fmi

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Davide Giacalone – Libero

Le campane del Fondo monetario internazionale suonano a morto, per l’Italia, ma da noi si offrono confetti. Il medico che comunicasse una diagnosi fatale, o l’avvocato che mettesse a parte il cliente dell’irrimediabile sconfitta giudiziaria, considererebbero matti gli interessati, se li vedessero festeggiare. Da noi si brinda per dati pessimi. Ed è segno che si è così fuori di testa al punto da negare l’evidenza dei numeri.

Dicono politici, giornali e opinionisti nostrani: secondo l’Fmi l’Italia crescerà più del previsto. Evviva. Dicono i numeri che la stima di crescita del prodotto interno lordo, per il 2015, s’inchioda allo 0,5%. Considerato che il governo ha appena previsto una crescita dello 0,7, a me pare qualche cosa in meno, non in più. Già, si obietta, ma è una stima al rialzo, perché prima il Fmi prevedeva solo 0,4. Peggio mi sento, perché l’incremento, dovuto alle politiche espansioniste della Banca centrale europea, è calcolato in +0,3 per l’eurozona e +0,1 per l’Italia. La nostra crescita incrementale è pari a un terzo della media europea. E non basta, perché la crescita 2015 dell’eurozona è stimata all’1,5 mentre la nostra, come detto, allo 0,5.

Dunque: fino a ieri noi rabbrividivamo all’idea di crescere solo la metà della media europea, mentre ora festeggiamo il crescere solo un terzo. Sono numeri da paura. Ma fa ancora più paura l’incoscienza e la superficialità di chi li commenta con il sorriso di compiacimento. Finalmente si rivede la crescita. Questa è la straordinaria fesseria che sentiamo ripetere. Taluni, e son tanti, hanno l’attenuante di non sapere di che parlano, ma altri hanno l’aggravante di far finta di non sapere cosa diavolo dicono. Tutti popolano la Repubblica dei bonus, quella in cui si redistribuiscono i soldi nel mentre si accresce il debito.

Una classe dirigente che si rispetti, fatta di politici, ma anche di cattedre e opinionisti, dovrebbe avere il coraggio di partire dalle previsioni (quelle del Fmi coincidono con quelle della Banca d’Italia) per dedicarsi a come modificarle, prendendo atto che segnano un sicuro insuccesso italiano, con un aumento del nostro svantaggio competitivo. Da lì si dovrebbe passare ai possibili rimedi. Ad esempio: la nostra macchina produttiva ha dimostrato, con le esportazioni, di avere un motore capace di ruggire, anziché dilapidare ricchezza blandendo elettori si potrebbe concentrare la spinta laddove la si crea, arricchendo tutti, elettori compresi. Ma quelli di domani, mentre ci si occupa solo di quelli odierni. Una classe dirigente non degna di rispetto, invece, prova a negare la realtà, allo scopo di tirare avanti senza farci i conti, Nel frattempo concentrando tutte le energie in partite certo non prive di rilevanza, ma estranee alla sola vitale: la capacità di riprendere la via della crescita, ad una velocità almeno pari a quella degli altri europei. È la sola condizione capace di farci reggere il peso del debito. Il resto è fuffa.

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Giuseppe Pennisi – Formiche

Un seminario di studi organizzato da Febaf e da Economia Reale, le proposte per uscire dalla crisi e un paio di perplessità… Il 3 dicembre, proprio mentre il disegno di legge di stabilità approvato (ricorrendo al voto di fiducia) dalla Camera approda in Senato, la Federazione Banche Assicurazioni e Finanza (FeBaF) presieduta da Luigi Abete e l’Associazione Economia Reale hanno organizzato una riflessione sulla strategia di politica economica.

Riflessione tra economisti
Ad essa hanno preso parte, tra gli altri, il Presidente ed il Segretario Generale della FeBaf (Luigi Abate e Paolo Garonna), il Presidente dell’Associazione Economia Reale (Mario Baldassarri), Emilio Rossi della Oxford Economics, nonché Sergio de Nardi (Nomisma), Stefania Tomasini (Prometeia), Pierluigi Ciocca (Accademia dei Lincei), Marco Simoni (London School of Economics), Marco Fortis (Fondazione Edison), Marcello Messori (Luiss), Paolo Savona (Emerito Luiss) e molti altri. Una riflessione, quindi, tra economisti qualificati.

Il Rapporto
Il documento di base presentato è stato un libro curato da Mario Baldassarri Scacco Matto alla Crisi: Tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa e un aggiornamento per tenere conto degli ultimi sviluppi e delle misure di politica economica all’esame del Parlamento. Non è certo questa la sede per riassumere le 370 pagine del volume e le 80 dell’aggiornamento, oppure diverse ore dibattito. L’analisi del volume e dell’aggiornamento è pienamente condivisibile: l’Italia sembra essere su una china sempre più in discesa – tanto da considerare preoccupanti gli “esami di riparazione” che l’Unione Europea ci ha chiesto di fare in marzo-aprile – e la legge di stabilità non è tale da mordere e fare cambiare marcia.

I 3 consigli
Le tre mosse suggerite nel libro e reiterate nell’aggiornamento sono le seguenti:
a) Un ritorno graduale del rapporto di cambio 1 a 1 tra euro e dollaro.
b) Una politica di bilancio espansionista (tagliando però le spese improduttive delle amministrazioni pubbliche dello Stato e delle autonomie locali, valutate in almeno 40 miliardi di euro l’anno) a supporto, complemento ed integrazione di una politica espansionista della moneta.
c) Una riduzione del fardello del debito pubblico tramite emissioni di titoli di un fondo garantito dal patrimonio immobiliare dello Stato e delle autonomie.
In tal modo, non solo si uscirebbe dalla recessione e deflazione ma si potrebbe progressivamente tornare a tassi di crescita del 3% l’anno e non solo risolvere il problema del debito ma anche e soprattutto rilanciare produzione, produttività ed occupazione. Questa è, senza dubbio, una sintesi di documenti molto articolati e molto ricchi di analisi econometriche.

Le perplessità
Tuttavia, ho perplessità sull’obiettivo (un ritorno ad un tasso di crescita del 3% l’anno) sia sugli strumenti. L’obiettivo non tiene conto che prima della crisi del 2006 la Banca mondiale, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE ponevano all’1,3% il tasso potenziale di crescita dell’economia italiana a ragione dell’invecchiamento della popolazione, delle dimensioni medie aziendali e dell’obsolescenza degli impianti, Già nei piani triennali del 1981 e del 1982, per le medesime determinanti la crescita potenziale dell’Italia veniva stimata tra il 2% ed il 2,5%. Nel più recente documento Bce viene posta allo 0% a ragione degli effetti devastanti della crisi sull’apparato produttivo nonché dell’ulteriore invecchiamento. Quindi sarebbe più realistico puntare ad un tasso potenziale di crescita pre-crisi (1.3-1.5% per cento).

La questione del cambio
In secondo luogo, il cambio euro-dollaro dipende più dalla politica monetaria americana che da quella europea; se gli Usa continuano sulla strada del benign neglect, è difficile pensare di poter raggiungere, nel breve termine, l’obiettivo della parità tra dollaro ed euro. E’ da condividersi una politica di bilancio espansionista, ma l’attuale Governo non intende né uscire dai binari europei né entrare in aree di spesa di competenza delle autonomie locali (dove c’è molto grasso).

Il nodo del fondo
In terzo luogo, io stesso propongo da anni un fondo (non solo immobiliare) e tale da ridurre il fardello del debito. E’ stato effettuato un esame tra le varie proposte in una giornata seminariale al Cnel ed l’associazione di ricerca Astrid ha presentato un dettagliato documento. Ma a più riprese il presidente del Consiglio ed il ministro dell’Economia e delle Finanze hanno affermato di non considerare quello del debito un argomento prioritario.

Il dibattito è aperto.

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Daniele Manca – Corriere economia

Il mondo sta crescendo del 3 per cento all’anno. «Poco» ci viene detto dagli analisti del Fondo monetario internazionale, come pure dagli economisti in genere. Ma. a ben guardare, non siamo molto distanti dalla media alla quale il mondo cresceva agli inizi degli anni Ottanta e Novanta, come notava nei giorni scorsi il «Financial Times». Ma in quegli anni non avevamo ancora i postumi del mal di testa da grande crisi del 2008. E ci accontentavamo. Si sperava solo di crescere di più negli anni a seguire. Il mal di testa sembra impedire a governi, imprese e cittadini di reagire. Soprattutto in Europa. La Cina, che ha contribuito alla crescita mondiale per il 30%. nel 2014, si spera continui a correre a ritmi medi del 7,5% . L’America sta provando seriamente a fare la sua parte. Non è difficile capire di chi sia la colpa se, come riportato da Martin Wolf sempre sull’Ft, il 70% delle economie emergenti cresce nel 2014 a tassi più bassi della media pre-crisi. E se questo circolo di mancata contribuzione da parte dell’Unione europea allo sviluppo, e quindi di crescita meno forte delle economie emergenti, dovesse avvitarsi il futuro potrebbe davvero essere molto triste.

Inutile però sperare che la spinta arrivi da possibili allentamenti di patti o flessibilità più o meno risolutive. Possono aiutare sicuramente ma, fatto 100 la domanda nell’eurozona nel 2008, oggi siamo a quota 95. Gli Stati Uniti sono a 106. Analogo l’andamento del Pil. E allora la Bce può aiutare, Bruxelles anche, ma, se nei singoli Paesi non riparte la domanda interna, c’è poco da sognare. Ci si potrà accusare l’un altro, la Germania perché ha un surplus commerciale troppo alto, Francia e Italia perché in ritardo sulle riforme per aumentare produttività e competitività. Ma è necessario che ognuno faccia la sua parte. Noi la nostra. I cittadini aspettano solo questo. Le attività finanziarie delle famiglie erano a marzo pari a 3.858 miliardi di euro. Pari a quelle del periodo pre-crisi. Il segnale più evidente che stiamo risparmiando. Intimoriti sul futuro. Ma anche che, appena le condizioni dovessero mutare e potessimo tornare a investire, non saremo certo in difficoltà a farlo.

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La crisi economica europea ha trovato di recente due conferme e una autorevole indicazione su come uscirne. La conferma viene dal rallentamento della Germania e dal Fondo monetario internazionale che chiede investimenti pubblici in infrastrutture. Per questo giornale non si tratta di novità perché da anni ripetiamo che il dogma del rigore fiscale senza politiche espansive europee centrate sugli investimenti, specie in infrastrutture, era sbagliato.

I trinomi dell’Fmi
Con oggi si chiudono a Washington le riunioni annuali di Fmi e Banca mondiale (istituzioni a cui aderiscono 188 Paesi) che hanno celebrato anche il loro 70° anniversario. È stato presentato anche il World economic outlook di ottobre che va letto alla luce di due interventi, cruciali anche per l’Europa, del direttore generale Fmi, Christine Lagarde. Il primo è di prospettiva storica a 70 anni da Bretton Woods, quando Fmi e Banca mondiale furono fondate con il contributo di John Maynard Keynes. Lagarde rende omaggio a questo genio e prospetta tre coppie di alternative di fronte alla quali l’economia mondiale si trova oggi: tra accelerazione e stagnazione; tra stabilità e fragilità; tra solidarietà e isolamenti. Lagarde spiega perché accelerazione, stabilità, solidarietà sono tra loro connesse. A nostro avviso è quella combinazione su cui si è costruita l’Eurozona (e l’Unione europea) che adesso vacilla avendo scelto, sbagliando, la ricombinazione di stagnazione, stabilità, isolamenti. Il secondo intervento riguarda l’attuale urgenza di politiche economiche per rilanciare crescita e occupazione, specie in alcune aree geo-economiche in forte rallentamento. Qui emerge in modo netto la presa di posizione sulla Eurozona per la quale Lagarde segnala i rischi di persistente bassa inflazione (che per noi è deflazione) e di recessione per superare le quali chiede misure monetarie più forti della Bce e misure fiscali dei Paesi sia in surplus che in deficit evitando gli eccessi di rigore, ammorbidendo gli effetti delle necessarie riforme nel mercato del lavoro, favorendo la crescita.

Gli investimenti e le infrastrutture
Alle politiche monetarie e fiscali per la crescita viene aggiunta con forza dall’Fmi quella sulle infrastrutture come strategia cruciale per evitare il rallentamento dell’economia mondiale e la stagnazione in alcune aree. Con riferimento all’Eurozona noi abbiamo trattato su queste colonne di infrastrutture sotto ogni punto di vista: dai metodi di finanziamento (Project bond, Eurobond, partenariato pubblico-privato) alle tipologie di investimenti (reti transeuropee, tecnoscienza, capitale umano e fisico). L’Fmi enfatizza l’urgenza degli investimenti pubblici in infrastrutture sia come leva fondamentale per rilanciare adesso crescita e occupazione, sia perché la quota delle stesse sul Pil è calata in generale, sia perché nei Paesi sviluppati vanno ammodernate e nei Paesi in via di sviluppo vanno costruite. Le condizioni di liquidità attuali sono anche molto favorevoli per costi finanziamento bassi e per l’emissione di titoli di debito in mercati molto liquidi. L’Fmi calcola che un aumento dell’investimento in infrastrutture di un punto percentuale di Pil genera nelle economie avanzate un incremento dello 0,4% di Pil nello stesso anno e dell’1,5% entro quattro anni. La conclusione è che investimenti in infrastrutture ben fatti aumentano la produttività delle economie e si ripagano anche in termini di rapporti del debito pubblico sul Pil.

Gli squilibri tedeschi
Il World economic outlook (Weo) dell’Fmi si sofferma anche sulla crisi dell’Eurozona e sui problemi dei suoi Stati membri. Il messaggio che più colpisce è quello secco indirizzato alla Germania con la richiesta di aumentare gli investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il messaggio si ripete in varie forme nel Weo rilevando che la Germania è l’unico Paese nel quale tra il 2006 e il 2013 sono cresciuti sia il surplus di parte corrente con l’estero (dal 6,3% allo 7,5% del Pil, pari a 274 miliardi di dollari) sia i crediti finanziari netti sull’estero (dal 26,9% al 46,2% del Pil ovvero 1678 miliardi di dollari) mentre gli investimenti interni sono scesi rispetto al risparmio. Così gli investimenti totali sul Pil dal 22,3% nel 2000 sono scesi al 16,9% nel 2013 mentre si prevede una risalita solo al 18,5% nel 2019. All’opposto la quota del risparmio lordo sul Pil è passata nello stesso periodo dal 20,5% al 24% con la previsione di scendere solo al 23,5% nel 2019. La Germania soffre perciò di squilibri macroeconomici che da anni vanno ben oltre i limiti previsti dagli accordi europei per il rapporto tra il surplus di parte corrente sull’estero e il Pil. Purtroppo le istituzioni europee non hanno avuto la forza di richiamare la Germania a più investimenti che avrebbero trainato tutta l’Eurozona. Inoltre si è a lungo taciuto nelle sedi istituzionali sui vantaggi che la crisi stessa ha prodotto per la Germania. Sono critiche che da tempo Marco Fortis avanza, segnalando anche che il crollo della domanda degli altri Paesi dell’Eurozona avrebbe colpito la stessa Germania. È quello che sta accadendo. Infatti le stime di crescita per il 2014 sono state ribassate dall’1,9% all’1,3% e per il 2015 dal 2% all’1,2%, l’export di agosto è crollato del 5,8% rispetto a luglio e la produzione industriale del 4,8% mentre la fiducia delle imprese è in calo da maggio. È dunque in corso un rallentamento marcato.

Una conclusione Euro-tedesca
Al di là dei numeri contano anche le opinioni e tra queste spicca quella di uno tra i più autorevoli economisti tedeschi, Marcel Fratzscher, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw). Nel suo recente volume “L’illusione tedesca” (presentato dal ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel) si sostiene sia che la prosperità tedesca vacilla per gli errori di politica economica sia che la Germania deve investire di più in infrastrutture e in capitale fisico e umano. Speriamo che questa opinione venga accolta dal governo tedesco, che dovrebbe anche aprirsi alla piena collaborazione con il presidente della Commissione europea per la realizzazione degli investimenti infrastrutturali convenienti per tutta l’Eurozona. Anche per l’Italia, che tuttavia non potrà sottrarsi a riforme radicali capaci di renderci un po’ più “tedeschi”.

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

La svolta keynesiana dei paladini neo-liberitsti

Stefano Lepri – La Stampa

«Arrendetevi, siete circondati» si potrebbe con humour gridare ai governanti tedeschi. Di fronte a una crisi che non vuole finire, matura dappertutto nel mondo l’idea che occorra provare soluzioni diverse dall’austerità pura e dura. Anche il Fondo monetario internazionale, a lungo dominato dalla dottrina neo-liberista secondo cui la spesa pubblica è perlopiù nociva, ritorna alle sue origini keynesiane e rooseveltiane: ampi investimenti in infrastrutture sarebbero utili alla ripresa.

Si può dare lavoro a chi non l’ha costruendo per il futuro. Se non ora, con un costo del denaro cosi basso, quando? In Europa è Berlino a ostacolare il progetto di investimenti transnazionali del nuovo presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e le proposte ancora più ambiziose del governo polacco. Eppure all’interno della stessa Germania la gente si lamenta di ponti da rifare e strade malandate. Con una punta di malignità, il Fmi giudica efficace la «regola d’oro» di tenere i bilanci pubblici in pareggio al netto degli investimenti: era nella Costituzione tedesca, prima che fosse inasprita per dare l’esempio ai Paesi spendaccioni. Vale la pena di dare l’esempio facendo male anche a sé stessi? La Germania continua a rinfacciare alla Francia i bilanci in deficit, ma i suoi li tiene in ordine investendo la metà rispetto alla Francia.

Sarebbe forse meglio tornare a quella regola aurea. E intanto compiere uno sforzo eccezionale qui e ora per uscire dalla crisi: nei Paesi con bilanci solidi e come Europa nel suo insieme. L’Italia da sola, troppo indebitata, non può permetterselo. E poi non dobbiamo dimenticare che le nostre infrastrutture sono carenti non perché negli anni passati abbiamo speso poco, piuttosto perché abbiamo speso male. Il timore che si costruisca non ciò che serve, ma ciò che fa guadagnare qualcuno, diventa senso comune; alimenta le proteste, giustifica ogni tipo di ostilità al nuovo. Oggi quasi tutti preferirebbero una tassa in meno piuttosto che il cantiere di una metropolitana in più: occorrerà prima tornare a fidarsi dei poteri pubblici.

Fmi: l’Europa è destinata ad una stagnazione secolare

Fmi: l’Europa è destinata ad una stagnazione secolare

Massimo Tosti – Italia Oggi

Matteo Renzi, che vede corvi dappertutto, adesso ne ha trovato uno (autorevolissimo) che in qualche modo lo assolve, condannando però l’intero continente. E questo non ci consola affatto. Il Fondo Monetario Internazionale ha celebrato i funerali dell’Ue: «L’Europa», ha sentenziato, «rischia una stagnazione secolare». Se vogliamo confidare nel futuro, facciamo le valigie e trasferiamoci in Cina, o in India. L’Europa affonda, e tornerà in superficie nel 2200 e rotti.

Chi conosce la storia non si stupisce. In principio fu la Cina; poi toccò alla Mesopotamia (Sumeri, Babilonesi); quindi fu l’epoca degli egiziani, poi dei greci e dei romani. Nell’anno Mille gli arabi conquistarono parte dell’Europa. Dal Rinascimento ad oggi è stato il Vecchio continente a guidare le danze. I cicli storici si susseguono uno all’altro, e ogni volta c’è una fetta del mondo che prende il sopravvento sulle altre. La globalizzazione ha favorito lo sviluppo di quello che fino a qualche decennio fa definivamo (con un pizzico di disprezzo politicamente scorretto) il Terzo Mondo. E di qui al prossimo secolo sarà proprio il Terzo Mondo (ex paesi in via di sviluppo) a dettare le regole economiche e sociali del pianeta. Dobbiamo farcene una ragione, e correre (per quanto possibile, individualmente: tutti insieme non c’è spazio) ai ripari. Fra pochi anni (meno di dieci) la Cina diventerà la principale potenza economica del mondo, seguita dall’India. Noi europei scaleremo al terzo posto, dietro gli Stati Uniti (boccheggianti). Saranno gli altri a dettare a noi le regole, e non viceversa, come è accaduto di recente.

Siamo un continente malato di vecchiaia, che non ce la fa a reggere le sfide dei Paesi arrembanti, che dimostrano energia e capacità di innovazione di gran lunga superiori alle nostre. Il mondo 2.0 sarà dominato da loro. Ci colonizzeranno, lasciandoci le briciole del progresso in arrivo. Auguriamoci che siano più generosi con noi di quanto noi lo siamo stati in passato con loro. Ma la partita è persa, come afferma il Fondo Monetario Internazionale: noi diventiamo i paria del mondo, e l’euro è destinato al ruolo di una moneta marginale rispetto allo yuan e alle rupie. E Angela Merkel sarà costretta a spogliarsi dei tailleur del potere.

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Tino Oldani Italia Oggi

Ancora pochi giorni fa, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si sono trovati a sostenere tesi contrapposte. La Lagarde, con una invasione di campo ormai abituale, ha esortato la Bce a imitare il «quantitative easing» della Federal reserve Usa, acquistando direttamente titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona con problemi di bilancio, convinta che sia un modo più efficace, rispetto ai prestiti Bce a buon mercato, per vincere la deflazione dilagante in Europa. Draghi, che forse si è stancato di polemizzare con la Lagarde per le intromissioni nella propria sfera d’azione, non le ha neppure risposto, preferendo rilanciare una sua tesi recente, per cui «serve una governance europea per le riforme». A prima vista, un classico dialogo tra sordi.

Ma poiché la Lagarde non è l’ultima arrivata, è giusto chiedersi a quale titolo intervenga sulla politica monetaria della Bce, e di riflesso sull’economia europea. La sua invasione di campo è davvero tale, priva di giustificazione? La risposta corretta è: no. La spiegazione è in una parola di origine russa, divenuta di moda in Europoa: troika. Da un paio d’anni, essa indica un triumvirato istituzionale, formato da Fmi, Bce e Ce (Commissione europea), che controlla il rispetto non tanto dei Trattati europei (materia che non potrebbe riguardare il Fmi), bensì quello delle regole introdotte con alcune modifiche dei Trattati, regole ferree, contenute in due distinti accordi intergovernativi: il Fiscal compact e il Mes (Meccanismo europeo di stabilità).

Dei due, il Fiscal compact è il più conosciuto. In sintesi, obbliga i Paesi dell’eurozona a rispettare il parametro del 3% nel rapporto deficit-pil, a non sforare un deficit strutturale dello 0,5% l’anno, e impone ai Paesi con debito eccessivo di abbattere ogni anno di un ventesimo la quota di debito pubblico che supera il 60% del pil. Per l’Italia significa l’obbligo per 20 anni, a partire dal 2015, di manovre annuali di circa 50 miliardi di euro, considerate da tutti insostenibili. Per completezza, il Fiscal compact è stato approvato dal governo di Mario Monti nel 2012, e inserito a razzo nella Costituzione, con l’avallo pressoché unanime del Parlamento, sotto la sferza di uno spread a 570 punti. Una cessione totale di sovranità nazionale, destinata a costare molto cara.

Meno note sono le novità introdotte dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità), deciso dal Consiglio dei capi di Stato e di governo nel 2010 per fare fronte alla crisi dell’euro, ed entrato in vigore nel settembre 2012. Mes e Fiscal compact sono complementari e, di fatto, hanno creato una nuova governance europea che scavalca i singoli governi per gestire le crisi finanziarie e salvare gli Stati a rischio di tracollo. Volendo semplificare, il Mes è una riproduzione europea del Fmi, sia pure con una minore potenza di fuoco (ha 700 miliardi di euro di capitale, versati dai paesi euro, di cui 500 prestabili). Ed è proprio al Fmi che il Mes si affianca nell’effettuare i prestiti ai Paesi in difficoltà e nel controllare in modo rigoroso l’applicazione delle regole di austerità per riportare i bilanci statali in pareggio. In questa azione, il Mes e il Fmi operano di concerto con la Commissione europea, formando la famosa Troika. Attenzione però ai dettagli, perché è sempre lì che si nascondono le trappole. Il Mes ha una propria personalità giuridica, i suoi dirigenti e i suoi beni godono di totale immunità, e di fatto, quando concede un prestito a un paese in difficoltà che ne abbia fatto richiesta, si sostituisce insieme ai soci della Troika nella gestione della politica economica del Paese debitore. Lo Stato debitore deve sottostare a tutte le imposizioni contenute nel piano di aggiustamento finanziario della Troika, costi quel che costi. È stato così in Grecia, con effetti sociali disastrosi. Ed è stato così in Spagna, Portogallo e Cipro.

Dunque, se la signora Lagarde si permette di dare consigli alla Bce, o addirittura di criticarla, lo si deve proprio alla sua presenza nella Troika, che nella gestione dei paesi Ue in crisi (e commissariati) conta ormai più degli stessi governi interessati, nonché del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Una cessione totale della sovranità nazionale.

Il bilancio dei primi due anni del Mes non appare affatto esaltante. In Grecia, grazie ai prestiti della Troika, l’unico beneficio è andato alle banche del Nord Europa, che hanno potuto recuperare per intero i loro crediti, mentre al governo di Atene sono rimaste le briciole (circa il 19% degli aiuti).

Anche per questo il Mes, ufficialmente un Fondo salva Stati, viene definito dai critici un Fondo salva banche. Definizione tanto più appropriata se si considera che alle riunioni del Mes in cui si valutano le concessioni dei prestiti ai Paesi richiedenti, sono ammessi come osservatori i maggiori istituti finanziari privati del mondo, come Nomura, Goldman Sachs, Merril Lynch, e così via. Con il risultato che le politiche economiche di austerità rischiano di essere dettate non dagli organismi democratici liberamente eletti dai paesi in crisi, bensì dalle grandi banche mondiali.

Quest’ultimo aspetto mette i brividi. Soprattutto quando un Paese inizia ad entrare nelle ipotesi di commissariamento. «Italia commissariata? Non esiste» ha detto il premier Matteo Renzi in una recente intervista. Ma pochi giorni dopo ha fatto specie che Elmar Brok, uno dei consiglieri più autorevoli di Angela Merkel, abbia detto al Corriere della sera: «Se rispetta le regole e fa le riforme, l’Italia non tema il commissariamento». Sarà pure un eccesso di pessimismo, ma sembra una conferma del fatto che l’ipotesi era nell’aria, e forse lo è. Una brutta aria.