francesco riccardi

Spinta al limite

Spinta al limite

Francesco Riccardi – Avvenire

Questa volta per valutare meglio il quadro occorre partire dalla cornice, dal contesto in cui la legge di stabilità è stata varata ieri a tarda sera. Una giornata di “tempesta perfetta” sui mercati finanziari, con il crollo delle Borse mondiali, Italia compresa, sui timori di nuove difficoltà della Grecia e del suo sistema bancario. Con lo spread sui titoli di Stato che è tornato a rialzare la testa dopo mesi di calo. Un mercoledì non da leoni, ma da gamberi, con l’Istat che conferma l’andamento negativo del Pil nel terzo trimestre, sceso al valore più basso dall’inizio del 2000. Insomma, se gli altri Paesi hanno da tempo superato il punto di caduta della crisi (pur se nuove nubi si addensano sulla Germania, e non solo) noi siamo stati rispediti nel Novecento e diventa sempre più difficile riproiettarci nel XXI secolo. Un ritorno al futuro condizionato anche e soprattutto dai vincoli posti dall’Unione Europea, dai quali non si può prescindere, ma che devono poter essere interpretati anche con saggia flessibilità.

Mentre nelle città italiane si cerca ancora di “asciugare” lacrime e ferite delle alluvioni – concreta e lancinante metafora di un Paese che non può non fare il necessario per mettersi in sicurezza e risollevarsi – il Consiglio dei ministri ha approvato ieri una manovra lievitata da 30 a 36 miliardi (con 18 miliardi di riduzione delle imposte) che sta in questa cornice, deve starci per forza per poter passare da un lato il vaglio dei rigidi controllori di Bruxelles e dall’altro per evitare di alimentare nuove speculazioni finanziarie contro l’Italia. Una manovra da “rallista” potremmo definirla, in cui si è obbligati a giocare di freno sulla spesa pubblica e di acceleratore sui tagli fiscali, per tenere a bada il deficit sotto il 3% e, contemporaneamente, dare la necessaria spinta a un sistema economico sempre più imballato. Un percorso a filo del burrone, tra le curve di una congiuntura sempre più difficile e la prostrazione di imprese, lavoratori e famiglie dopo 7 anni di “carestia”.

Bene perciò la spinta sull’acceleratore dello sviluppo rappresentato dal consistente taglio dell’Irap, che ha fortemente penalizzato le imprese negli ultimi anni e dagli sgravi per le partite Iva. Bene pure la cancellazione dei contributi, senza pregiudicare la posizione previdenziale dei lavoratori, per chi assume personale a tempo indeterminato. Qualsiasi misura oggi riduca il costo del lavoro è utile e “benedetta”, anche se in questo caso occorre rendere strutturale lo sconto, ridurre il cuneo fiscale e contributivo sull’intera durata di un rapporto di lavoro stabile, se davvero si vuol mantenere fede a quanto promesso nel Jobs act (e cioè che il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma di lavoro privilegiata e più conveniente).

Positiva è anche la conferma degli 80 euro per i redditi medio-bassi. E, sebbene il beneficio non sia stato allargato a incapienti e famiglie numerose (come chiesto molte volte su queste colonne) va registrato l’impegno da 500 milioni di euro promessi a favore della famiglia. Ci piace considerarli come un positivo “anticipo” – il saldo lo attendiamo con la delega fiscale – per ristabilire quel minimo di equità a cui hanno diritto i nuclei con figli e che non può essere ulteriormente procrastinato. Sospeso il giudizio sull’operazione “Tfr in busta”: occorrerà valutare quanti lavoratori sceglieranno di riceverlo subito e in che misura ciò spingerà effettivamente i consumi.

Dove invece il quadro della manovra appare tratteggiato in maniera più incerta, in attesa di leggere i testi definitivi, è la parte relativa ai tagli di spesa pubblica: 15 miliardi più o meno equamente divisi tra Ministeri, Regioni, beni e servizi della Pubblica amministrazione, Comuni e Province. C’è il rischio infatti che ciò si traduca non in maggiore efficienza della spesa pubblica, ma semplicemente nella riduzione di prestazioni sanitarie e di servizi a livello locale, proprio mentre la tassazione in questi ambiti va aumentando e pesando sempre più sui cittadini onesti. Così come alto è il rischio che la Commissione europea chieda maggiori sforzi e non si accontenti di una riduzione strutturale del deficit di appena lo 0,1% o di coperture, come quelle previste dalla lotta all’evasione, che potrebbero risultare aleatorie.

Per tentare di far ripartire il Paese, pur restando all’interno delle ferree regole europee, occorreva puntare su tre fattori decisivi: le imprese e il lavoro; le famiglie e le persone in condizione di povertà. Il primo obiettivo sembra centrato in pieno, il secondo solo parzialmente, sul terzo manca qualsiasi iniziativa. Probabilmente, nelle condizioni date, “fare di più” era impossibile. Ma “fare meglio” è un impegno che non finisce stanotte.

Al bivio del futuro

Al bivio del futuro

Francesco Riccardi – Avvenire

«Ammetto di non essermi mai trovato in una situazione in cui le rappresentanze sindacali fossero tanto poco considerate», ha detto Raffaele Bonanni lasciando la guida della Cisl. E in effetti, se si guarda alle vicende politico-sociali degli ultimi mesi ci si rende conto di come le confederazioni, pur calcando ancora la scena mediatica e sociale, siano state del tutto marginalizzate da quella politica. Non si tratta solo di un episodio quanto di un cambiamento di scenario, che investe in pieno il sindacato fino a metterne in discussione l`esistenza, quantomeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto negli ultimi 50 anni.

La prova che qualcosa sia cambiato per sempre è facilmente individuabile nell’iter della riforma del lavoro. Mai era accaduto che il progetto di un tale cambiamento non venisse discusso prima con le confederazioni. Non venisse almeno presentato alle “parti sociali”. E invece oggi sui testi del cosiddetto Jobs Act arrivati al voto del Senato non si è svolto neppure un incontro. Né al massimo livello con il presidente del Consiglio né con il ministro del Lavoro (che peraltro non sembra avere margini di iniziativa autonoma). Una scelta consapevole, quella del premier, che non solo ha superato l’ormai comatosa “concertazione “, ma ha pervicacemente perseguito una linea di azzeramento del “dialogo sociale” inteso come prioritario e determinante confronto con le organizzazioni sindacali. Un chiaro disconoscimento del ruolo di Cgil, Cisl e Uil. Di fatto la “rottamazione” – dopo quella della “generazione che ha fatto il ’68” – anche di tutta l’eredità sindacal-politica del 1969. Un'”asfaltatura” più potente di quella della “marcia dei 40mila”, perché nel 1980 la Fiat coi sindacati subito dopo firmò un’intesa, mentre oggi il governo snobba persino le parziali aperture di Cisl e Uil.

Certo, il sindacato non è morto. Le confederazioni contano ancora su milioni di iscritti, per quanto concentrati in 4 aree: pensionati, pubblico impiego, parte della grande industria e del terziario non avanzato, utenti di servizi come i caf e i patronati. Quanto basta, potendo contare ancora su notevoli mezzi finanziari, per portare in piazza centinaia di migliaia di iscritti, fiaccati da crisi e cassa integrazione, imbufaliti per il blocco della contrattazione e le minacce alla sicurezza del posto di lavoro. Ma la prova muscolare, quand’anche ci fosse, quand’anche le confederazioni riuscissero a bloccare i servizi pubblici (non le industrie private), sarebbe sterile e non sposterebbe di molto i rapporti di forza. Perché – al di là del risultato tecnico sull’articolo 18 – Renzi ha ormai sorpassato i sindacati a destra e a sinistra, da un lato affermando la primazia assoluta della politica nelle scelte e nella rappresentanza dei bisogni dei cittadini, dall’altro prendendosi di slancio (e, dopo le elezioni europee, a furor di voti) il maggiore partito di riferimento. Facendo leva sulla scarsa considerazione di cui i sindacati “istituzione” godono fra i giovani – finora poco considerati e mal difesi – ha stretto Cgil, Cisl e Uil in una morsa dalla quale difficilmente potranno divincolarsi.

Così oggi ai sindacati restano due strade. La prima è catalizzare attorno a sé la (vasta) protesta, trasformandosi sempre più in un movimento essenzialmente parapolitico, che rappresenti una parte del disagio e verticalizzi il conflitto. La seconda è ripensarsi in chiave quasi esclusivamente sociale e produttiva, puntando a essere anzitutto rete orizzontale di inclusione e partecipazione attiva. Nelle fabbriche e nei (non) luoghi del lavoro diffuso, favorendo la formazione dei lavoratori (senza affarismo!) e gestendo i nuovi orari, puntando sulla costante crescita della produttività e con essa di salari e compensi legati agli utili dei lavoratori. Protagonisti anzitutto nelle imprese, nei territori, accanto ai nuovi lavoratori intraprendenti.

Verso la prima strada sembrano orientarsi la Fiom e probabilmente la Cgil. La seconda via potrebbe invece essere lo sbocco naturale di una Cisl capace di rielaborare il proprio patrimonio ideale (la contrattazione aziendale è una intuizione di quella confederazione del 1952!) nel nuovo scenario postindustriale. In parte (assai in parte) la Cisl di Bonanni aveva cominciato questa trasformazione con una riorganizzazione delle categorie. Ma nell’era digitale i processi sono avvertiti solo se accadono in tempo reale. In una società ridisegnata dalle tecnologie e dalla globalizzazione, sempre più polarizzata tra élite della conoscenza e manodopera dei servizi di base, di un nuovo sindacato c’è bisogno perfino più che di una nuova politica. Ripensarsi non sarebbe né una ritirata né un passo indietro, ma un salto nel futuro.

Al centro le persone

Al centro le persone

Francesco Riccardi – Avvernire

Premessa essenziale: stiamo discutendo di un emendamento alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. I giochi politici sono ancora aperti e le indicazioni in parte generiche. Passerà almeno un anno prima di poter ragionare su un testo di legge effettivo, sul quale sviluppare delle valutazioni che non siano impressionistiche. Chiarito questo, se realmente alla fine dell’iter legislativo si sarà messo mano all’intera normativa sul lavoro – compreso il tema delle tutele in caso di licenziamento, con il reintegro sostituito da un indennizzo monetario di valore crescente – ci troveremo di fronte a un cambiamento fondamentale, culturale assai prima che economico.

L’idea alla base dell’emendamento di arrivare a un nuovo Codice unico semplificato del lavoro è infatti anzitutto la presa d’atto che il mondo è cambiato e il sistema economico-produttivo è ormai lontano anni luce da quello ford-taylorista su cui era stato disegnato, quasi 45 anni fa, lo Statuto dei lavoratori. Soprattutto, segna la fine di un’idea, quella che studiosi come Pietro Ichino definiscono la concezione “proprietaria” del lavoro, secondo la quale quando un lavoratore riesce a conquistare un posto, quello in sostanza gli appartiene. A vita. Con la conseguenza che da noi si è sempre difeso non tanto il lavoratore, quanto il legame tra il singolo occupato e quell’impiego. Con il reintegro obbligatorio nel caso di un licenziamento che il giudice ritiene senza giusta causa (spesso solo perché, in quella zona, per il licenziato sarebbe difficile trovarne uno nuovo). Ma non di meno costruendo un sistema di ammortizzatori sociali che ha relegato centinaia di migliaia di lavoratori nel limbo della cassa integrazione per anni, anziché favorirne l’aggiornamento e il ricollocamento in altre aziende. L’intero nostro sistema produttivo – già schiacciato dall’eccessivo carico fiscale e dalla burocrazia – ha risentito di questa rigidità, cercando ogni possibile via di fuga, fosse essa il restare al di sotto della soglia dimensionale dei 15 dipendenti o il ricorrere a contratti senza tutele. Determinando così un graduale degrado del nostro mercato del lavoro, a danno anzitutto dei lavoratori stessi, dei giovani più di tutti.

Il nuovo Codice semplificato che dovrebbe essere emanato ha dunque l’ambizione di disegnare un sistema di regole generali e flessibili meglio rispondenti al nuovo scenario globale. Ma deve portare con sé anche un altro cambiamento: porre davvero al centro la persona, il nuovo soggetto intorno al quale costruire tutele reali e universali, politiche attive, in grado di rendere il lavoratore più forte sul mercato, maggiormente capace di reagire ai mutamenti di scenario, più “padrone” del proprio destino che non mero dipendente. Per farlo occorre che la delega porti a compimento davvero tutto ciò che promette in termini normativi, ma soprattutto di più efficaci ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Su questo – il mezzo disastro della Garanzia giovani purtroppo lo dimostra – siamo all’anno zero.

Nessuno si illuda, però: il superamento delle rigidità del passato, articolo 18 compreso, rappresenta solo la precondizione di un cambiamento necessario più profondo. Il lavoro del futuro sarà sempre meno somigliante a quello dipendente delle fabbriche manifatturiere che abbiamo conosciuto finora e sempre più simile all’interagire di soggetti diversi, in luoghi differenti, di volta in volta impegnati per un progetto da realizzare (un prodotto che magari sarà sfornato da una stampante 3D senza bisogno di essere “assemblato” da operai o un servizio offerto in Rete). Se non si assume finalmente una diversa idea di fare impresa, di cooperazione tra i soggetti coinvolti, di interazione con la società esterna, di partecipazione, allora, non avremo dato che una risposta per l’ennesima volta parziale a un mutamento, quello del lavoro e dell’economia, oggettivamente epocale.

P.S. È fondamentale che nel dibattito politico e sociale sulla riforma non si ripetano i tragici errori del passato. Tutte le posizioni sono legittime e hanno diritto di venire rappresentate. Ma nessuno si azzardi a indicare l’una o l’altra persona come “nemico del popolo” o “traditore dei lavoratori”. Il prezzo di sangue pagato da studiosi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi all’impegno per il cambiamento del nostro Paese, è già stato troppo alto, insopportabilmente alto.