte imprese edilizie e di settori a monte e a valle di essa vanno in crisi. La loro occupazione si riduce. I mutui a molte di queste imprese si incagliano o diventano insoluti. I parametri patrimoniali delle banche peggiorano perché i loro cespiti immobiliari perdono valore e così le perdite bancarie si accrescono. In questa spirale perversa, il credito diventa più difficile, anche per i mutui immobiliari. Tanto più che le famiglie hanno meno valori immobiliari da offrire in garanzia, perché il prezzo delle case è sceso per effetto della crisi economica. L’industria edilizia subisce nuove contrazioni con un aumento della disoccupazione.

Se questa è giustizia sociale, anche Bin Laden può aspirare alla beatificazione. La ricetta equa è opposta. Per rilanciare l’economia e l’occupazione serve una industria delle costruzioni che va. In altri Paesi, la ripresa del mercato delle costruzioni e di quello immobiliare ha fatto da volano all’intera economia. Bisogna quindi moderare la tassazione degli immobili, onde i mutui e gli investimenti immobiliari riprendano vigore e le famiglie possano avere più benessere.