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Il coraggio di un fisco dal volto umano

Il coraggio di un fisco dal volto umano

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Al governo rimangono meno di 270 giorni per varare i decreti di attuazione della delega fiscale. Un periodo non breve ma neppure lunghissimo, vista la quantità di provvedimenti che dovranno essere predisposti. La macchina dell’attuazione, come sappiamo, si è comunque messa in moto e i primi decreti, Catasto e semplificazioni, sono stati approvati in via preliminare. Sulle semplificazioni, in particolare, è arrivato un testo con oltre una ventina di misure anti-burocrazia, che contiene molti elementi positivi ma che certamente non può che rappresentare un primo passo nella direzione indicata dalla delega. Anzi, a dirla tutta, quello schema di decreto colpisce più per le assenze (nessun intervento sulla responsabilità negli appalti né sulle società in perdita) che per le misure previste, non foss’altro perché molti interventi in arrivo facevano già parte di un pacchetto di semplificazioni che giaceva in Parlamento dal luglio dell’anno scorso.

Se questo è lo scenario, è evidente come sia urgente per il governo – che ha posto l’attuazione della delega fiscale tra i suoi obiettivi prioritari – imprimere un’accelerazione all’approvazione dei decreti previsti dalla delega stessa, cercando di compiere qualche importante passo avanti prima della fine del mese, quando potrebbero essere esaminati sia un nuovo decreto di semplificazione, legato al riordino dei regimi fiscali sia l’attesissimo testo sull’abuso del diritto. Sono due temi molto distanti tra loro: il primo rivolto al mondo dei piccoli contribuenti e l’altro a quelli medio-grandi e più strutturati. Ma sono due temi che, in linea di principio, rispondono a una stessa logica.

La delega punta alle semplificazioni attraverso il riordino dei regimi fiscali e la revisione degli adempimenti (anche quelli di sostituti d’imposta e intermediari). Ma è evidente come la “certezza del diritto” rappresenti, in fondo, il prerequisito di ogni processo di semplificazione. Un sistema fiscale semplice è, innanzi tutto, un sistema caratterizzato da norme chiare, certe e (possibilmente) stabili nel tempo. È un sistema che riduce al minimo i margini di interpretazione delle norme. È un sistema che sa combattere con tutti i mezzi i fenomeni di evasione e di elusione ma che, al tempo stesso, sa riconoscere in modo non estemporaneo le differenze tra i comportamenti illeciti e il legittimo risparmio di imposta. Il che è come dire che una vera semplificazione non può che partire dalle norme sostanziali, dalle regole che governano le singole imposte e la determinazione degli imponibili. E nella delega, in vero, non sembrano esserci ampi margini in questa direzione, pur con qualche eccezione.

La storia recente (e anche quella meno recente) del nostro sistema fiscale è una storia di continue fughe in avanti e retromarcia tra semplificazioni e nuove complicazioni (un esempio su tutti: arriva l’elenco clienti-fornitori; viene soppresso l’elenco-clienti fornitori; ritorna sotto nuova veste l’elenco clienti-fornitori). I numerosi tentativi del passato ricordano quanto il processo di semplificazione sia in realtà un processo molto complesso da realizzare, forse perché – come accennato – solo in rari casi si è partiti dalla “base”, ovvero dalle regole che governano i tributi. Processi che hanno dovuto necessariamente fare i conti con la politica, con i governi, con i parlamenti. Ma che forse soffrono di un altro peccato originale: spesso il compito di semplificare è stato affidato alle stesse persone – le burocrazie dell’amministrazione – che hanno prodotto le complicazioni.

La delega, sia chiaro, non è solo semplificazioni. Le sanzioni, il contenzioso, l’abuso del diritto di cui si è detto, il Catasto, l’evasione, le agevolazioni e molto ancora, sono punti altrettanto rilevanti. Ma sulle semplificazioni ci si gioca molto. E tutti si aspettano molto, perché un lavoro ben fatto ed efficace, in una delega che non porterà sconti di imposta, potrà almeno contribuire a ridurre i costi (pesanti) legati agli adempimenti. Senza scordare una vecchia regola: quella di verificare con attenzione l’impatto reale delle novità. Troppo spesso, in passato, persino i migliori propositi di semplificazione hanno finito per tradursi in nuove complicazioni.

Il fisco repressivo non è sufficiente

Il fisco repressivo non è sufficiente

Riccardo Riccardi – Il Tempo

In Italia le tasse sono tra le più alte del mondo. Strozzano l’economia. Riducono i consumi. Per incrementare le entrate dello Stato si fa, come si dice, una lotta senza quartiere contro gli evasori che sono tanti e impuniti. Chi sono costoro? Malviventi riciclanti denaro sporco frutto di delitti truffaldini? Professionisti, artigiani, bottegai e quant’altro che incassano in nero con la complicità di chi evade l’Iva? Oppure, quanti nel tempo hanno trasferito all’estero, con diverse modalità, i soldi? La casistica è ampia e di poco interesse per il lettore, quello ligio che per pagare le imposte deve ricorrere a costose consulenze per capire quanto, se e dove pagare. E sì che la normativa fiscale per essere tale dovrebbe essere più semplice possibile. Le tasse costituiscono il corrispettivo dei servizi che lo Stato mette a disposizione dei cittadini. Servizi scadenti e costosi che generano infinità di sprechi. Si determinano voragini di spesa che, con altri fattori, portano lo Stato al dissesto. Molte fortune sono espatriate. Si è cercato e si cerca di farle rientrare. Sono stati inventati condoni e scudi fiscali. Contro il pagamento di oboli si è tentato di ridare, con la garanzia dell’anonimato, la cittadinanza italiana a quattrini che l’avevano perduta. Lo Stato, del quale nessuno si fida, non mantiene la parola. Ora c’è un disegno di legge con l’obiettivo di far rientrare i capitali. Si chiama voluntary disclosure. Sorta di ravvedimento speciale. Mi sono pentito, pago e riporto a casa la valigia con i soldi. Si ammonisce che il provvedimento non sia condono o amnistia. Costituirebbe una nocività etica, giuridica ed economica. Chi ha commesso il reato espii la pena e ridia al fisco, con gli interessi, quanto ha sottratto per imposte inevase. Intendiamoci. Non sono tenero con chi non rispetta le leggi. L’evasione esiste in tutto il mondo. Si ridurrà parzialmente con l’entrata in vigore di scambi di informazioni internazionali. La fortificata Svizzera pare sia d’accordo. Attenzione. Si riveda però la politica fiscale affinché non colpisca populisticamente il sudato risparmio già tassato in precedenza. Riduzione, semplificazione, lotta agli sprechi. E talvolta si può anche ricorrere alla parabola evangelica del figliol prodigo. Lo Stato di polizia non paga. È vincente quello che, se non si fa amare, almeno non si faccia odiare dai propri sudditi.

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Fabio Tamburini – Corriere della Sera

Il film è di quelli più conosciuti. Il portafoglio dei conti bancari e degli investimenti in Italia è piuttosto vuoto, mentre i capitali veri vengono custoditi all’estero. Nella maggior parte dei casi neppure troppo lontano ma girato l’angolo, nel sempre accogliente Canton Ticino. Come farli rientrare evitando la solita trafila, decisamente logora, dei condoni e degli scudi fiscali? Sulla carta è l’uovo di Colombo: un nuovo provvedimento, ribattezzato voluntary disclosure, che funziona se contemporaneamente viene previsto un nuovo reato penale, l’autoriciclaggio. Insomma, è l’ultimo treno che può essere preso dagli esportatori clandestini di capitali. Prendere o lasciare. Si pagano le intere imposte evase (compreso gli interessi ma con riduzione delle sanzioni) riacquistando piena disponibilità dei beni, ma si evitano guai peggiori con la giustizia.

Peccato che un meccanismo tanto semplice, peraltro suggerito dall’Ocse, faccia tanta fatica a decollare. O, meglio, potrebbe di nuovo riproporsi un’anatra zoppa: sì alla voluntary disclosure ma rinvio a tempo indeterminato per l’autoriciclaggio, come dire vorrei ma non posso. Limitarsi alla voluntary disclosure, tra l’altro, significa andare in direzione opposta da quella di buona parte degli altri Paesi, in cui provvedimenti sul rientro di capitali hanno una cornice di contrasto anche penale all’evasione. Ora il pallino è nelle mani della maggioranza e della faccenda, a quanto pare, se ne occuperà personalmente Matteo Renzi. Il verdetto è tutt’altro che scontato. La lunga marcia della voluntary disclosure è cominciata all’epoca del governo Monti, con ministro della Giustizia Paola Severino. La scelta fu di nominare un gruppo di lavoro, affidandolo alla guida di Francesco Greco, procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, specializzato nei reati economici e finanziari, sostenitore convinto dell’opportunità d’introdurre il reato dell’autoriciclaggio, come ha concluso la commissione nella relazione finale.

Scritto e confermato dalla stessa commissione nel prolungamento dei lavori (su base volontaria) richiesta dal governo Letta. La sorpresa è poi arrivata nel momento in cui si è passati dalle parole ai fatti, con la prima edizione dell’anatra zoppa. Il decreto che prevedeva la voluntary disclosure è stato approvato nel gennaio scorso ma le disposizioni sul reato di autoriclaggio si sono perse per strada. Al loro posto sono subentrate le promesse di rimediare al momento della conversione in legge del provvedimento. Promesse rimaste sulla carta per causa di forza maggiore perché il governo Letta è caduto poche settimane prima della scadenza del decreto legge e il giro dell’oca è ricominciato. Proprio in questi giorni è in corso il confronto suoi nuovi provvedimenti. A parole, nella maggioranza, prevalgono i sostenitori dell’accoppiata tra voluntary disclosure e reato di autoriciclaggio. Nei fatti lo si vedrà. Di sicuro la posta in gioco è di quelle che pesano perché i capitali custoditi all’estero rappresentano una ricchezza importante. E negli anni seguiti alla grande crisi economica sono aumentati invece di ridursi.

Riportali in Italia significa anche evitare la trafila di sempre, che punta a risolvere le emergenze picchiando i bambini, cioè tassando sempre di più chi paga già tanto al fisco, dai lavoratori dipendenti ai pensionati passando dalle imprese. La conferma che si tratta di un fiume di denaro da cui è possibile attingere ottenendo soddisfazioni adeguate risulta evidente dal bilancio degli ultimi sei mesi di voluntary disclosure effettuate senza certezze di legge. In tutto l’Agenzia delle Entrate, con patti sulla parola, ha avviato le procedure per il rientro di 1,5 miliardi di euro. Troppa grazia, verrebbe da dire. Perché non osare di più evitando la riedizione di un’altra anatra zoppa?

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Federico Fubini – La Repubblica

Lo Stato ha sempre ragione, salvo quando ha torto. E gli succede di aver torto molto spesso quando accusa un’impresa, specie se piccola, di evadere le tasse: più di un euro su due, in caso di contenzioso legale, risulta reclamato dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza al contribuente in modo illegittimo. I numeri pubblicati alla fine di giugno dal ministero dell’Economia rivelano tutta l’intensità della battaglia fra gli uffici del fisco e le imprese. Solo nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi. Una somma maggiore rispetto a quella per la quale la vittoria in tribunale è andata agli uffici dello Stato, che è di 3,5 miliardi. Anche quando alla fine i giudici le danno ragione, episodi del genere non sono affatto facili da affrontare per un’azienda. Lo stesso ministero dell’Economia calcola come in media, quando è trascinato nella lite fiscale, l’imprenditore deve combattere con tribunali e parcelle degli avvocati per 865 giorni. Specie nelle piccole imprese, è tutto tempo sottratto alla produzione, alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti o all’apertura di nuovi mercati. E nella società italiana si tratta di un fenomeno endemico: solo l’anno scorso gli imprenditori hanno presentato più di 250mila ricorsi fiscali perché si sentivano ingiustamente accusati di evadere qualcosa come 35 miliardi di tasse reclamate dallo Stato. In questo momento, le cause di natura tributaria aperte in Italia sono oltre 650mila: un’impressionante drenaggio di risorse, di tempo e denaro dalla produzione alle dispute su conti bancari, fatture e cartelle esattoriali.

Naturalmente l’evasione resta un’emergenza del Paese: secondo le stime più accettate, ogni anno vengono sottratti al fisco circa 120 miliardi ed è dunque evaso un euro ogni quattro pagati (come documentato da Repubblica il 18 aprile 2014). Ma gli ultimi dati pubblicati dal Tesoro sullo stato del contenzioso tributario obbligano a chiedersi se la strategia del fisco stia funzionando. Non ci sono solo i numeri a farne dubitare, benché questi siano di per sé già eloquenti. L’anno scorso il 45% dei ricorsi con esito di merito si è concluso a favore del contribuente, contro il 41% a favore degli uffici pubblici. Soprattutto nelle cause fiscali fino a 20mila euro, quelle che riguardano piccole o minuscole aziende familiari in lotta per sopravvivere, quasi una volta su due lo Stato alla fine risulta aver torto. Ma appunto, non ci sono solo i numeri. Alla radice di questa endemica litigiosità tributaria nella società italiana ci sono metodi che spesso rischiano di accomunare una democrazia del gruppo dei paesi industrializzati ad uno Stato autoritario. Con l’effetto di erodere la base fiscale, perché le imprese colpite dagli accertamenti chiudono anziché far emergere gli abusi. Negli ultimi anni, fin da quando Giulio Tremonti era ministro dell’Economia, le agenzie dello Stato si sono dotate di strumenti di potere assoluto. Oggi è possibile reclamare versamenti al fisco sulla base di presunzioni astratte: la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale. Se l’imprenditore è in regola, potrà poi vincere il contenzioso all’ultimo grado di giudizio in Cassazione. Ma intanto avrà pagato, sostenuto le spese legali e riavrà indietro il proprio denaro in media dopo dieci anni. Non sempre le regole sono simmetriche. Quando è l’ufficio pubblico a vincere la causa in tribunale, ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello. Al contrario, l’imprenditore inizierà a essere rimborsato solo dopo aver vinto in Cassazione.

C’è poi una norma, introdotta sotto Tremonti, che continua a provocare la chiusura di un gran numero di imprese. Lo Stato può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate a una Procura. In quel caso scattano i sigilli sull’azienda, l’imprenditore è già un presunto colpevole e subito le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti, licenzia e non produce più un solo euro di tasse negli anni seguenti: un’iniziativa dello Stato che mirava a far emergere del gettito fiscale finisce per far inaridire e distruggere posti di lavoro.

Non che poi presentare ricorso sia così semplice. Per fare causa allo Stato su un contenzioso fiscale si doveva pagare una tassa di circa 150 euro fino a pochi anni fa ma ora è diventata un “contributo unificato” da 4.500 euro. L’evasione in Italia resta dunque una piaga, ma a volte una cura sbagliata può anche aggravare la malattia.

Vendetta fiscale

Vendetta fiscale

Davide Giacalone – Libero

Da oggi è operativa la maggiorazione fiscale che colpisce il risparmio. Altri prelievi che saranno travasati nel vaso senza fondo del debito pubblico. Il governo s’è accorto che quello è il vero e grande problema, sostenendo, con Graziano Delrio, la creazione di un fondo europeo. Indirizzo corretto, ma impreciso: non siamo ancora agli union-bond per federare il debito, inutile chiederlo, mentre può essere interessante per tutti un fondo che scambi liquidità contro abbattimento del debito pubblico, prendendo in carico patrimonio da vendere. Ne abbia qui scritto. Provino a pensarci e a proporlo. Al contempo stiano attenti, perché anche solo ipotizzare il default è come chiamarlo.

Quel che oggi prende corpo è un incubo: maggiore tassazione del risparmio a cura di uno Stato che non riesce a risparmiare; cittadini che rinunciano ai consumi devono privarsi dei frutti della parsimonia per dare soldi a uno Stato che non rinuncia alla spesa improduttiva e non sa distinguere la spesa essenziale da quella superflua. A questo s’aggiunge l’abominio del canone Rai, chiesto con azioni estorsive verso partite iva e famiglie in cui i coniugi hanno residenze diverse. Qui non si tratta di trovare scappatoie, è il ministro dell’economia che ha il dovere di convocare i dirigenti di una società statale, diffidandoli dal continuare in una condotta oltraggiosa.

Non bastasse tutto ciò, sta anche prendendo piede un nuovo genere, quello della vendetta fiscale. Consiste nel sottrarre per via fiscale quel che si era ingiustamente o esageratamente dato, talora in termini patrimoniali, qualche altra in agevolazioni fiscali o contributi statali. Si può credere (o far credere) che una cosa compensi l’altra, in realtà entrambe scompensano tutto. La vendetta fiscale funziona come le faide fra famiglie mafiose: non si raggiunge mai nessun equilibrio, cresce il numero dei morti, si mietono vittime collaterali e ci si allontana sempre più dalla legalità.

Prendiamo due casi: a. la tassazione della rivalutazione delle quote Banca d’Italia; b. la tassazione del reddito da energie rinnovabili. Nel primo caso si realizzò una grande porcheria, che qui avversammo e che non ha ancora smesso di generare effetti negativi. Matteo Renzi, all’epoca, era “solo” segretario del Partito democratico e non volle in nessun modo intervenire. Lasciò che si facesse. Divenuto capo del governo e alle prese con i problemi di cassa, decise di aumentare la tassazione di quelle rivalutazioni, che erano altrettanti vantaggi per alcune (mica tutte) banche, portandola dal 12 al 26%. Provvedimento con effetto retroattivo, visto che l’operazione era già formalmente conclusa, ma i cui effetti fiscali dovevano ancora prodursi. Già che ci si trovavano hanno aumentato la tassazione sul risparmio, per l’occasione ridenominato “rendita”, facendola passare dal 20 al 26%. Sul primo punto sfruttando la suggestione che si colpissero quegli affamatori dei banchieri, in realtà venendo meno a quanto il governo della Repubblica aveva promesso, stabilito e decretato qualche settimana prima. Sul secondo alimentando la suggestione che le rendite siano una specie di furto alla collettività, quando, in realtà, si tratta anche di risparmi generati da redditi sui quali si erano già pagate le tasse. Il tutto a cura di un governo il cui ministro dell’economia sostiene che si dovrebbe far scendere la pressione fiscale.

Nel secondo caso, invece, si è partiti dal fatto (qui altre volte documentato) che i contributi alle energie rinnovabili (con diversificazioni interne al settore) erano stati ed erano, in Italia, troppo alti rispetto alla media europea. Anzi, per la precisione, erano alti e insicuri, spingendo gli investitori a massimizzare il profitto nei primi anni. Anziché mettere mano a quel sistema, anche aggredendo i “diritti acquisiti”, il governo ha preferito far salire la tassazione, presumendo redditi irreali e facendo finta di non sapere che dei troppo succosi contributi s’erano giovati i venditori e installatori di apparati (in gran parte costruiti in Cina o Germania), mentre i gestori degli impianti, anche quelli di medie e piccole dimensioni, sono imprenditori, specie agricoli, impegnatisi con finanziamenti a dieci anni. Cambiare le carte in tavola, quindi, ha penalizzato l’anello italiano di quella catena produttiva, spingendo taluni a portare i libri in tribunale e convincendo tutti a non fare più investimenti nel settore. Anche in questo caso la suggestione è: chi ha avuto troppo è giusto che si veda togliere qualche cosa.

Invece non è giusto affatto, perché con l’arma della vendetta è fiscale, senza cambiamento delle regole sbagliate, si ottiene il solo risultato di certificare come inaffidabili le regole e le leggi italiane, quindi lo Stato. E se sono inaffidabili, mutevoli nel tempo, sottoposte al vindice sciabordio degli umori popolari e delle speculazioni populiste, e se oltre a essere inaffidabili sono anche (come sono) appoggiate da una giurisprudenza che segnala come per i giudici italiani la retroattività delle norme fiscali è da considerarsi prassi virtuosa, anziché oltraggiosa, è evidente, direi “solare”, che nessuno sano di mente verrà a investire quattrini in un Paese in cui non puoi fidarti delle autorità, né ha senso invocare un giudice. A meno che non venga per portare via qualche cosa. Il che dovrebbe suggerire la stoltezza di una simile dottrina.

Doppio gioco fiscale

Doppio gioco fiscale

Il Foglio

Oggi scatta l’aumento dal 20 al 26 per cento dell’aliquota sui proventi di natura finanziaria (dividendi, cedole e interessi per i conti correnti, depositi bancari e postali) con eccezione di quelli soggetti a regimi agevolati; ossia i titoli di Stato, gli interessi corrisposti a intermediari finanziari non residenti per obbligazioni internazionali e i proventi dei fondi di previdenza complementare italiani e di quelli di previdenza europei. Queste limitazioni generano distorsioni che tendono ad accrescere il costo delle emissioni obbligazionarie e dell’erogazione del credito bancario. Ma soprattutto il loro effetto distributivo è opinabile. Sono misure che spaventano e confondono il piccolo risparmiatore, cioè il contribuente medio: lo sgravio di 80 euro per i percettori di redditi bassi (sotto i 26mila euro) viene finanziato con l’aumento della tassazione sulle rendite; e così il sollievo per uno sgravio viene “compensato” da un aumento della tassazione che riguarda il medesimo ipotetico soggetto. Cosa si vuole ottenere con un messaggio così ambiguo per il risparmiatore/consumatore? Non c’è dunque da meravigliarsi se non si vedono gli effetti benefici sulla domanda interna di uno sgravio di per sé opportuno: la politica di finanziare la riduzione d’imposte ad ampia diffusione con altre imposte – anch’esse operanti su un’ampia massa di contribuenti – genera una contrazione dei consumi che può sterilizzare gli effetti positivi del corrispondente sgravio fiscale. Può anzi dare luogo non a un risultato nullo, ma a uno negativo. Il solo modo di effettuare riduzioni fiscali benefiche perla crescita consiste nel coprirne il costo con il contenimento della spesa.