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Fisco e lavoro, riforme urgenti per la crescita

Fisco e lavoro, riforme urgenti per la crescita

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Perché l’economia italiana non riesce a uscire dalla recessione? È da questa domanda che bisogna partire per impostare qualunque strategia di politica economica. La risposta va cercata negli eventi del 2011, quando in seguito alla crisi dell’euro l’Italia fu colpita da un sudden stop, un arresto improvviso nell’afflusso di capitali dall’estero e una fuga di capitali privati, tipico dei paesi emergenti. Il sudden stop ha fatto crollare la domanda interna, attraverso tre canali: i) Una feroce stretta creditizia, imposta da un sistema bancario che dipendeva dall’estero per i suoi finanziamenti, e che poi (non si sa quanto spontaneamente) ha spiazzato il credito privato per comprare il debito pubblico venduto dagli investitori esteri. ii) Una forte stretta fiscale, imposta dall’esigenza di rassicurare i mercati finanziari e i partners europei. iii) Un effetto diretto dell’incertezza e della mancanza di fiducia sugli investimenti e sui consumi di beni durevoli.

Ora il sudden stop è parzialmente rientrato e la liquidità è abbondante, ma è illusorio pensare che ciò sia sufficiente per tornare a crescere. Le tre cause di riduzione della domanda sopra indicate sono ancora operanti, e a queste se ne sono aggiunte altre. Anche se le banche non hanno più difficoltà a finanziarsi, i loro bilanci sono pieni di partite deteriorate (a marzo erano il 10% dei prestiti complessivi, al netto delle svalutazioni), e i prestiti in sofferenza continuano a crescere, sebbene a un tasso che sta progressivamente rallentando. Di conseguenza, la morsa del credito non si è allentata in modo significativo (a giugno i prestiti al settore privato sono scesi del 2,3%). Il deleveraging delle banche è destinato a continuare, anche perché a ottobre si attende l’esito dell’Asset Quality Review della Bce.

La politica fiscale resta restrittiva. Il Def presentato ad aprile dal Ministro Padoan prevede che nel 2014 e 2015 la pressione fiscale rimanga al 44% del reddito nazionale, lo stesso livello raggiunto nel 2012 dal governo Monti. È ancora presto per valutare appieno gli effetti del bonus fiscale, ma è plausibile che essi siano trascurabili, perché solo una piccola parte delle maggiori detrazioni sarà coperta da effettivi tagli di spesa, e perché i vincoli europei impediscono aumenti di disavanzo; più che un taglio d’imposta, il bonus fiscale è stata un’operazione redistributiva.

Quanto alla fiducia, gli indicatori congiunturali suggeriscono un miglioramento. Ma la vulnerabilità dell’Italia è ancora troppo elevata, e il futuro economico troppo incerto, perché gli operatori economici possano scommettere sul futuro con tranquillità e assumere rischi rilevanti. In particolare, il mercato del lavoro è una grave fonte di preoccupazione per le famiglie (a giugno il tasso di disoccupazione era il 12,3%, in calo rispetto a maggio ma in forte aumento rispetto a un anno prima). Inoltre, l’andamento dei prezzi è a un passo dalla deflazione, il che fa salire il peso del debito, e può indurre a rinviare la spesa nell’aspettativa che i prezzi futuri siano ancora più bassi. Infine, la recente incertezza geopolitica ha provocato un arresto della crescita in Germania e in altri Paesi dell’area euro; e purtroppo non si tratta di fenomeni transitori.

Se questo è il quadro, cosa può fare la politica economica nazionale per uscire dalla recessione? Anche se oggi il problema principale è la carenza di domanda aggregata, è comunque urgente realizzare riforme dal lato dell’offerta. Non è un paradosso, è la realtà della moneta unica. Gli strumenti classici di sostegno alla domanda aggregata sono in mano alle autorità europee, che non li stanno usando in modo adeguato. Il loro atteggiamento refrattario riflette anche il timore che i Paesi del Sud Europa (e l’Italia in particolare) non attuino le riforme necessarie a rendere più competitive le loro economie. Sta a noi non offrire alibi.

La riforma più urgente riguarda il mercato del lavoro. Due aspetti sono prioritari: lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti, secondo lo schema del contratto a tutele progressive nella versione di Pietro Ichino. Riforme innovative del mercato del lavoro non servono solo ad aumentare la nostra capacità di persuasione in Europa, ma sono indispensabili anche per riacquistare competitività. È anche grazie a queste riforme se in Spagna occupazione e produzione stanno tornando a crescere.

Un secondo provvedimento urgente per riacquistare competitività è la svalutazione fiscale. Questo intervento è stato ignorato da tutti i governi che si sono succeduti dal 2011 a oggi, ma è suggerito dall’esperienza dei Paesi emergenti. Quando un Paese è colpito da un sudden stop, la prima cosa che fa è svalutare il cambio. La svalutazione sostiene la domanda aggregata attraverso il canale estero, e, rendendo il Paese più competitivo, facilita il rientro dei capitali dall’estero. Naturalmente l’Italia non può svalutare senza uscire dall’euro. Tuttavia, è possibile riprodurre gran parte degli effetti economici di una svalutazione con gli strumenti di politica fiscale.

Il modo per farlo è tagliare i contributi sociali pagati dalle imprese, coprendo la perdita di gettito con l’aumento dell’Iva e riduzioni della spesa. Il gettito Iva può essere aumentato con accorpamenti delle aliquote più basse. Per realizzare una svalutazione fiscale, i tagli di spesa dovrebbero concentrarsi innanzitutto sui trasferimenti e sussidi ai trasporti locali e ferroviari e ad altri servizi, con corrispondenti aumenti di tariffe. Per evitare effetti regressivi, la manovra andrebbe integrata da un aumento delle detrazioni fiscali sui redditi più bassi. Un intervento di questo tipo allontanerebbe il rischio di deflazione e faciliterebbe la stabilizzazione del debito.

L’evidenza empirica internazionale mostra che eventuali effetti depressivi sulla domanda interna sarebbero più che compensati dalla maggiore domanda estera. Queste sono le priorità a cui dovrebbe ispirarsi la strategia di politica economica, per far uscire l’Italia da un’interminabile recessione. Avrà il governo la lungimiranza per imboccare questa strada? E se lo facesse, troverebbe in Parlamento il consenso per proseguire? Non è detto che la risposta a entrambe queste domande sia positiva. Ma non illudiamoci che vi siano molte altre alternative. Sicuramente non lo è aspettare, sperando che le cose migliorino da sole.

Ecco il risultato di più tasse: le entrate crollano del 7%

Ecco il risultato di più tasse: le entrate crollano del 7%

Rodolfo Parietti – Il Giornale

L’Italia detiene il poco invidiabile primato mondiale della pressione fiscale. Lo sanno anche i bambini: siamo spremuti come limoni in un profluvio di tasse da crescendo rossiniano.

Eppure, apparente paradosso, l’ultimo Bollettino di Bankitalia ci racconta che le entrate tributarie si sono sgonfiate, nel giugno scorso, del 7,7% rispetto allo stesso mese del 2013. Appena 42,7 miliardi di euro finiti nelle casse. E poteva anche andar peggio: «Tenendo conto di una disomogeneità nella contabilizzazione di alcuni incassi», avverte via Nazionale, «la riduzione delle entrate tributarie sarebbe stata più pronunciata». Male anche i primi sei mesi, periodo in cui lo Stato ha contabilizzato in bilancio uno 0,7% di entrate in meno. Il piatto, insomma, piange. Con un effetto collaterale inevitabile anche sul debito pubblico tricolore, schizzato a quota 2.168,4 miliardi.

Queste cifre si prestano ad alcune riflessioni. La prima delle quali è che un simile andamento fuori registro della finanza pubblica espone il Paese al rischio, sempre più fondato, di finire tra le grinfie della troika e di dover varare una manovra correttiva da lacrime e sangue. Forse non sarà quest’anno, come assicura il premier Matteo Renzi, ma nel periodo 2015-2017 la manovra potrebbe oscillare tra i 20 e i 60 miliardi, con ricadute ancora più depressive su un Paese incapace di uscire dalla recessione. È vero: ieri il Tesoro ha spiegato che l’ascesa del debito dall’inizio dell’anno (quasi 100 miliardi) è anche legata alla volontà di «fare provvista» sfruttando i bassi tassi di interesse. In ogni caso, se il Tesoro non avesse deciso di approfittare dei rendimenti ai minimi, il debito sarebbe comunque cresciuto di oltre 36 miliardi, tenuto conto dei 4,3 miliardi versati come sostegno finanziario ai Paesi dell’euro zona.

Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato che il debito rappresenta «un gravame di 36.225 euro sulle spalle di ogni italiano». In cinque mesi – sostengono inoltre le associazioni – il governo Renzi ha accresciuto il debito pro capite di 875 euro. L’aumento del debito ci riporta al calo delle entrate fiscali, soprattutto imputabile alla situazione economica generata dalle politiche restrittive fin qui seguite proprio con l’obiettivo di risanare i conti. Un aggiustamento che, appunto, non ha interrotto l’ascesa del nostro debito, ma in compenso ha impoverito il Paese. Più disoccupazione ha significato minor gettito derivante soprattutto dai lavoratori dipendenti; il timore di perdere il posto e le scarse prospettive di un miglioramento della congiuntura si sono tradotte in una progressiva contrazione dei consumi.

Lo stesso innalzamento dell’aliquota Iva ha verosimilmente provocato una riduzione delle entrate e concorso a strozzare ogni segno di ripresa. Sotto questo profilo, il Giappone è un caso da manuale: l’aumento dell’imposta dal 5 all’8% ha contratto il Pil nel secondo trimestre dell’1,7%. Una frenata brusca, certo. Ma ancora sopportabile per un Paese che veniva da un periodo di robusta espansione garantita dalle misure di stimolo economico varate dal premier Abe. Al contrario, la decisione di tassare di più i consumi è stata presa in Italia nonostante un ciclo economico fortemente deteriorato e senza alleggerire, contestualmente, la pressione fiscale.

In un Paese dove le risorse per gli investimenti sono diventate sempre più scarse risulta incomprensibile l’incapacità di utilizzare i fondi messi a disposizione dall’Unione europea a causa di inefficienze burocratiche, oppure per l’incapacità di presentare progetti appropriati. Soldi che rischiamo di perdere? «Che Roma possa perdere l’interno ammontare del programma, pari a 40 miliardi, è teoricamente impossibile – ha detto David Hudson, portavoce della Commissione europea – perchè equivarrebbe a non avere un partnership agreement e questo, appunto, è teoricamente impossibile visto che tutti i Paesi membri ne hanno uno». Ammette comunque Renzi: «I fondi europei l’Italia negli ultimi decenni li ha spesi peggio di come avrebbe potuto. Il nostro governo cercherà di cambiare il modello».

Conti d’evasione

Conti d’evasione

Davide Giacalone – Libero

Sono anni che contestiamo l’irragionevolezza dei dati sull’evasione fiscale, diffusi dall’Agenzia delle entrate. Da anni ripetiamo che non ha senso aizzare l’opinione pubblica contro un’evasione non recuperabile, contestando 100 e portando a casa 10. Ora che la nuova direttrice dell’Agenzia, Rossella Orlandi, ci conforta con la sua convergente opinione, però, non vorremmo s’eccedesse. Non possiamo semplicemente scordarci il passato, lasciando che chi ha evaso il fisco la faccia franca e non sborsi un tallero. Vediamo, allora, in quale contesto la parolaccia potrebbe non essere una bestemmia. Mi riferisco al condono.

Proviamo a dare una qualche dimensione quantitativa. L’anno scorso l’Agenzia rese noto, e i mezzi di comunicazione acriticamente strillarono, che dal 2000 al 2012 si erano accumulati 807,7 miliardi che sarebbero dovuti andare al fisco e che, invece, mancavano all’appello. Un’evasione pazzesca. Se la si recuperasse il debito pubblico sarebbe ricondotto al di sotto di ogni soglia del pericolo. Facemmo i conti, a spanne, basandoci sui dati della stessa Agenzia: da quella montagna si dovevano togliere 193,1 miliardi, perché i contribuenti interessati avevano già dimostrato di non doverli; 69,1 erano stati pagati; 20,8 erano ancora in contestazione. Già si scendeva da 807,7 a 524,7. Da quelli si dovevano togliere altri 107 miliardi, perché dovuti da soggetti falliti, quindi a decidere sarebbero dovuti essere i giudici fallimentari, escludendosi le normali procedure di recupero. 19 miliardi erano già stati rateizzati, quindi in corso di riscossione. Da 807,7 si passava a 398,7. Che non è la stessa cosa. Era un conto della serva, ma utile a capire. A questo si aggiunga che una fetta assai rilevante di quel gettito mancante era ed è composto da sanzioni: il contribuente che non aveva pagato (o si supponeva non lo avesse fatto secondo il dovuto) veniva gravato di ulteriori oneri. Il che, forse, risponde a una logica di presunta equità, ma non è molto logico sperare che chi non ha dato 100 dia 200. Dato tutto ciò, che si fa, ora, si molla la presa e ci si dedica agli evasori più freschi e perseguibili? La si può considerare una scelta pragmatica, ma non giusta.

Il Parlamento ha già approvato la delega fiscale. Tocca al governo provvedere al riordino della materia. Posto che l’obiettivo principale deve essere quello di far scendere la pressione fiscale, perché di tasse ne paghiamo troppe e il terrore (fondato) della loro crescita è la principale causa della mancata ripresa dei consumi, e posto che il secondo obiettivo è quello di avere un fisco che non agisca da despota svincolato dalle leggi, talché prima prende e poi ascolta la contestazione, degno compare di uno Stato che pretende d’incassare ma continua a non pagare, posto tutto ciò, una volta provveduto ai decreti delegati e riformato il fisco, ci può anche stare che si chiuda il passato con un condono. Lo so: fa schifo. Ripugna anche a me che lo scrivo. Ma agli evasori veri è meglio togliere qualche cosa, piuttosto che continuare a far bau bau. Anche perché quel cane è feroce con chi evade per necessità, ma sdentato contro chi lo fa con voluttà.

Tanto più che sono già due i ministri in carica che, interrogati sulla possibile manovra autunnale, rispondono: Pier Carlo Padoan la esclude e noi ci fidiamo di lui. Prima Marianna Madia e poi Maurizio Martina. Lasciamo perdere che ai due deve essere sfuggito che il Consiglio dei ministri è un organo collegiale, e prima di giurarci sopra la Costituzione potrebbe anche essere letta, ma le loro parole significano una cosa precisa: il governo non ha collegialmente discusso dei conti, chiarendo a tutti i ministri in quali condizioni reali si trovano, sicché loro, in mancanza di numeri, si affidano alla fede. Con un pizzico di viltà: perché Padoan ha ripetutamente segnalato che ci sono dei problemi, quindi la garanzia che non ci saranno manovre è da intestarsi al capo del governo, Matteo Renzi.

Non è né piacevole né produttivo mettersi a fare i rompiscatole. Tanto più che il conto lo pagheremo tutti. Ma puntare sulla furbizia e l’arte del maneggio non è saggio. Il Paese ha bisogno di un’operazione verità. Abbiamo la forza di rimediare a conti squilibrati, ma ce la giocheremo e la neutralizzeremo se continuiamo a prenderci in giro da soli, strizzando l’occhio a qualche fetta di elettorato. Tanto più che una parte degli italiani adora farsi prendere in giro, campando alle spalle dell’altra. La forza ce la giochiamo, se lanciamo una chiamata autarchica contro le istituzioni europee, chiedendo a Mario Draghi di farsi gli affari suoi, come se la riduzione dello spread e il minor costo del debito lo dovessimo a qualche politica di risanamento e riduzione e non all’intervento della Bce.

Operazione verità, quindi. Sui conti e sul fisco. La direttrice dell’Agenzia ha dimostrato che vedevamo bene nel contestare quelle declamazioni propagandistiche (e ha maliziosamente aggiunto che un funzionario non usa la propria posizione per pavoneggiarsi, chissà che al predecessore siano fischiate le orecchie). Ma servono fatti, quantificabili e incolonnabili.

Il paradosso del nostro benessere

Luca Ricolfi – La Stampa

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate. Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale. Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare).

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

È così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare. Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori. Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

Renato Brunetta – Il Giornale

Recessione, spread su, borse giù. Autunno nero. Berlusconi non farà come la sinistra, che di fronte all’attacco speculativo contro il nostro debito sovrano del 2011 giocò al tanto peggio tanto meglio, imputando al governo in carica quello che, invece, dipendeva dalla crisi mondiale e dalla risposta inadeguata dell’Europa e della Banca centrale europea.

Le parole di Mario Draghi di giovedì scorso sono sacrosante. Sulle indicazioni del presidente della Bce dovrebbe confrontarsi il Parlamento, per definire finalmente una strategia seria e condivisa che porti l’Italia fuori dalla crisi. Ma questo non sembra. Per capire il paradosso, facciamo quattro passi indietro.

Dopo il Nazareno, il programma di Renzi era costituito da 3 grandi linee guida: 1) la legge elettorale, da realizzarsi nel più breve tempo possibile, in ragione della sentenza della Corte costituzionale; 2) la riforma del Senato, che nei giorni del Nazareno sembrava la meno urgente e la meno concordata e definita; 3) le riforme strutturali, per cambiare l’assetto economico, sociale e produttivo italiano, su cui Renzi aveva costruito la sua vittoria alle primarie. Jobs Act in primis.

Il presidente del Consiglio parte con la legge elettorale. Ma il dibattito alla Camera – ove, nonostante dovesse esserci una maggioranza blindata, si susseguono votazioni da brivido – finisce con la dimostrazione amara che proseguire con l’approvazione definitiva della legge elettorale al Senato è impossibile. Ecco che, allora, Renzi cambia la sua agenda, d’accordo con Berlusconi; insabbia l’Italicum e si inventa la priorità del superamento del bicameralismo paritario. Ottima mossa di realismo e opportunismo, che, però, finisce con la polvere sotto il tappeto.

Nel frattempo vengono messe in cantiere e approvate alcune delle cosiddette e tanto pubblicizzate riforme strutturali. Quelle, per intendersi, del #cambiaverso #lasvoltabuona . Anche in questo caso, le difficoltà che Renzi incontra alla Camera sul decreto Poletti lo portano alla cautela, e a rifugiarsi su argomenti, contenuti, provvedimenti meno divisivi, nella speranza che la congiuntura migliori. Proprio per questo, dopo il decreto Poletti, finito malamente e per approvare il quale il governo ha dovuto fare ricorso a ben 3 voti di fiducia, il premier rallenta sulla riforma del lavoro, il tanto sbandierato Jobs act , possibile fonte di conflitti interni. E proprio per questo non accelera neanche sulla riforma fiscale che, invece, vista l’approvazione in via definitiva della delega da parte del Parlamento già a febbraio, avrebbe potuto realizzare in poche settimane.

Insomma, pragmaticamente e opportunisticamente Renzi si trova a rinviare sulle riforme divisive, mentre si concentra sull’unica scelta su cui nel suo partito tutti sono d’accordo: il «bonus 80 euro», che serviva a vincere le elezioni europee. Poco importa se quel provvedimento ha poi scassato i conti pubblici, in quanto finanziato in deficit.

Fino al 25 maggio, dunque, le cose vanno esattamente come voleva l’intelligenza opportunistica del presidente del Consiglio: tutto il dibattito politico-istituzionale concentrato, da un lato, al Senato, sul superamento del bicameralismo paritario, di fatto innocuo, nonostante le fronde, dal punto di vista della tenuta (anzi, grazie al patto del Nazareno, di rafforzamento) della maggioranza di governo; dall’altro, sulla mancia elettoralistica degli 80 euro, forte collante politico per il suo partito, in vista delle elezioni.

Grazie poi agli errori e agli eccessi del Movimento 5 stelle, le elezioni europee segnano il trionfo del presidente del Consiglio. Gli danno quella legittimazione democratica che non aveva avuto ai tempi di #enricostaisereno e lo convincono, e qui sta l’errore, a proseguire nella politica del rinvio delle scelte difficili e potenzialmente divisive. Anche sul fronte europeo, Renzi sceglie la strada più semplice, vale a dire quella della richiesta di una non ben precisata flessibilità e indulgenza nei confronti dei conti pubblici italiani.

Questo è stato il grande errore di Matteo Renzi: non aver cambiato strada dopo la legittimazione elettorale. Ma si capisce anche perché lo ha fatto: nonostante le elezioni europee, infatti, i numeri in Parlamento non sono cambiati. Quindi il presidente del Consiglio sa benissimo di non avere una maggioranza sull’Italicum. Come non ce l’ha sulla riforma del mercato del lavoro e sulla riforma fiscale. E, dunque, su questi temi, è costretto a rinviare. A questo punto, su questo errore si abbatte poi la doccia fredda della recessione. Dato congiunturale, in gran parte esogeno, vale a dire fuori dalle responsabilità del presidente del Consiglio, che, però, gli scopre il gioco: quello di non aver affrontato le scelte difficili per la tenuta della sua maggioranza e per il suo partito, ma fondamentali per il Paese. E qui la critica non è solo di Draghi, ma di tutti gli osservatori internazionali.

Proprio per questo, in autunno l’agenda parlamentare di Renzi sarà infernale. Ci saranno in contemporanea la riforma costituzionale in discussione alla Camera e la legge elettorale al Senato. E le due cose, visto che viaggiano di pari passo, non potranno non influenzarsi a vicenda, in un gioco perverso: la tensione di un ramo del Parlamento non potrà non riflettersi sull’altro. In più, tra settembre (nota di aggiornamento al Def) e ottobre (legge di Stabilità) si aprirà la sessione di bilancio, che vuol dire la verità sui conti pubblici: manovra, tagli, tasse. Con il ritorno inevitabile delle riforme divisive, ma non più rinviabili: Jobs act e decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, che non possono più aspettare.

Troveranno, il governo e il Partito democratico, la quadra sul mercato del lavoro, per esempio sulla moratoria per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Troveranno la quadra sull’Italicum, con modifiche in grado di accontentare simultaneamente Alfano e Berlusconi? Sulla manovra inevitabile da 25-30 miliardi nel 2014 e sulla legge di Stabilità per il 2015-2017? Tutto quello che nei primi 6 mesi di governo Renzi era stato opportunisticamente rinviato, in autunno non solo torna al centro del dibattito, ma diventa esplosivo.

Un’agenda infernale. Ha, il premier, dentro il Pd, una maggioranza che lo segua su tutti questi terreni minati? Mentre l’autunno rischia di essere un Vietnam per Renzi, per il centrodestra potrebbe diventare l’occasione per la rinascita, ritrovando l’unità, con la guida di Berlusconi e di Forza Italia. Lasciando per un momento da parte il patto del Nazareno, al contrario del centrosinistra, su lavoro, attacco al debito, taglio delle spese, taglio delle tasse, fisco, pubblica amministrazione, crescita, il centrodestra italiano è unito. Il programma, con gli opportuni aggiornamenti, è quello con cui nel 2013 la coalizione quasi vinse le elezioni. E in questo ha ragione il ministro Boschi: centrosinistra e centrodestra sono due mondi diversi, con programmi diversi. Ma la ricetta del centrodestra, guarda caso, coincide con quella di Mario Draghi e della Commissione europea. È la sinistra che è fuori rotta. Al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, i nostri migliori auguri.

Quegli alibi da non alimentare

Quegli alibi da non alimentare

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

In questi ultimi giorni, il tema della lotta all’evasione fiscale pare aver ritrovato un sussulto di interesse. Da un lato, è in arrivo il piano del governo sulle strategie di contrasto a chi non paga le tasse (i cui contenuti sono stati ampiamente anticipati sul Sole 24 Ore del 31 luglio), che già nel 2015 dovrà garantire un maggior recupero di evasione per circa 2 miliardi, ma che in prospettiva pone le basi per un’azione di più ampio respiro finalizzata a migliorare l’efficacia dell’attività di repressione degli illeciti.
Dall’altro lato, ci sono le aspettative (in vero, talvolta forse eccessive) legate all’attuazione della delega fiscale che, come sappiamo, è destinata a produrre effetti positivi su un sistema fiscale da anni allo sbando, ma non una svolta così profonda da modificarne strutturalmente la natura. Sul versante del contrasto al sommerso la legge delega propone una ricetta – ancora tutta da scrivere e ampiamente ripresa e rilanciata proprio nel rapporto anti-evasione che il governo sta predisponendo – con molte soluzioni, che vanno dall’accelerazione delle semplificazioni sino all’introduzione di meccanismi premiali per i contribuenti onesti, tutte tese a favorire la tax compliance, ovvero la spinta verso l’adempimento spontaneo alle richieste del fisco. La delega, in realtà, propone anche altre misure quali ad esempio l’introduzione dell’obbligatorietà della fattura elettronica, con il duplice obiettivo di allargare il monitoraggio e il patrimonio informativo sulle attività dei contribuenti e al tempo stesso di alleggerire alcuni adempimenti burocratici che verrebbero soppressi proprio grazie al nuovo sistema di registrazione dei corrispettivi.

Il quadro si completa con l’agenzia delle Entrate che, dopo l’insediamento del direttore Rossella Orlandi al posto di Attilio Befera, la scorsa settimana ha definito la direttiva annuale sui controlli, nella quale spicca (giustamente) la volontà di intercettare i “veri casi di evasione”, ovvero quelli più gravi e che causano maggiori danni all’erario.
La sensazione, però, è che dietro la rinnovata attenzione per l’evasione, fenomeno da sempre preoccupante e di dimensioni enormi, che ostacola fortemente la libertà del mercato e che è causa di iniquità sociale, possa involontariamente nascondersi un messaggio ambiguo sulle modalità con cui lo Stato deve imporre e pretendere il rispetto della legalità tributaria. Il rischio è che si possa insinuare la convinzione dell’esistenza di un’evasione “cattiva” e una “meno cattiva”, una dannosa e una un po’ meno pericolosa, da contrastare con intensità diverse.
Allo stesso modo è un rischio, come qua e là si è sentito, trasmettere l’idea di un nuovo corso del contrasto all’illegalità tributaria fondato in qualche modo sulla contrapposizione tra grandi e piccoli evasori. L’evasione fiscale – comportamento del quale conosciamo tante cose anche se non proprio tutto – è un fenomeno estremamente complesso. È un fenomeno fatto di grandi frodi, tanto sulle imposte dirette quanto, e forse più, sull’Iva; fatto di società di comodo; di false fatture per importi rilevanti; di sedi societarie nascoste in paradisi fiscali; di esterovestizioni; di opachi intrecci internazionali che coinvolgono grandi imprese e multinazionali; di un uso spregiudicato del transfer pricing. Ma occorre essere realisti. L’evasione ha decine di volti e non a caso il rapporto sulle future strategie che il governo invierà al Parlamento individua ben 19 tipologie di evasore.
E in un Paese con milioni e milioni di partite Iva, con una struttura produttiva prevalentemente di piccoli e piccolissimi contribuenti, l’evasione fiscale è anche un fenomeno di massa. È un’evasione di “tanti che evadono poco”, ma con danni ugualmente enormi per la collettività e per le casse dello Stato.
Il fisco ha certamente bisogno di costruire nuove fondamenta su cui far crescere il rapporto con i contribuenti. La solidità, il rigore e la correttezza dell’azione di contrasto all’evasione devono procedere di pari passo con la creazione di un clima di fiducia reciproca, nel quale il cittadino-contribuente non percepisca più quel senso di prevaricazione, talvolta di vessazione e oppressione, con contestazioni tutte basate sull’interpretazione delle norme e sui cavilli di commi e circolari.
Molti studi, in passato, hanno analizzato i motivi che spingono i cittadini a evadere le tasse. Sono gli stessi motivi che gli evasori – grandi e piccoli – utilizzano poi come forma di auto-giustificazione. La casistica è molto ampia: le tasse sono troppo alte; evado per necessità; questa tassa è ingiusta; il sistema è complesso; lo Stato non offre servizi adeguati alle imposte che pretende; l’amministrazione è inefficiente. Si potrebbe continuare e di “scuse” per evadere il fisco se ne troverebbero molte altre. Ma questo è il punto: si faccia attenzione a non fornire altri alibi a chi facilmente riesce già a trovarsene da solo.

Svecchiare in tre mosse

Svecchiare in tre mosse

Jean Marie Del Bo – Il Sole 24 Ore

Per gli studi di settore si avvicina il momento di una profonda ristrutturazione. Che si articolerà su tre passaggi per svecchiare lo strumento di controllo per piccole e medie imprese e professionisti. 

Sono passati, infatti, vent’anni da quando si cominciò a parlare di studi di settore come strumento per affrontare lo storico problema della convivenza, nel nostro sistema economico, di milioni tra Pmi e lavoratori autonomi e di un’evasione fiscale diffusa e capillare. L’idea era quella di elaborare una serie di sofisticati programmi di calcolo che fossero in grado di stimare, in modo più efficace di quanto fatto con strumenti precedenti, il ricavo che le imprese dovevano ragionevolmente avere in base a dati contabili e dimensione aziendale.
Dopo vent’anni il confronto si sta ora spostando sulla valutazione di come cambiare un meccanismo che è entrato tra le prassi consolidate del nostro sistema tributario.
Gli studi di settore, partiti operativamente nel 1998, hanno vissuto nel tempo alcuni passaggi che contribuiscono ora a metterne in discussione il ruolo. In primo luogo, sono stati al centro di una vera e propria rivolta “sociale”, che ne ha fatto il punto di caduta della protesta fiscale, nel momento in cui si è cercato di rafforzarne l’impatto. Poi, sono stati depotenziati nella loro forza probatoria quando la Corte di cassazione ha riconosciuto che gli scostamenti devono essere integrati da altri elementi e da una robusta dose di contraddittorio fra uffici e contribuenti. Infine, sono stati adeguati, con correttivi robusti, all’impatto della crisi sui ricavi. Con l’effetto “collaterale” che, nel momento in cui le difficoltà economiche si sono rivelate di lunga durata, sono diventati permanenti degli sconti che, invece, avrebbero dovuto essere temporanei.

Il problema, a questo punto, è la perdita di efficacia dello strumento nel tempo. La ristrutturazione, però, è già cominciata. E sembra articolarsi in tre “fasi” distinte. Si tratta di introdurre indicatori che consentano di impedire che gli studi di settore vengano usati a piacimento da parte dei contribuenti. Di controllare meglio chi ha abusato del regime premiale che garantisce meno controlli a chi è in regola e, nello stesso tempo, di fare degli studi di settore più uno strumento di selezione dei contribuenti a rischio che di controllo diretto. E, infine, di approfittare del treno della delega fiscale per riscrivere la geografia di questi meccanismi, riducendone l’ambito di applicazione a un minor numero di categorie ma ricalibrandoli per renderli più efficaci.

L’idea, dunque, è quella di abbandonare il mito dello studio di settore capace di tutto, in grado di misurare quasi tutto il sistema economico, pur sapendo che con cinque milioni di partite Iva è quasi impossibile pensare al superamento di un meccanismo che favorisca l’adempimento spontaneo e permetta di selezionare i contribuenti da controllare. Mentre si può ridurre l’area di applicazione degli studi di settore solo ai comparti dove può essere davvero utile ed efficace.
La delega fiscale è una grande occasione per tutti. Lo è proprio perché tutti sanno quanto complesso e deteriorato sia il sistema fiscale italiano. L’occasione, però, non va solo riconosciuta e apprezzata. Va sfruttata in tutti i modi per ricostruire una realtà di minore conflittualità e di maggiore collaborazione fra Fisco e contribuente. L’uscita dalla lunga crisi passa anche da scelte come queste.

Tagliare le tasse

Tagliare le tasse

Giuseppe Turani – La Nazione

Matteo Renzi si aspettava un risultato un po’ scadente, ma non così tanto: meno 0,2 per cento nel secondo trimestre dell’anno rispetto al primo (che aveva già fatto segnare un arretramento dello 0,1 per cento) è un risultato che non si presta a equivoci. E ha un solo significato, chiarissimo: tutto quello che si è fatto (o non si è fatto) finora per agevolare la ripresa in realtà si è rivoltato contro di noi e ci ha rimandati indietro.

I politici hanno la memoria corta, ma nell’ultimo trimestre del 2013 la ripresa c’era stata, l’abbiamo vista, l’Istat l’ha certificata. Una ripresa piccola (solo lo 0,1 per cento sul trimestre precedente), ma comunque ripresa. Fine del Pil che va indietro invece di andare davanti. E si pensava che da quello 0,1 per cento si sarebbe proseguito verso valori più interessanti e importanti. Lo stesso premier Renzi deve aver ritenuto che fosse una cosa naturale, molto semplice. Ma non è stato così. Il segnale d’allarme (forte e chiaro) è arrivato subito, nel primo trimestre di quest’anno, che ha fatto segnare un arretramento dello 0,1 per cento. La ripresina, cioè, si era bruscamente interrotta e bisognava immediatamente mettere in campo qualcosa per riacchiappare un Pil che stava andando indietro e non avanti come era nei sogni di tutti e nelle aspirazioni del governo. Si è fatto tutto quello che era necessario e che sarebbe stato utile? La risposta è: no, evidentemente. Il governo ha continuato a tessere la trama delle sue riforme nella convinzione, probabilmente, che ormai la crescita fosse come una pianta di fagioli che vien su da sola. Ma in economia (soprattutto di questi tempi) non c’è niente che mette radici e punta verso l’alto in modo spontaneo. Anche l’allarme del primo trimestre è stato ignorato.

Che cosa è mancato? Molte cose. Intanto una vera riforma del mercato del lavoro. Qualcuno dice che la nosra legislazione in materia andrebbe semplicemente buttata via e rifatta ex novo (professor Giulio Sapelli). Ed è difficile non concordare: più di 2mila articoli di legge regolano il lavoro in Italia. E solo specialisti di alto livello ci capiscono qualcosa. Figurarsi gli investitori stranieri, abituati a cose molto più semplici. Poi c’era l’eterna promessa di tagli alla spesa pubblica. Promessa ribadita in modo solenne da tutti quelli che sono passati per Palazzo Chigi negli ultimi vent’anni (e quindi anche da Renzi). Ma, salvo qualche limatura, non si è visto niente. Non avendo tagliato la spesa pubblica (in Italia quasi un milione e mezzo di persone vive alle spalle della politica e quindi delle casse pubbliche), non si è riusciti a far scendere la pressione fiscale. Pressione che ormai raggiunge, in termini reali, il 53 per cento. Questo è il nodo vero: può essere che veda decollare un Paese con una simile pressione fiscale, ma non ci credo. Con questo livello di tassazione la gente è assai poco motivata e vive nel terrore di non riuscire a pagare le imposte.

Ma adesso cosa si può fare? Per il 2014 è ormai un po’ tardi. Qualunque misura avrà effetto solo nel giro di mesi e siamo già vicinissimi alla pausa estiva. Inoltre, in questa seconda parte dell’anno, la congiuntura internazionale è meno favorevole. Quindi non rimane che puntare sul 2015. Ma stavolta facendo davvero qualcosa di significativo: vendere qualche auto blu non basta. E nemmeno distribuire 80 euro. Per ripartire sul serio l’economia vuole vedere la pressione fiscale che scende, decisamente e regolarmente. In misura consistente.   

Non basta più tirare a campare

Non basta più tirare a campare

Giuliano Cazzola – Il Tempo

Quando Giulio Tremonti, ancora “folgorante in soglio”, osò affermare che con la cultura non si mangia, fu subissato giustamente di critiche. Eppure, adesso, tutti sembrano voler credere che la manomissione del Senato potrà risolvere i problemi dell’economia e riavviare uno sviluppo che non decolla. Del resto, che cosa possiamo aspettarci da un premier che, pochi giorni or sono, ha dichiarato: «Che la crescita sia dello 0,30, dello 0,80 o dell’1,5% non fa alcuna differenza per le persone»? Oggi l’Istat farà la fotografia dei principali indicatori economici del Paese. Come reagirà il governo se i trend saranno – come si teme – peggiori del previsto? Molti dei nodi dei nostri problemi possono essere sciolti a Bruxelles. Ma il governo italiano è davvero impegnato, grazie al turno di presidenza, a mettere in cantiere nuove regole e politiche innovative o si accontenta di sistemare Federica Mogherini al posto di Lady Pesc, soltanto per avere l’occasione di un giro di poltrone in patria? Certo, è in arrivo la conversione in legge del decreto competitività che dovrebbe sbloccare finanziamenti in opere pubbliche, ma il Jobs act è slittato in autunno. E la questione dimenticata del Mezzogiorno? L’economia sommersa ha un peso decisivo in quelle realtà. E riesce a taroccare anche le statistiche sull’occupazione. L’evasione fiscale è la condizione per la sopravvivenza di pezzi di economia. Non sarà, allora, che la società meridionale non è in condizione di attenersi a regole, anche contrattuali, forzatamente uniformi? Tutti ne siamo consapevoli; ma piuttosto che accettare una realistica diversificazione, al limite del dumping sociale, preferiamo chiudere un occhio e tirare avanti così.

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Eugenio Scalfari invoca la Troika, ancorché nella versione buona (per una politica economica espansiva, e non restrittiva), vuol dire che le cose vanno proprio male per l’economia italiana. Se è vero che il problema è di tutta l’eurozona, l’Italia è comunque il fanalino di coda: basta fare il confronto con Grecia e Spagna, che fino a un anno fa erano messe peggio di noi.

Questo vuol dire che l’Italia, dal governo Monti in poi, ha sbagliato tutto. Con l’aumento stellare della tassazione casa (triplicata); la controriforma del mercato lavoro; la riforma sbagliata delle pensioni; l’aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese, per quanto riguarda Monti e Letta. E con il riformismo confuso, impotente, clientelare, inadeguato del governo Renzi: basti pensare al Jobs act; alla controriforma Madia della Pubblica amministrazione; allo sconquasso dei conti pubblici causato dal “bonus Irpef” di 80 euro; alla Spending review impantanata e alla svendita, senza logica e senza un piano, dei propri gioielli di famiglia (si veda, da ultimo, la cessione del 35% del capitale sociale di Cdp Reti, che contiene il 30% di Snam e il 29% di Terna, al gruppo che controlla le reti energetiche cinesi). Su quest’ultimo punto, del programma di dismissioni del ministro Vittorio Grilli, per un punto di Pil, pari a 16 miliardi, si è persa traccia. Così come restano ad oggi irrealizzati gli 11 miliardi all’anno di dismissioni contenuti nel Def 2014 di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.

In quasi 3 anni, passati invano, 3 distinti governi, tutti caratterizzati dal fatto di non essere stati eletti dal popolo, non hanno voluto, o non sono stati capaci di fare le cose che si dovevano fare, guarda caso contenute nella lettera che il 26 ottobre 2011 il governo Berlusconi inviò, ricevendo tanti applausi, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo. Misure di modernizzazione e rilancio dell’economia italiana in parte approvate a novembre 2011 con il maxiemendamento alla Legge di stabilità per il 2012 (ultimo atto del governo Berlusconi), ma poi, purtroppo, a causa dei tanti cambi di esecutivo, non attuate (si pensi alla mobilità obbligatoria per il pubblico impiego). Oggi le cose da fare sono chiare a tutti, perfino a Eugenio Scalfari, che invoca la Troika, delegittimando, di fatto, Renzi.

I dati parlano chiaro: per mantenere gli impegni presi con l’Europa nel 2014 mancano tra 29 e 32 miliardi di euro. E per mantenere le promesse che Renzi ha fatto agli italiani bisognerà trovare altri 37 miliardi nel 2015.

IL PIANO BERLUSCONI PER USCIRE DALLA CRISI

1) Attacco al debito pubblico ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia, per una strategia credibile

Innanzitutto, per sopperire alla più grave debolezza italiana e rafforzare la nostra posizione in Europa, si rende necessario, dunque, un intervento straordinario, ma duraturo, di aggressione del debito pubblico. Una riduzione strutturale del debito sovrano dell’ordine di 400 miliardi (circa 20-25 punti di Pil) in 5 anni: 100 miliardi derivano dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno (circa 1 punto di Pil ogni anno); 40-50 miliardi (circa 2,5 punti di Pil) dalla costituzione e

cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi (circa 1,5 punti di Pil) dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute all’estero (5-7 miliardi all’anno); 215-235 miliardi dalla vendita di beni patrimoniali e diritti dello Stato disponibili e non strategici ad una società di diritto privato, che emetterà obbligazioni con warrant. Altro che svendite per fare cassa. Il segnale strategico che si vuol dare con un piano di questo tipo è quello di aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’economia italiana; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, al centro come in periferia, liberalizzazioni e privatizzazioni delle Public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l’economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. E per avere, come vedremo, lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.

Ma l’attacco stabile e duraturo al debito pubblico, da solo, non basta: per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati finanziari, ad esso occorre

accompagnare una parallela verticalizzazione delle istituzioni, che preveda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e assicuri una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. Altro che l’attuale riforma del Senato. Attacco al debito ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia. Un doppio segnale fortissimo. L’operazione nel suo complesso avrebbe in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvierebbe

finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del paese per essere europei a 360 gradi, che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. Una grande occasione non solo per l’Italia, maanche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

2) Riduzione della pressione fiscale

Una volta avviato il piano di riduzione strutturale del debito pubblico, andrebbe parallelamente avviato un grande piano di riduzione della spesa pubblica, destinando le risorse così ottenute alla riduzione, di pari importo, della pressione fiscale. Nel programma elettorale 2013 della coalizione di centrodestra, che 10 milioni di italiani hanno votato, Berlusconi ha proposto di ridurre di 80 miliardi in 5 anni (16 miliardi all’anno) la spesa pubblica corrente (attualmente pari a circa 800 miliardi) e di ridurre di pari importo la pressione fiscale. Con l’ambizioso obiettivo di portare la nostra economia a crescere a un ritmo di almeno il 2%, stimolando così i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Con più gettito e più risorse per gli ammortizzatori sociali. Quindi più benessere. Se si riduce di 16 miliardi all’anno la spesa pubblica, di pari importo andrebbe ridotta la pressione fiscale, con provvedimenti per 8 miliardi all’anno a favore delle famiglie e per altri 8 miliardi all’anno a favore delle imprese. Il tutto per portare, in 5 anni (durata di ogni legislatura) dal 45% al 40% la pressione fiscale in Italia.

3) La politica economica europea

Questa è la vera Spending review: attacco strategico e strutturale al debito pubblico, taglio strutturale della spesa corrente, e pari riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Cui aggiungere la richiesta, a livello europeo, non di una generica “maggiore flessibilità”, che non porta a niente, ma di una nuova politica economica nell’intera area dell’euro. A partire dalla reflazione in Germania; le riforme simultanee in tutti gli Stati dell’eurozona; l’accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, di bilancio, politica e economica (significa Euro bond, Union bond, Stability

bond, Project bond). Solo in questo modo potranno crearsi le condizioni per consentire alla Banca centrale europea di utilizzare al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto. Fino al Quantitative easing all’europea, di cui abbiamo tanto bisogno. Anche per deprezzare l’euro di almeno il 20%, in modo tale da far riacquistare competitività all’intera eurozona. E per questa strada “domare” i mercati.

4) Riforma del mercato del lavoro, Tfr in busta paga e pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione

Infine, la riforma del mercato del lavoro. Tutto parte dalla lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011, ove, pur riconoscendo gli sforzi dell’esecutivo Berlusconi sul tema e, in particolare, la giusta direzione in cui andava l’accordo del 28 giugno 2011 tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, si chiedeva l’introduzione di una vera flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso “un’ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, nonché “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Realizziamo questi due punti, fondamentali per far funzionare veramente il mercato del lavoro, e avremo il plauso non solo dell’Europa e dei mercati, ma soprattutto dei nostri giovani, delle nostre famiglie, delle nostre imprese. A tutto questo andrebbe aggiunto uno stimolo immediato per riportare liquidità (fino a 6 miliardi di euro) nelle casse delle imprese e nelle tasche dei lavoratori, da un lato riassegnando alle aziende con più di 50 dipendenti la quota di Tfr non utilizzata per la previdenza complementare (attualmente accantonata presso l’Inps), dall’altro consentendo a tutti i

lavoratori di poter reclamare, in costanza di rapporto di lavoro e senza doverla giustificare, una anticipazione fino al 100% del proprio Trattamento di fine rapporto. Per quanto riguarda le imprese, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, per i 64 miliardi ad oggi restanti, fornirebbe ulteriore liquidità, di cui mai come oggi c’è bisogno. Insieme al Tfr, una manovra espansiva di politica economica.

Questo è il piano Berlusconi contro l’autunno nero che verrà. Renzi lo adotti per uscire dalla crisi. Se c’è stato e c’è ancora dialogo sulle riforme istituzionali, per le quali l’apertura di credito del presidente Berlusconi nei confronti del presidente Renzi è stata grande e generosa; e se la riforma elettorale è ancora in discussione (anche se dobbiamo ricordare che la gente non vive né di riforma del Senato né di riforma elettorale), dopo il fallimento della sua strategia di politica economica, Renzi mostri la stessa generosità che con lui ha avuto Berlusconi in tema di riforme costituzionali. Adotti il suo piano. Uno scambio alla luce del sole, per il bene del paese.