francesco forte

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Francesco Forte – Il Giornale

In luglio la produzione industriale italiana ha avuto un calo dell’1% sul giugno e un calo dell’1,6% sul luglio 2013 che ha portato a zero la sua crescita per i primi 7 mesi del 2014. Ora si teme che il terzo trimestre possa avere ancora segno negativo e che il Pil 2014 abbia la crescita zero. Gli 80 euro in busta paga, che hanno dato ai lavoratori a basso reddito un miglioramento piccolo in sé ma per loro significativo, non sono serviti a dare una scossa al Pil. Altri sono i fattori che servono. Pesa la persistente crisi dell’edilizia, privata dovuta alle troppe tasse e di quella pubblica dovuta ai troppi vincoli. E pesa l’inadeguata performance delle nostre imprese nel commercio estero, dovuta sia alle tropo tasse sul lavoro e sia alla rigidità dei contratti di lavoro, aggravata dalle sanzioni alla Russia e dai problemi nel Medio Oriente. Infine c’è una carenza di investimenti delle industrie, dovuta alla loro scarsa convenienza.

Le nostre imprese sono oberate da una fiscalità eccessiva, che riguarda soprattutto il costo del lavoro tramite l’anomalia dell’Irap, un’imposta diretta che colpisce con una aliquota fra il 4 e il 5% il costo del lavoro al lordo dei contributi sociali con un gravame sulle retribuzioni lorde di circa il 6%. Con questo aggravio la tassazione dei profitti che con l’imposta sulle società (inclusi gli interessi passivi tassabili) si aggira sul 32%, raddoppia. E arriva al 70% nelle imprese ad alta intensità di lavoro. Dunque occorre agire sull’Irap con una riduzione che la azzeri, in tre anni, per imprese e lavoro autonomo. Servono 16-17 miliardi (l’operazione 80 euro è costata 8 miliardi).

L’analisi dei dati sulla produzione industriale a luglio 2014 fa capire che le tasse eccessive hanno una grossa colpa del brutto risultato netto. L’industria estrattiva, che riguarda soprattutto i materiali per l’edilizia, ha avuto una diminuzione del 7,8%. La fabbricazione di apparecchiature elettriche e di quelle per uso domestico non elettriche, due altri settori importanti nell’edilizia, è scesa addirittura del 13,9%. Sono andate male anche l’industria del legno (-3,0) e quella tessile e dell’abbigliamento e della pelle e accessori (-5,9%). Per la prima c’è, come spiegazione, la flessione della domanda interna connessa alla crisi edilizia e di quella estera per i mobili made in Italy; per la seconda gioca negativamente la riduzione di competitività della nostra produzione. Sono scese del 2,1 % la metallurgia e del 2,8% la produzione di macchinari e attrezzature, in espansione le produzioni elettroniche (+4,8%), quelle di farmaceutici (+3,0), di mezzi di trasporto (+2,9) e di prodotti chimici (+0,5). Gran parte di questi settori che vanno bene sono ad alto contenuto tecnologico e a bassa intensità di lavoro. Fa eccezione l’industria dell’auto, che è in espansione perché funziona la terapia Marchionne di contratti di lavoro aziendali di produttività e di innovazione organizzativa.

Per trovare la copertura per il taglio dell’Irap, bisogna operare sulla spesa. Dal blog del commissario Carlo Cottarelli rilevo che per l’acquisto di beni e servizi le pubbliche amministrazioni pagano prezzi spesso superiori a quelli praticati dalla Consip, la società che li dovrebbe gestire, a cui esse non si rivolgono, usando abili espedienti. Ci sono 2.671 società partecipate dai Comuni che hanno solo amministratori e zero addetti o meno addetti che amministratori. Il consumo per abitante per illuminazione pubblica dei nostri comuni è più che doppio di quello tedesco e inglese. Così dal satellite risulta che l’Italia è, di notte, la parte più luminosa del pianeta.  

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Francesco Forte – Il Giornale

Il programma che Draghi ha lanciato, operativo dal 3 ottobre, è massiccio, ricco di opportunità e sfide, per combattere la deflazione oramai diffusa in tutta Europa prima che diventi endemica e quindi difficile da sradicare e da rimpiazzare con una normale crescita. Ci sono tre misure inattese che servono a espandere il credito e ad abbassare l’euro (che già ha perso un punto col dollaro). C’è un ribasso del tasso di interesse sui prestiti ordinari alle banche, al livello di 0,05, che è soprattutto simbolico, perché indica la possibilità di una mossa successiva, di tasso negativo su prestiti Bce.

Ci sono poi due misure non convenzionali rivolte direttamente agli operatori economici, cioè imprese e famiglie. Una è l’acquisto da parte della Bce di prestiti obbligazionari coperti da ipoteca o garanzia di primo grado (covered bond), tra cui rientrano i mutui ipotecari immobiliari e le obbligazioni garantite da Stati con rating di A. L’altra è l’acquisto da parte di Bce di crediti di imprese garantiti da garanzie reali e da credibili fatture verso la clientela e le pubbliche amministrazioni (asset backed securities). In futuro Draghi potrebbe varare operazioni non convenzionali rivolte alle banche con prestiti assistiti da loro crediti costituiti da obbligazioni bancarie e titoli pubblici. Non ha fatto ciò ora un po’ per riservarsi questo «colpo di pistola fumante» e un po’ per l’opposizione intema al suo comitato esecutivo. Le misure sono state approvate a maggioranza, non all’unanimità perché la Bundesbank non le gradisce. Forse anche altri avrebbero storto la bocca se ci fossero stati prestiti alle banche con garanzie di titoli del debito pubblico di Stati come il nostro (la Spagna ora ha fatto la riforma del mercato del lavoro e le case tedesche ora assemblano le auto in Spagna).

Renzi ha ricevuto una grossa opportunità da Draghi, perché i prestiti alle imprese e alle famiglie garantiti seriamente possono ricevere prezioso denaro fresco dalla Bce, saltando l’intermediazione bancaria. Ma perché i cavalli (le imprese) e le cavalle (le famiglie) possano fruire adeguatamente di queste opportunita ci vogliono due condizioni: bisogna disporre di regolamentazioni snelle per consentire agli intermediari finanziari di far affluire questi crediti alla Bce; e le famiglie devono essere convinte che convenga investire in immobili (prima casa, ma anche altre) e quindi che le imposte su ciò siano moderate e non siano aumentate all’insegna della «caccia alla rendita», che mette paura. Inoltre occorre che le imprese non siano oberate di imposte e possano disporre di un mercato del lavoro doppiamente flessibile, mediante contratti aziendali orientati al merito e alla produttività e mediante l’impiego anche di addetti a tempo determinato, part time e partite Iva, essenziali nelle economie basate sui servizi (commercio, artigianato e turismo) e su industria e agricoltura, in cui il made inItaly si nutre di servizi specializzati, ma anche nelle pubbliche amministrazioni. Secondo la Banca mondiale in Italia la pressione fiscale sulle imprese è ora il 65,8%: un record mondiale. Seconda la Francia con il 64,7 e terza la Cina con il 63,7. A grande o grandissima distanza la Spagna con il 58,6, la Germania con il 49,4, gli Usa col 46,3, il Regno Unito col 34%. Il cavallo e la cavalla vogliono bere alla fonte di Draghi, ma dirigismi, giustizialismi e fiscalismi populisti mal impostati come l’Irap o gli 80 euro finanziati dalle imposte sugli immobili, impediscono loro di bere.

Il programma Draghi potrebbe servirci a vivacchiare: ci aiuta per gli effetti sul cambio, che in ogni caso faciliteranno l’export verso aree dollaro, yuan e yen e verso i Paesi euro che riusciranno a utilizzare bene le misure della Bce. Inoltre i prezzi aumenteranno un po’ e il nostro Pil aumenterà in moneta, così si ridurrà il rapporto debito/Pil e aumenterà il gettito Iva. Ma noi dobbiamo crescere un po’ di più di 0,5 punti l’anno, per migliorare l’economia, ridurre il debito e la disoccupazione. Non possiamo vivacchiare al traino degli altri. Renzi non sprechi questa occasione, che – comunque – ci aiuterà ma non durerà mille giorni. Nella favola della volpe e del cigno, dall’anfora riuscì a bere il cigno, non la volpe, furba ma con il muso corto.

Dopo il gelato, l’aspirina

Dopo il gelato, l’aspirina

Fancesco Forte – Il Giornale

Il decreto legge sblocca cantieri che il premier Renzi aveva presentato come una misura per il rilancio della nostra economia, che è entrata in recessione nel secondo trimestre e che, secondo le stime Istat rimarrà allo stesso livello nel terzo, non serve per il rilancio del 2014 e costituisce una mera aspirina per gli anni successivi. I 10 miliardi di nuove spese di investimenti sbandierati dal premier, infatti, ammesso che il decreto si realizzi secondo le previsioni, come al solito, più ottimistiche che realistiche, non darà luogo a lavori nel 2014 e comporterà 3 miliardi di lavori fra il 2015, il 2016 e il 2017, da includere nella legge di stabilità. Gli altri vanno a finire dopo. Tanto che sono piovute critiche dal presidente dei costruttori edili (Ance) Paolo Buzzetti: «Sblocca Italia ha un’ottima impostazione, ma se non ci mettiamo i soldi e non facciamo ripartire le cose perché l’ Europa ci blocca, i problemi restano tutti lì». Insomma, «non si tratta di provvedimenti choc che facciano ripartire l’economia.13,8 miliardi so pochi, ci aspettavamo una botta maggiore su tutto, un impegno maiore».

Non c’è più in questo testo la parte migliore della sua bozza iniziale ossia la proroga e rivitalizzazione della legge obbiettivo, varata da Berlusconi nel 2001 per coinvolgere nel finanziamento delle grandi opere le iniziative private in modo efficiente. Il testo varato dal Consiglio dei ministri (ancora suscettibile di modifiche) è pensato e scritto in burocratese di vecchio stile dirigista. Esso consiste di semplificazioni del dirigismo, non in un nuovo modo di legiferare consono all’economia dei mercati globali. Ci sono due sezioni di questo decreto migliori della media, di ispirazione berlusconiana quella sulle concessioni perla banda larga, che deriva dai progetti di Berlusconi primi ostacolati da lobby monopolistiche nazionali e poi affossati insieme al resto del decreto sullo sviluppo del ministro Romani, dell’autunno 2011, bocciato per ragioni politiche e quella sull’asse ferroviario Napoli-Bari ispirata dalla Regione Campania guidata da Forza ltalia. Per la banda larga, gli investimenti nelle aree in cui occorre l’incentivo pubblico, ora (ci sono le gare per le concessioni alle grandi imprese private, e gli investimenti non inizieranno prima del 2016. 

Grazie al Pd, dunque l’Italia avrà la cablatura elettronica globale solo alla fine di questo decennio anziché all’inizio. Per la Napoli-Bari il governo nomina come Commissario l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato,di fatto in un regime di concessione ispirato alla Legge obbiettivo. Ma,pur con la connessa semplificazione e accelerazione di procedure, il programma sarà operativo solo alla fine del 2015. 

La parte sulla privatizzazione di imprese pubbliche è slittata al futuro, data la contrarietà di Regioni ed enti locali feudo delle sinistre. Sono rimaste le norme sulle nuove competenze della Cassa Depositi e Prestiti e sui «project bond», nuovo strumento finanziario per l`investimento privato/pubblico e sulla privatizzazione di immobili del Demanio militare tutte scritte in tortuoso burocratese.

C’è una parte sullo sblocco della burocrazia nell’edilizia pubblica, molto smagrita per le opposizioni di giustizialisti, ambientalisti, fanatici dell’intervento pubblico nel settore culturale e di fanatici delle regolamentazioni urbanistiche-edilizia. Tutti tabù della vecchia sinistra ex Pci, Pdup e via cantando. Per dare un’idea di questa zavorra basta un comma sulle regole edilizie: «La destinazione di uso di un fabbricato è quella prevalente in termine di superficie utile. Il mutamento di destinazione d’uso all’interno di essa è sempre consentito, salva diversa previsione delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici». Frase gattopardesca sembra che tutto cambi, ma c’è una clausola, (che ho messo in corsivo) per cui tutto resta come prima. Nel complesso, Renzi sino ad ora non ha fatto nulla per farci uscire dalla crisi con nuovi investimenti né per privatizzazioni onde ridurre debito e spesa pubblica, né per l’efficienza dei rapporti di lavoro: la sfida maggiore su cui lo richiamano le frasi recenti di Marchionne.

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Francesco Forte – Il Giornale

La rivalutazione del Pil dell’Italia, che l’Istat farà fra circa un mese, costituisce, per Renzi che si dibatte fra cattive statistiche, un piccolo ma non trascurabile aiuto. Il nuovo calcolo farà scendere la pressione fiscale ufficiale anche se i contribuenti pagheranno le cifre esorbitanti di prima. Anche la spesa pubblica risulterà più bassa sul Pil, anche l’importo rimane eguale. E il rapporto del debito pubblico col Pil scenderà. Un buon aiutino arriverà a Renzi per il deficit in percentuale sul Pil. Se – in ipotesi – per il 2015, prima delle manovre correttive, il deficit è stimato in 48 miliardi, su un Pil di 1.600 miliardi, esso risulta il 3%. L’aumento del 2% del Pil porterà quest’ultimo a 1.632 miliardi, farà scenderà il deficit al 2,94%: 0,6 punti in meno, risparmiando 9,6 miliardi alla manovra correttiva. Questa rivalutazione del Pil dell’Italia avverrà, provvidenzialmente per Renzi, a ridosso della legge di bilancio per il triennio 2015-2017. Essa però non è una escogitazione né del premier fiorentino né dell’Istat. Deriva da una decisione dell’Unione europea per tutti i Paesi membri, che nasce dalla necessità di adeguare il calcolo europeo del Pil ai criteri degli Stati Uniti e altri Paesi. La rivalutazione comporta di includere nel Pil i proventi di attività, che in Italia (e in qualche Stato europeo) sono vietate o semi legalizzate come i traffici di droghe e di prostituzione, che altrove sono invece ampiamente legalizzati. Ma l’impatto sarà limitato anche perché le prostitute e prostituti a volte si chiamano «escort»; i traffici di droghe sono in parte già inclusi nell’economia sommersa, che in Italia viene valutata con indicatori presuntivi (per difetto) al 18%. Soprattutto, verranno incluse nel Pil le spese di ricerca, che in Italia sono considerate costi senza utile e quelle per gli investimenti per la difesa, che per l’Unione europea, per una scelta ideologica adesso non sono veri investimenti. Il calcolo del Pil in più è scivoloso. Per la «prostituzione», concetto labile, e per la droga, di cui si hanno vaghe stime, l’Istat intende fare una correzione del Pil molto limitata. La ricerca scientifica (difficile da definire) può dar luogo a una rivalutazione più consistente. Fra gli investimenti nella difesa verranno inclusi solo quelli fatti con beni comprati all’estero.

I beni nazionali sono già compresi nel prodotto delle imprese italiane. Si pensa che, con questa rivalutazione, il nostro Pil si accresca di circa 1/2 punti che vanno considerati anche per gli anni passati. Dunque se il Pil è, in ipotesi, 1.600 miliardi, col 2% in più, diventerà 1.632. La pressione fiscale di 704 miliardi su 1.600 di Pil è il 44%. Su 1.632 sarebbe 43,03. Se le spese pubbliche sono 784 miliardi scenderanno dal 49% al 47,98% del Pil. Il debito pubblico di 2.160 miliardi scenderà dal 135 al 132,35% del Pil. La rivalutazione del Pil non riduce di un euro il sacrificio fiscale che, per ogni famiglia e impresa, rimane quello di prima. E Renzi è pregato di non prendere il giro il contribuente. Prostituzione e droga, non pagano le imposte ora e non le pagheranno con la rivalutazione. Per la ricerca, il regime fiscale non muta.

Gli acquisti dall’estero di beni d’investimento per la difesa produrranno, come ora, reddito fiscale all’estero. Sembrerà che noi abbiano meno debiti. Ma gli interessi e i rimborsi futuri sono gli stessi. E il deficit produrrà tanto nuovo debito come prima. Per finire, la rivalutazione del Pil non farà aumentare il misero trend della crescita italiana. Infatti le rivalutazioni accresceranno il Pil passato e futuro d’analoghe percentuali. Perciò i rapporti fra tali Pil non mutano. I disoccupati rimarranno una cifra enorme. Questo ritocco non è un alibi per rimandare le riforme.

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Francesco Forte – Il Giornale

Il dopo ferragosto comincia con una brutta notizia, che riguarda la casa in Italia: i mutui immobiliari non beneficiano abbastanza del basso costo del denaro, dovuto al bassissimo tasso (appena lo 0,25%) della Banca centrale europea.

La differenza salta subito all’occhio facendo il confronto con il resto d’Europa: comprare casa con il mutuo a maggio costava il 3,1% annuo nel nostro Paese, mentre nel resto del Vecchio continente costa il 2,71%. E oltre al costo del mutuo c’è quello delle imposte patrimoniali, che in due anni sono aumentato del 107% secondo le stime diffuse ieri dalla Confartigianato, che sono una media per tutti gli immobili e non comprendono ancora il rincaro dovuto alla Tasi, il cui livello in molte città non è stato ancora determinato.

Non solo. La prima casa, che al tempo di Berlusconi, cioè sino al 2011, era esonerata dalla patrimoniale, prima con Monti, poi con Letta e ora con Renzi invece è tassata. La conseguenza è stata una contrazione dell’industria delle costruzioni. I cui risultati sono evidenti da queste cifre: le imprese del settore sono diminuite del 2,71% e gli occupati si sono ridotti del 4,8%, di circa 70mila unità, oltre lo 0,3 per cento degli occupati. Aggiungendo i posti persi nelle industrie che lavorano per l’edilizia da quelle dei laterizi, a quella delle piastrelle e del vetro e i posti persi nelle industrie e nei servizi che riguardano i nuovi immobili, ne risulta un rilevantissimo contributo alla crescita dei disoccupati e alla stagnazione della nostra economia.

Occorre anche aggiungere che si è creato un circolo vizioso fra la crisi delle industrie dell’edilizia e connesse e il costo dei mutui immobiliari, dovuto al fatto che le banche hanno, ora, parametri patrimoniali che rendono per loro difficile espandere più che tanto il credito. Tali parametri sono intaccati dalle perdite sui crediti concessi negli anni passati. Ciò non tanto per i muti immobiliari, che in Italia, a differenza che in altri Paesi, sono chiesti e concessi con maggior cautela, quanto nei prestiti alle imprese, in particolare dell’edilizia e del mercato immobiliare e delle industrie e dei servizi connessi, andate in difficoltà, con la crisi causata dalla nuova tassazione patrimoniale.

Ecco la sequenza della spirale perversa, che è stata scatenata dagli “apprendisti stregoni” della vetero sinistra italiana, al potere dalla fine del 2011, che credevano che la tassazione patrimoniale degli immobili e soprattutto della prima casa, servisse per l’equità (Monti aveva addirittura denominato «salva Italia» la sua manovra, in cui campeggiava la patrimoniale immobiliare, di cui la tassazione della prima casa era, per lui, uno degli strumenti maggiori del “salvataggio”).

Il mercato immobiliare viene depresso dalla nuova patrimoniale immobiliare e da altri tributi sul risparmio come il rincaro del bollo sui costi correnti. Prima scricchiola, poi crolla l’industria edilizia. Molte imprese edilizie e di settori a monte e a valle di essa vanno in crisi. La loro occupazione si riduce. I mutui a molte di queste imprese si incagliano o diventano insoluti. I parametri patrimoniali delle banche peggiorano perché i loro cespiti immobiliari perdono valore e così le perdite bancarie si accrescono. In questa spirale perversa, il credito diventa più difficile, anche per i mutui immobiliari. Tanto più che le famiglie hanno meno valori immobiliari da offrire in garanzia, perché il prezzo delle case è sceso per effetto della crisi economica. L’industria edilizia subisce nuove contrazioni con un aumento della disoccupazione.

Se questa è giustizia sociale, anche Bin Laden può aspirare alla beatificazione. La ricetta equa è opposta. Per rilanciare l’economia e l’occupazione serve una industria delle costruzioni che va. In altri Paesi, la ripresa del mercato delle costruzioni e di quello immobiliare ha fatto da volano all’intera economia. Bisogna quindi moderare la tassazione degli immobili, onde i mutui e gli investimenti immobiliari riprendano vigore e le famiglie possano avere più benessere.

E ora sistemate i conti

E ora sistemate i conti

Francesco Forte – Il Giornale

Adesso il premier Renzi non ha alibi per dilazionare le riforme economiche. Vi aveva anteposto la ambiziosa (e in parte opinabile e perfettibile) riforma costituzionale che ridimensiona il Senato e ridà allo Stato poteri che ora condivide con le «autonomie» regionali e comunali, con conseguenti veti e dilazioni. L’ostruzionismo alla riforma costituzionale dei nemici casalinghi di Matteo, che lo stava impelagando, è caduto non solo perché Ferragosto incombe, ma soprattutto a causa del supporto di Berlusconi. Ora Renzi ha la bici con la gomma davanti sgonfia: e dal primo settembre deve pedalare sulla strada delle riforme economiche. I tempi sono stretti, perché da ottobre l’Italia è sotto esame della Commissione europea, con la Merkel che l’attende al varco. Ma in primo luogo perché la Spagna ha ripreso a crescere, come l’Irlanda, mentre noi stentiamo. E ciò genera un debito altissimo, in rapporto al Pil: sfiora il 135 per cento. Berlusconi dovette dimettersi perché il rapporto debito/Pil nel 2011 era al 118% e poteva salire a 120. Fra Monti, Letta e un pochino di Renzi, in 32 mesi, lo hanno fatto crescere di 15 punti: quasi mezzo punto di Pil al mese, un bel record. Ciò è dovuto a una terapia errata fatta di maggiori imposte, in particolare sul risparmio e su chi fa più fatica e ha più meriti nel guadagno. Ciò doveva far quadrare il bilancio e ridurre il rapporto debito/Pil. Ma questo tipo di politica fiscale (con annessa guerra ideologica all’evasore vero, presunto o potenziale) ha generato depressione anziché crescita. La ripresa non c’è anche perché a queste errate scelte si sono aggiunte la riforma Fornero del mercato del lavoro che lo ha irrigidito e una politica populista e insieme neomercantilista fatta di bonus discriminati a lavoratori a basso reddito e di premi fiscali a favore di singoli settori di imprese o di singoli tipi di investimenti. E non si è privatizzato nulla. Agli eccessi di giustizialismo non si è risposto con semplificazioni e depenalizzazioni, ma con nuovi commissari. Anche Renzi ha fatto alcuni di questi peccati. Ma ha iniziato alcune riforme e prese di posizione contro lo strapotere dei sindacati e contro la adozione dei tecnocrati come surrogato alla responsabilità di chi governa. Ora che ha questa bicicletta, Renzi pedali. La più urgente riforma riguarda il mercato del lavoro. Una drastica, a modo suo, l’ha fatta la Spagna. Ed ora essa riparte bene, anche con nuove fabbriche estere di auto. Invece Fiat se ne va dall’Italia, innanzitutto perché incontrano veti e inghippi i contratti di lavoro aziendali Marchionne: un modello che essa adotta a Detroit e altrove in America. Si dia piena validità a questi contratti, anche se ciò dispiace alla Camusso e al capitalismo neocorporativo, che si intreccia con sindacato in cambio di favori di Stato. Occorre anche il ripristino delle partite Iva e di altri contratti della legge Biagi abrogati da Monti. Bisogna eliminare tutta l’Irap sui costi del lavoro. Le Regioni possono avere un contributo sanitario regionale equivalente, riducendo i contributi previdenziali diversi da quelli per pensioni e invalidità: costa 12 miliardi; lo si può fare in tre anni. Bisogna tagliare selettivamente la spesa improduttiva. Ciò a partire dalle sovvenzioni sia correnti che di investimento alle 8mila imprese pubbliche. L’investimento in infrastrutture si può fare meglio con un maggior ricorso a mercato. Sono da sfoltire anche le sovvenzioni ai privati. Riforme già note: non occorrono commissari e dossier. Renzi non ha più argomenti per evitare tali «compiti»: se i suoi non lo sosterranno, sa a chi può chiedere il voto.

Per risparmiare non serve il commissario

Per risparmiare non serve il commissario

Francesco Forte – Il Giornale

Le dimissioni annunciate di Carlo Cottarelli e pubblicizzate da autorevoli quotidiani non credo creeranno grandi problemi a Renzi. Il compito affidato al commissario era estraneo al suo curriculum di esperto di alto livello di Economia monetaria. Il governo Letta aveva inventato questo incarico privo di precedenti per dilazionare la riduzione selettiva delle spese. Non era in grado di farla perché non voleva toccare le oltre 8mila tra aziende ed enti pubblici in buona parte in perdita o senza utili, in cui i sindacato contano moltissimo, anche perché portano voti per vincere le elezioni. Il governo letta non aveva chiamato a questo compito inedito, che spetterebbe ai ministeri, né un esperto di bilanci e di spese dello Stato, come alla Corte dei Conti, né un economista che avesse vissuto in Italia almeno negli ultimi dieci anni bensì Carlo Cottarelli, che aveva lasciato Bankitalia nel 1988 dopo 10 mesi all’Eni. È di alta caratura ma in un campo diverso, ed è prossimo alla pensione al Fmi. E gli poteva far piacere tornare in Italia. La tesi allora corrente era che non bisognava fare i “tagli lineari” delle spese o degli esoneri fiscali regalati a gruppi di interesse influenti ma uno sfoltimento selettivo di spese chiamata spending review, non “rassegna delle spese” perché il latino è stato sostituito dall’inglese quando si vuole incantare il pubblico.

Cottarelli, a quanto risulta, non ha proposto tagli selettivi negli 8mila enti e imprese. Si è focalizzato su sanità e pensioni, suggerendo per la sanità dei tagli mentre si tratta di adottare i costi standard, procedura che richiede tempo e compete agli specialisti del settore. Per le pensioni ha avuto l’idea di modificare la legge vigente, toccando a quanto pare le pensioni già maturate, il che è contrario ai princìpi dello Stato di diritto. La questione degli “esodati”, invece, sarebbe suscettibile di una analisi selettiva, per accertare quanti contratti di pensionamento anticipato andrebbero annullati perché fatti mente la nuova legge Fornero sulle pensioni veniva approvata e si voleva creare un artificioso diritto a una deroga. Anche le pensioni di invalidità ed altri benefici previdenziali sono suscettibili di “analisi delle spese”. E così pure gli investimenti pubblici in edifici che i governi possono acquistare in leasing con le spese correnti e quelli per cui si potrebbe fare un contratto misto pubblico-privato. La spesa di investimento finanziata dal governo può essere eliminata quotando in Borsa l’impresa pubblica.

Se Cottarelli ha dei dossier sul taglio delle spese oltre a quelle di 7 miliardi giù presentate al governo è bene che lo faccia sapere prima. È agli italiani e agli organi democratici che deve spiegare le sue dimissioni, non è una questione riservata su cui si possa mettere il segreto di Stato. Per ridurre le spese senza bisogno di un alto commissario, il governo può riprendere la spending review del professor Giavazzi, rimasta nel cassetto perché non gradita al Pd e al capitalismo assistito. E può chiedere il sostegno del centrodestra alla riduzione spese su cui Cottarelli dice che c’è un veto della maggioranza attuale. Una riforma del mercato del lavoro fatta dando piena validità dei contratti aziendali e col ritorno alla legge Biagi consentirebbe più crescita, quindi più gettiti con minori tasse.

Senza un lavoro più flessibile la ripresa resta un miraggio

Senza un lavoro più flessibile la ripresa resta un miraggio

Francesco Forte – Il Giornale

Silvio Berlusconi ha ragione a dire che il programma di Renzi per quanto innovatore non basta. In esso infatti non c’è abbastanza libertà economica e ciò incide sulla crescita italiana, minuscola, solo per lo 0,2-0,3% del Pil quest’anno, che diverge da quella europea.

Sono emblematici di questa mancanza di libertà economica l’accordo Alitalia-Etihad bloccato da veti sindacali fra loro contrastanti e la paralisi, per scioperi ad oltranza del Teatro dell’Opera di Roma, che rischia la chiusura definitiva.

Entrambi questi eventi mortificano la nostra società, facendo degradare Roma a unica capitale senza Teatro e l’Italia a unico Stato senza una compagnia aerea nazionale e incidono sul nostro sviluppo economico negativamente. Infatti ne soffrono turismo, cultura e trasporti che sono motori di crescita e occupazione. È di questi giorni l’impietosa analisi del Fondo monetario che per l’Italia prevede, per il 2014, solo una crescita dello 0,3% del Pil contro l’1,1 dell’Eurozona, l’1,9 della Germania e l’1,2 della Spagna. Solo la Francia, fra gli Stati importanti, cresce meno dell’1%. Ma la previsione per essa è comunque dello 0,7. Il Markit Pmi Index dell’industria manifatturiera (un indice del Centro internazionale Markit di Londra) per luglio è a livello 51,9%: il più alto da due mesi; quello tedesco 52,9%, il più alto da tre mesi. Quello francese a 47,6 è il più basso da otto mesi.

Il Wall Street Journal osserva che l’Unione europea ha un trend di crescita modesto doppiamente divergente. Nell’Eurozona Germania e Spagna sono notevolmente sopra la media, Francia e Italia arrancano sotto. Oltre a questa divergenza, entro la moneta unica, ce ne è un’altra fra questa e l’Unione europea fuori euro: Regno Unito e paesi dell’Est europeo crescono di più. È il diverso modello economico, con meno potere di veto dei sindacati, meno regole, meno tasse, che spiega la divergenza. Il Wall Street Journal osserva giustamente che l’assicurazione di Draghi che la Bce farà di tutto per impedire che la moneta unica crolli non può bastare e che i paesi dell’euro fanno troppo affidamento sulla Bce. Occorrono le riforme, aggiunge il giornale dal suo osservatorio indipendente e con ciò allude soprattutto a quella del mercato del lavoro e a quella fiscale. Si può, ovviamente, osservare che una delle ragioni per cui l’Italia arranca è che le nostre imprese perdono colpi nel mercato internazionale, perché il credito è caro e limitato e perché il cambio dell’euro è artificialmente elevato (penso che la sopravvalutazione sia attorno al 10%, circa 13 punti).

L’espansione del credito che Draghi aveva messo in cantiere per la primavera è posticipata a ottobre, perché la Germania l’ha frenata, ma la Bce avrebbe potuto superare il veto tedesco, se noi avessimo attuato la riforma del mercato del lavoro, nel senso della flessibilità che la stessa Bce oltre che Bruxelles da tempi ci richiede. E resta il fatto che la Spagna, con il suo mercato del lavoro flessibili cresce più di noi, perché ha incrementato l’export di più, nonostante abbia un’industria molto meno avanzata. Ma in Spagna il costo del lavoro per unità di prodotto dal 2010 è sceso del 7%, in Italia è aumentato del 4,3. È un miracolo, dovuto alla ingegnosità delle nostre imprese se siamo riusciti a fra crescere l’export di 2 punti sul Pil, portandole al 30,4%.

Ci si lamenta che il Meridione, come segnala la Confindustria, ha una situazione dell’industria e dell’occupazione molto peggiore di quella media nazionale. Ma come fa il nostro Sud a competere con la concorrenza internazionale senza la possibilità di adottare i contratti aziendali flessibili e della legge Biagi aboliti dalla Fornero? Quando sarà possibile per le imprese firmare contratti aziendali con chi ci sta, senza bisogno di subire i veti di Susanna Camusso della Cgil, le bizze della Uil e gli ondeggiamenti della Cisl e delle nuove sigle e la minaccia di scioperi a oltranza?