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Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Uno studio importante di Marco Guerrazzi dell’Università di Pisa fornisce interessanti risposte ad un domanda di vecchia data: se la formazione in impresa sia più o meno pertinente di quella in centri di addestramento pubblici, in Italia per lo più regionali o sponsorizzati dalle Regioni. Il testo integrale del lavoro (in inglese) è nell’ultimo fascicolo dell’autorevole International Journal of  Training and Development con il titolo The Effects of Training on Italian Firm’s Productivity: Microeconomic and Macroeconomic Perspectives.

In Italia, l’analisi dell’offerta di formazione professionale e la determinazione del suo impatto sulla produttività del lavoro assumono caratteristiche distintive rispetto ad altri paesi europei. Da una parte, a dispetto di una struttura dei salari piuttosto compressa che dovrebbe consentire alle imprese di recuperare i costi sostenuti per la formazione sotto forma di retribuzioni inferiori, gli imprenditori italiani non sono incoraggiati nel finanziamento di tale tipo di attività. Negli ultimi anni, questa particolare attitudine ha assunto una certa persistenza nonostante una tendenziale perdita di competitività del sistema produttivo che, al contrario, avrebbe dovuto suggerire con una certa urgenza l’adozione di interventi attivi miranti ad invertire la rotta. Inoltre, da un punto di vista squisitamente quantitativo, l’impatto della formazione professionale sulla produttività misurato a livello di singola unità produttiva in Italia è decisamente inferiore rispetto a quello rilevato in altre realtà nazionali.

Al fine di approfondire queste peculiarità del panorama industriale italiano, l’indagine ISFOL-INDACO e l’indagine ISTAT-CVTS4 sono state utilizzate in maniera congiunta per valutare, rispettivamente, l’effetto della formazione professionale sulla produttività di un ampio campione di imprese e l’impatto di tale attività sui tassi di crescita osservati all’interno dell’Unione Europea. In questo modo, sul piano positivo, diventa possibile spiegare per quale motivo le imprese italiane sono il fanalino di coda nelle classifiche internazionali sulla fornitura di formazione. In aggiunta, sul piano normativo, un’analisi di questo genere può fornire un valido supporto per l’adozione di misure volte a contrastare l’insoddisfacente performance dell’intera economia osservata negli ultimi vent’anni.

L’indagine INDACO ha scandagliato oltre 7.000 imprese private con almeno sei dipendenti o più. Queste unità produttive, in larga misura concentrate nel settore della manifattura, impiegavano all’incirca 750.000 lavoratori. In questo campione, le imprese formatrici erano oltre il 50% e al loro interno, in media, la quota di lavoratori formati ammontava al 28% circa. Questi valori non sono troppo distanti da quelli forniti dall’indagine CVTS4, la quale, con riferimento al 2010 e per l’intero territorio nazionale, stimava una quota del 56% per quanto riguarda le imprese formatrici e il 36% per quanto concerne i lavoratori formati.

Da un punto di vista operativo, l’accostamento dei dati sulle imprese censite da INDACO con i corrispondenti riferimenti contabili contenuti nel database ASIA ha consentito di ricavare campione di oltre 4.000 unità produttive – con una distribuzione sul territorio nazionale piuttosto fedele a quella dell’intera popolazione di riferimento – per la quali erano disponibili dettagliate informazioni riguardo ai valori di bilancio e alle caratteristiche di impresa Utilizzando tecniche di stima semplici, è emerso immediatamente che la formazione professionale misurata sia sul margine estensivo (percentuale di lavoratori formati), sia sul margine intensivo (ore medie di formazione per addetto), ha determinato un effetto positivo statisticamente significato sulla produttività aziendale misurata, alternativamente, come ricavi e valore aggiunto per addetto. Questo primo risultato è stato ulteriormente approfondito e raffinato tenendo conto che, generalmente, le imprese di più grandi dimensioni hanno una maggiore propensione alla formazione rispetto a quelle più piccole. In breve, a parità di altre condizioni, un aumento unitario delle ore medie di formazione per addetto è in grado di aumentare i corrispondenti riferimenti dei ricavi e del valore aggiunto di oltre un euro. Di conseguenza, in tutti quei casi in cui il costo della formazione aggiuntiva può essere spalmato una forza lavoro di una certa ampiezza, investire in questa direzione può risultare conveniente per le imprese.

Orientando l’analisi verso una visione aggregata dei sistemi economici, e di quelli europei in particolare, una spiegazione di questo fenomeno può essere fornita esaminando l’impatto che la formazione professionale esercita sui tassi di crescita dell’intera economia. Esiste, infatti, una recente letteratura empirica e teorica secondo la quale la formazione, al pari di altre attività intangibili, è in grado di esercitare un impatto positivo sul PIL che tale impatto può essere formalmente contabilizzato (growth accounting). Questo ovviamente implica che i paesi nei quali le imprese sono meno inclini ad investire in formazione professionale hanno performance macroeconomiche che tendono ad essere meno soddisfacenti.

Con riferimento all’anno preso in considerazione dall’indagine INDACO esaminata in questo lavoro, una riprova di questa relazione può essere facilmente ottenuta mettendo in relazione i tassi di crescita del PIL osservati all’interno dell’Unione Europea nel 2009 con le rilevazioni sulla formazione contenuti nell’indagine CVTS4. Al riguardo, si veda il diagramma: mette chiaramente in rilievo che nel 2009, anno critico della Grande Recessione, i paesi europei nei quali la forza lavoro occupata è stata maggiormente coinvolta dalle imprese in attività di formazione hanno subito una riduzione del PIL meno pronunciata rispetto a quelli nei quali le imprese sono state meno attive in tale direzione. All’interno di questo scenario, l’Italia presentava una percentuale di lavoratori formati al di sotto della media europea (il 36% contro il 37%) e, parallelamente, è evidente che l’economia italiana nel suo complesso ha sofferto una perdita di PIL ben superiore a quella sofferta dai paesi europei più importanti come la Germania, la Francia e la Spagna.

Figura 1: L’impatto della formazione professionale sulla crescita economia

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Fonte: Elaborazione su dati CVTS4 e EUROSTAT

In linea con quanto recentemente raccomandato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dalla Commissione Europea,  qualche forma di incentivo alla formazione in impresa può essere d’aiuto. In effetti, è verosimile che se le imprese nel loro complesso potenziassero l’erogazione di formazione professionale, l’impatto sulla produttività di questa formazione addizionale sarebbe maggiore in ogni singola unità produttiva. Dall’altra, un incremento della formazione potrebbe rendere il sistema economico italiano meno vulnerabile rispetto al verificarsi di shock macroeconomici avversi. In altre parole, un aumento della formazione potrebbe contrastare gli effetti recessivi causati dalla caduta della domanda aggregata che abitualmente caratterizzano le situazioni di crisi economica.

Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Valentina Conte – La Repubblica

Una montagna di miliardi, sfuggita di mano. Ogni anno l’Italia spende cifre impressionanti in progetti finanziati con fondi strutturali europei, eppure nessuno è in grado di valutarne gli effetti. Se ad esempio favoriscono davvero l’inclusione sociale, se creano nuova occupazione e se questa è strutturale e come viene retribuita. Anzi, va persino peggio. Non solo non conosciamo l’efficacia della spesa, ma ogni euro di fondi ricevuti ce ne costa due in tasse: uno da versare all’Europa come membri dell’Unione e un altro come cofinanziamento, obbligatorio per utilizzare quei fondi. Eppure, nonostante il clamoroso black-out informativo, in cinque anni sono stati messi in campo ben 504mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo. Con quali benefici? La risposta dello studio curato dagli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi e pubblicato sul sito lavoce. info è una sola: i benefici sono ignoti.
«Nessuno riesce a districarsi tra piani europei, nazionali e regionali», osserva Perotti, docente alla Bocconi e in passato consigliere economico di Renzi. «Centinaia di documenti stilati per fissare obiettivi che nessuno rispetta. E i soldi diventano una mangiatoia pazzesca per sindacati, assessorati regionali e provinciali». La soluzione per Perotti è una sola: «Non diamo più soldi a Bruxelles, così non rischiamo di vederli finire nelle mani dei maestri dello spreco, in un sottobosco politico parassitario». La tesi è ardita, ma suffragata dai numeri dello studio dal titolo “Il disastro dei fondi strutturali europei”.
Nel 2012 l’Italia ha versato 16,5 miliardi come contributi alla Ue e ne ha ricevuti in cambio solo 11, di cui 2,9 di fondi strutturali, tra Fse (per formazione, sussidi al lavoro, inclusione sociale) e Fesr (sussidi alle imprese e infrastrutture). Questi fondi per essere spesi devono essere “doppiati” tramite il cofinanziamento, dunque denari italiani. «Ottima idea, per coinvolgere il beneficiario. Ma se prendiamo il solo Fse, appena il 4% del finanziamento totale viene dalle Regioni (quasi niente dalle Province), il resto è finanziato in parti uguali da Stato italiano e Ue»». I soldi di questo fondo dunque «sono completamente gratuiti per i soggetti che poi attuano il progetto, cioè Regioni e Province». Di qui la prima stortura. «Lo scopo del cofinanziamento è completamente negato».
Lo studio passa poi ad esaminare la spesa per i progetti di formazione, che rappresentano la quasi totalità dei progetti dell’Fse (504 mila su 668 mila). Nel periodo 2007-2012 (dati OpenCoesione) ben 7,4 miliardi su 13,5 sono stati impiegati qui. La valutazione di questi corsi è «un’industria che non conosce crisi» e tiene in vita «decine di centri di ricerca» che hanno prodotto tra 2007 e 2011 ben 280 documenti di valutazione, per la stragrande maggioranza «inutili, un sottobosco nel sottobosco». Poiché nessuno è davvero in grado di raccontare l’efficacia dei corsi. Le variabili di solito citate sono la percentuale di soldi spesi e il tasso di occupazione. Ma la prima non è per forza indice di successo: si possono spendere molti soldi in progetti inutili o dannosi. E la seconda spesso è effetto della congiuntura, se non si riesce a misurare i posti di lavoro che davvero i corsi di formazione e gli stage favoriscono.
Il confronto europeo è poi agghiacciante. Se l’Italia tra 2007 e 2013 ha offerto corsi a 21mila persone, la Francia aveva 254mila iscritti e la Germania 208mila (dati del network di esperti sulla spesa dell’Fse per l’inclusione sociale). Ebbene, tra quelli che hanno completato le attività (appena 233 italiani, contro 50mila francesi e 32mila tedeschi), solo il 14% risultava poi occupato in Italia, contro l’85% della Francia e il 35% della Germania. Ma, aggiunge lo studio, «è possibile che i partecipanti italiani abbiano ricevuto servizi non finalizzati a trovare un posto di lavoro». Ma allora a che cosa servono questi corsi?

La Commissione europea, lo scorso marzo, sosteneva che grazie ai fondi Ue in Italia sono stati creati tra 2007 e 2013 più di 47mila posti, 3.700 nuove imprese, banda larga estesa a più di 940mila persone, sostegno per 26mila pmi, 1.500 chilometri di ferrovie e progetti di depurazione delle acque. La Corte dei Conti però, in febbraio, diceva che dal 2003 ad oggi gli “euro-furti” (frodi, imprenditori fasulli, finti progetti, costi gonfiati, incarichi irregolari) hanno raggiunto la cifra record di un miliardo e 200 milioni. Solo nel 2012 ne sono stati scovati 344 milioni (al top la Sicilia con 148 milioni finiti nelle tasche sbagliate, vedi il caso del deputato pd Genovese che secondo le accuse in cinque anni avrebbe lucrato ben 6 milioni di euro di fondi europei destinati proprio alla formazione professionale). Nel 2013 poi la Guardia di Finanza ne ha recuperati altri 228 di milioni. Arrivati come fondi strutturali, poi finiti nelle tasche del malaffare. E certo non usati per creare posti o crescita.