franco bruni

Le riforme diventino europee

Le riforme diventino europee

Franco Bruni – La Stampa

La proposta «job-Italia» esposta ieri da Luca Ricolfi su questo giornale parte dal fatto che la forte tassazione sul lavoro (il «cuneo») causa disoccupazione. Per aver più impatto propone di concentrare la detassazione sui primi anni di lavoro dei nuovi assunti con salari medio-bassi. Aumentando gli occupati e i redditi permette al fisco, gradualmente, di compensare il costo della detassazione. Se potessimo permetterci l’aumento temporaneo del deficit che la proposta implica, varrebbe la pena di tentare. Stimolare la convenienza a produrre e occupare, cioè l’offerta, è indispensabile perché ogni nuovo alito di domanda produca vera crescita. Il sussidio temporaneo di job-Italia sarebbe coerente col bisogno più generale di una riforma fiscale che riduca la tassazione sull’impiego di lavoro. Il modello internazionale di sviluppo economico sta privilegiando l’impiego di capitale al posto del lavoro: i regimi di tassazione dovrebbero attutire questa tendenza. Ridurre il cuneo non basta, ovviamente.

In Italia serve una riforma del lavoro del tipo di quella sulla quale il governo ha chiesto ieri la fiducia in Senato. Fra gli aspetti della riforma che sembrano emergere, in modo ancora disordinato e incerto, due vanno sottolineati per il legame con le esigenze poste dai cambiamenti nel mercato mondiale del lavoro. Il primo è il mutamento dell’assistenza ai disoccupati, il passaggio della difesa a oltranza del posto di lavoro all’aiuto al disoccupato, alla sua riqualificazione e reindirizzo a nuovi lavori. La tecnologia e la globalizzazione hanno già sconvolto le gerarchie di competitività, l’obsolescenza dei modelli di produzione, la distribuzione della forza e della capacità di sopravvivenza delle imprese. È una rivoluzione destinata forse ad accelerare nei prossimi anni: guai se non favoriamo il ricambio delle imprese, la mobilità del lavoro, la sua capacità di acquisire nuove competenze e adattarsi a nuove opportunità. Per questo aiuto al buon funzionamento del mercato del lavoro occorrono molte risorse. È grave che non si riesca a trovarle più rapidamente tagliando le spese pubbliche improduttive.

Se occorre spendere per assistere la disoccupazione, la qualifica e la crescita professionale del lavoratore avvengono soprattutto quando rimane occupato. Perciò 1’altro aspetto da sottolineare della riforma del governo sono le «tutele crescenti» del nuovo contratto a tempo indeterminato. Un aspetto collegabile anche alla proposta del job-Italia che qualcuno potrebbe trovare poco orientata a favorire la continuità dell’impiego: se diventasse più facile licenziare, dopo i quattro anni del sussidio che Ricolfi propone i nuovi posti di lavoro sarebbero a rischio. Ma se le tutele crescenti consistessero in un periodo molto più lungo, durante il quale va gradualmente aumentando l’esborso che l’impresa deve sopportare per risolvere il contratto a tempo indeterminato, gli incentivi dell’impresa cambierebbero. Le converrebbe offrire al lavoratore un rapporto che cresce in qualità e coinvolgimento e che gli permette di qualificarsi e riqualificarsi con continuità, in modo che la probabilità di doverne fare a meno si riduca parallelamente al crescere del costo del suo licenziamento. Anche gli incentivi del lavoratore cambierebbero. Ma il meccanismo delle tutele crescenti sarebbe mortificato se non si minimizzasse la possibilità di reintegri disposti dal giudice: l’importanza di «superare l’art. 18» è maggiore di quanto abbiano detto lo stesso Renzi e la Confindustria e non ha molto a che vedere col limitato numero di casi di reintegro oggi constatabili che, fra l’altro, non tiene conto di coloro che non sono stati occupati o licenziati (o sono finiti nel ghiaccio della cassa integrazione) a causa dell’eventualità del reintegro. La combinazione di detassazione alla job-Italia e di «tutele crescenti» potrebbe dunque aiutare a conciliare stabilità e flessibilità dell’occupazione. Ancor più se si accompagnasse a nuovi investimenti nella formazione scolastica e universitaria e nei suoi rapporti col mondo del lavoro e i suoi continui cambiamenti.

Ma lo sforzo di riforma nazionale non basta. L’articolazione e la dimensione del mercato del lavoro italiano saranno sempre meno adeguati per soddisfare chi offre e chi cerca lavoro nel nostro Paese. Dobbiamo pensarci parte di un mercato più ampio, in primo luogo europeo. Qualcuno ha detto che servirebbe un job-compact. L’Europa deve muoversi più velocemente nell’integrare i sistemi nazionali che regolano il lavoro e il Welfare e nell’affrontare, unita, i problemi occupazionali posti dalla tecnologia e dalla globalizzazione. L’incontro svoltosi ieri a Milano ha incoraggiato l’Italia a riformare ma non è andato lontano nell’impegnarsi in un vero progetto europeo. Speriamo sia l’avvio di un lavoro comunitario più coraggioso e lungimirante. I cambiamenti del mondo non si fermano e la disoccupazione, più o meno mascherata, potrebbe travolgere un’Europa che non sa esprimere una strategia che indirizzi le politiche nazionali del lavoro.

Tagli, dare più potere al commissario

Tagli, dare più potere al commissario

Franco Bruni – La Stampa

Il governo Renzi ha avuto finora molto appoggio dall’opinione pubblica. Ma ha almeno due debolezze, in parte nascoste da due corrispondenti forze. Nascosta dal gran successo alle europee è la prima debolezza: un supporto parlamentare ancora fragile. Nascosta dal chiaro impeto strategico del suo presidente è la seconda debolezza. L’insufficiente precisione tecnica, la fretta con cui sorvola sui dettagli dei disegni e delle procedure di riforma del Paese, soprattutto dell’economia. Il caso Cottarelli sembra all’incrocio fra le due debolezze: da un lato i tagli del commissario sono boicottati e sprecati da un Parlamento che offre ancora coperture alle lobby, dall’altro il suo lavoro soffre delle carenze, tecniche e procedurali, con cui ne sono stati decisi il mandato, i poteri, i supporti tecnici, e con cui viene curato il suo collegamento con le decisioni politiche. Un commissario alla revisione della spesa non è indispensabile: ma se c’è deve poter lavorare con efficacia.

Cominciamo dai problemi politici. In Italia gli sprechi della spesa pubblica sono talmente grandi che in parte si possono eliminare alla svelta anche senza progetti di riorganizzazione ben definiti. Quando si buttano i soldi dalle finestre basta chiudere le finestre. Occorre però almeno la forza politica per farlo: disboscare le imprese pubbliche e gli enti locali non è tecnicamente difficile, basta che, diversamente a quel che succede ai suggerimenti di Cottarelli, ci sia una maggioranza pronta a vincere le resistenze del bosco. Il terreno politico-burocratico-parlamentare non è pronto a digerire quella rivoluzione dell’economia che Renzi continua giustamente a promettere incontrando il favore dell’elettorato. Lo mostra la grossolanità con cui i risparmi individuati dal commissario vengono destinati alla spesa prima di essere realizzati, usando, oltretutto, la clausola di salvaguardia che dispone, qualora i risparmi non avvenissero, di procurarsi le risorse proprio con quei tagli lineari per evitare i quali è stato chiamato un commissario. Lo mostrano i passi indietro fatti dal Parlamento sulle pensioni, con gravi e costose deroghe alla riforma Fornero. C’è disordine, troppo: il fatto che sia colpa del Parlamento o anche del governo non cambia molto. Renzi non è sul pezzo, in altre importantissime faccende affaccendato, ha chiarito la sua strategia economica ma non pare in grado di presidiare la disciplina delle singole cose che servono per evitare che si cammini all’incontrario.

Veniamo ora ai problemi tecnico-procedurali. C’è una parte dell’eccesso di spesa pubblica che non si elimina tagliando sprechi clamorosi ma dettagliando bene certe riforme strutturali: sanità, scuola, lavoro, enti locali, ecc.. Il risparmio di spesa è parte della riforma. La quale comprende spesso anche la decisione circa l’impiego dei risparmi che consente. Perché è inutile insistere sul fatto che in Italia la spesa pubblica è eccessiva, senza riconoscere che, soprattutto sul fronte investimenti, ci sono tanti capitoli in cui la spesa è troppo scarsa. La giusta riduzione complessiva della spesa non basta per ridurre le tasse più dannose per la crescita. Per abbassare quelle tasse, come quelle sul lavoro, bisogna alzarne altre, riformare cioè l’insieme della tassazione e, soprattutto, ridurre drasticamente l’evasione. Perciò il lavoro di Cottarelli dovrebbe essere strettamente collegato al disegno e all’attuazione di piani di riforma generale dell’economia, pubblica e privata. Ciò richiede, in primo luogo, che i poteri e gli strumenti del commissario siano rafforzati e meglio definiti. È istruttivo il caso del commissario anticorruzione all’Expo: anche Cantone ha dovuto lamentarsi per evitare di essere scagliato allo sbaraglio senza chiarezza nel mandato e nei poteri. In secondo luogo serve che i piani di riforma generale dell’economia esistano davvero e siano tempificati e cifrati credibilmente, nelle spese, nelle entrate e nei risparmi che comportano. Il commissario alla revisione della spesa può anche contribuire ad accelerare la preparazione di questi piani: come semplice tagliatore di sprechi è sprecato.

Per far buone riforme occorre competenza tecnica, precisione e consapevolezza dell’importanza dei dettagli, abitudine non a improvvisare ma a elaborare e controllare procedure e regole da applicare con regolarità. Sono caratteristiche che non mancano a Carlo Cottarelli. E nemmeno gli manca la convinzione politica che deve firmare le scelte tecniche. Renzi ha ragione quando insiste che la politica e le sue scelte devono essere in prima fila. Ma sbaglia se presenta la scelta politica come un obiettivo privo di dettaglio tecnico, se esagera nel tenere politica e tecnica separate, se si circonda di tecnici ai quali non riconosce l’influenza politica che meritano. Cottarelli ha commissionato a gruppi di esperti diversi rapporti su singoli capitoli della revisione della spesa; non ha avuto l’autorizzazione a diffonderli: una mancata trasparenza che è anche mancanza di rispetto per chi ha lavorato, oltre che con competenza, con passione civile e convinzione politica.

È augurabile che Carlo Cottarelli rimanga e, soprattutto, che la revisione della spesa sia inserita con chiare responsabilità nell’apparato tecnico-politico dedito all’approntamento e all’avvio, concreto e ben contabilizzato, di un piano organico e pluriennale di riforme economiche che è l’unica cosa che l’Europa ci chiede per poter guardare al nostro debito pubblico con minor preoccupazione.