franco debenedetti

La sconfitta dei privilegi

La sconfitta dei privilegi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

«Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario». «le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive». Era il 31 maggio 2011, e a dirlo era Mario Draghi, allora Governatore della Banca d’Italia. Il “necessario” intervento legislativo adesso è arrivato, indotto, se non “sollecitato”, dal Single Supervisionary Mechanism della BCE. Sette banche popolari di rilevanza sistemica, pur superando tutte lo stress test e l’asset quality review, hanno però dovuto usare il margine di tempo consentito per mettersi a posto: sono per così dire borderline. Per rafforzarsi le banche ricorrono perlopiù alle fusioni: ma se i loro statuti prevedono il voto capitario, solo con delle acrobazie di governance e di poltrone possono ricorrere a quello strumento, anche se sono quotate in Borsa. Il prezzo delle azioni non riflette il valore potenziale della banca, tant’è che basta l’annuncio dell’eliminazione del voto capitario perché i listini prendano il volo. La conseguenza è che abbiamo banche sistemicamente importanti, perlopiù efficienti, con buon radicamento sul territorio, che però risultano borderline nel nuovo panorama della Banking Union.

Il Governo ha deciso di eliminare gli ostacoli al superamento di questa situazione: entro 18 mesi 10 banche popolari, di cui 7 quotate, ma tutte sistematicamente importanti, dovranno diventare società per azioni. E lo ha fatto, perdipiù, con lo strumento del decreto, evidentemente, e a mio avviso giustamente, ravvisando la “necessità ed urgenza” di evitare che possano nascere problemi in quella parte del nostro sistema creditizio ( e magari sperando che in questo modo se ne possano risolvere alcuni, tanto per intenderci tra Siena e Genova). Evidentemente per Francoforte, e quindi per Roma, l’obbligo di trasparenza richiesto a una banca che per dimensione è sistematicamente rilevante, può essere soddisfatto solo con la governance di società per azioni, e non con quella a voto capitario.

C’è la retorica della cooperazione: le banche popolari – scriveva Raffaele Bonanni a proposito delle vicende BPM che mi indussero a dare le dimissioni da consigliere di quella banca– sono “la forma più compiuta di partecipazione al governo dell’impresa, la forma più avanzata di democrazia economica”. E c’è la realtà degli interessi, quelli di associazioni di soci, magari dipendenti e loro famigli, che organizzando e selezionando l’affluenza in assemblea, riescono a controllare il voto. Nel 2011 in BPM il 73% del capitale era in mano di non soci, il 27% in mano di 53.000 soci, di cui il 4% degli 8700 dipendenti organizzati nell’Associazione Amici. Questi controllano il voto in assemblea, hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali, in particolare in quelle su avanzamenti e promozioni, senza nessuna responsabilità o rischio di sanzioni. Il problema di agenzia c’è anche nelle società per azioni, c’è, moltiplicato, nelle piramidi societarie, ma c’è perlopiù la possibilità di conquistare una maggioranza sufficiente a sostituire il management: una possibilità che invece non esiste in caso di voto capitario. Fin quando possono esistere isole felici in cui risparmiatori coscienti di non contare nulla corrono a dare i loro soldi a dipendenti perché la banca sia gestita in modo da dare a loro vantaggi sicuri, ovviamente a scapito della redditività? È nelle realtà di media dimensione che la cooperazione può non essere retorica, dove anzi si può supporre che si sia ancora capaci di assegnare correttamente il merito di credito alle imprese e ai loro progetti: che sono quindi fuori da quanto dispone il decreto del Governo.

Giuste le ragioni dell’intervento, a lasciar sorpresi è il momento scelto: perché non è che siano mancate le occasioni, nei 4 anni dopo il discorso del Draghi italiano e nei 4 mesi dopo il responso del Draghi europeo. Le banche popolari, proprio per le ragioni implicite al voto capitario, possono contare su sostenitori tra tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Se a suggerire l’intervento del Governo non c’è qualche brutta notizia di cui non si sia ancora a conoscenza, bisogna riconoscere che Matteo Renzi ha dato dimostrazione di grande determinazione prendendo un provvedimento che gli potrebbe alienare consensi proprio mentre in Parlamento hanno e avranno luogo votazioni di decisiva importanza per il futuro del Paese e suo. Consideriamola allora come una dimostrazione di forza, e attendiamo con fiducia la conversione del decreto.

Giungerebbe proprio a tempo. Infatti uno degli scopi del QE che oggi verrà annunciato dalla BCE è di consentire alle banche di erogare maggiori finanziamenti alle industrie. Ma se l’economia non cresce, gli investimenti diventano più rischiosi, più difficile diventa assegnare il merito di credito. Se è vero che molte banche popolari, anche alcune delle grandi, grazie a una maggiore prossimità alla clientela, hanno (ancora) conoscenze e competenze per saperlo fare, è questo il momento per loro di concentrarsi interamente a valorizzarle: libere dai conflitti di interesse tipici delle governance a voto capitario.

La vera riforma dell’articolo 18

La vera riforma dell’articolo 18

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari. Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.

È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali. Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

Infatti nella via di un’impresa sono rari i casi in cui per sopravvivere deve licenziare, delocalizzare, oppure ridurre l’occupazione (fini per cui tra l’altro si possono attivare già altri strumenti). Rari i casi di disoccupazione tecnologica: già Sismondi, due secoli fa, ironizzava con chi teme que le roi, demeuré tout seul dans l’ile, en tournant constamment une manivelle, fasse accomplir, par des automates, tout l’ouvrage de l’Angleterre. Rari sono anche i casi opposti, in cui l’azienda aumenta gli organici perché è riuscita a invadere nuovi mercati, oppure perché ha sbaragliato la concorrenza con un’innovazione. La gran parte delle aziende, per la massima parte della loro vita, procede per variazioni incrementali, una nuova filiale di vendita, una macchina più veloce, un’organizzazione del lavoro più efficiente: la metodica, incessante, noiosa ricerca di fare le cose in modo più produttivo. Rare sono le inaugurazioni di nuovi capannoni, rare per fortuna le chiusure, la normalità è migliorare marginalmente ogni fase di ogni attività: e questo significa anche trovare persone marginalmente più capaci di svolgerle.

Fare squadra non è soltanto la qualità mitizzata di leader mitizzati, lo fanno tutte le cellule delle organizzazioni: e nessun allenatore riesce a fare squadra se la sola soluzione di cui dispone è allungare la panchina. Per questo, i miglioramenti marginali di efficienza sono «giustificato motivo economico» per licenziamenti individuali: se anche ci fosse ricorso al giudice e questo ordinasse il reintegro, l’azienda deve potere optare per l’indennizzo. È vero, l’azienda è, per storica definizione, luogo dello scontro di classe; è anche, per umane ragioni, luogo di abrasioni caratteriali: dietro il licenziamento disciplinare ci può essere una meschina ripicca, una stupida vendetta. Ma la fabbrica è anche il luogo in cui ognuno è nodo di un reticolo complesso di relazioni, verticali e orizzontali, anche i rapporti gerarchici sono trasformati dalla generale disintermediazione: sarebbe proprio stupido rischiare di danneggiare un ambiente sociale con una palese ingiustizia.

Recuperare produttività è il cuore del problema italiano. Molto dipende dai servizi erogati dallo Stato, quindi dal funzionamento dello Stato stesso, molto dalla produttività delle singole aziende. Per le poche che sono leader mondiali nei loro settori, per le tante che cercano di tenere il mare, l’aumento della produttività è un processo incrementale, che si basa sulla continua ottimizzazione delle funzioni e sulla selezione di chi meglio le sa svolgere. La produttività dell’Italia ristagna da 15-20 anni, rispetto ad aumenti molto più congrui dei paesi concorrenti: eppure il governo sembra voler lasciare a questo proposito le cose come stanno, non far nulla per facilitare questo processo di miglioramento interno.

Le nuove norme, e quindi anche il considerare «giustificato motivo economico» i miglioramenti marginali di efficienza, non si applicheranno a chi oggi ha un contratto a tempo indeterminato. E nella nostra cultura giuslavoristica rimarrà per anni il principio della job property, che la riforma avrebbe dovuto sradicare. Se per i casi di licenziamento disciplinare non si desse all’azienda la possibilità di procedere per l’indennizzo in luogo del reintegro, e se questa comunque non valesse per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato fino alla loro pensione, ci sarebbe veramente da interrogarsi sul perché di tanta contestazione a una legge che estende diritti a molti (dipendenti di aziende con meno di 15 persone, lavoratori non a tempo indeterminato, contratto di reinserimento per tutti) e non ne leva a nessuno. Verrebbe da dire che questa è stata una finta battaglia, ingaggiata soltanto per poter dire di averla vinta.

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».

Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.

Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.

Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.

I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.

Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).

Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.

I rebus della politica industriale

I rebus della politica industriale

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Per riformare «non basta dire no» ai no – a eliminare l’articolo 18, a ridimensionare l’obbligatorietà dell’azione penale, a privatizzare i servizi dei comuni. Bisogna ottenere il sì di chi chiede interventi che valgano a farci uscire dalla stagnazione. E per il riformatore può perfino essere più facile isolare i no che prospettano i disastri che altrimenti si produrrebbero, che rispondere ai sì, e ottenere i miracolosi risultati che ci si aspetta dall’adozione di certe politiche. Tra queste una delle favorite è la «politica industriale».

In passato, si dice, siamo riusciti ad agganciare i paradigmi industriali: la macchina a vapore applicata da Sommeiler alle pompe per far passare treni sotto i monti, il motore asincrono con Ferraris, quello a scoppio con la Fiat, la radio con Marconi, il polipropilene con Natta. In questa carrellata non manca mai il richiamo all’Olivetti, ed è perlopiù sbagliato: il culmine del successo l’Olivetti lo raggiunse con la Divisumma che, con un primo costo variabile sotto le 30.000 lire, veniva venduta a un prezzo vicino a quello di una 500. Tanti si arrovellano sulle ragioni per cui il mainframe Elea non riuscì a battere IBM, ma pochi ricordano che non ci riuscì nessuno in Europa, né ICL, né Philips, né Bull, né Siemens: tutti errori di «politica industriale»? In Germania c’è un leader mondiale del software (la SAP) e in Italia no: nessuno lo ricorda ma ha i suoi perché, e hanno a che fare anch’essi con la «politica industriale».

Essa si regge su un presupposto teorico: che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo. Una contraddizione in termini, perché è proprio dall’imprevedibilità che viene la spinta a innovare, dall’aleatorietà quella a investire, dalla molteplicità dei modi per organizzare la produzione quella di sperimentarne di nuovi. Non c’è neppure un modo unico di scoprire ex post le ragioni dei successi, e di generalizzare le regole che li favoriscono: come dimostra l’esistenza di molte società di consulenza, in concorrenza tra loro.

Tolto dalla scena l’imprenditore schumpeteriano, diventa però necessario sostituirlo con qualcuno che abbia (innate?) le conoscenze e la preveggenza per identificare i settori che potranno contribuire allo sviluppo del Paese. Nessuno vi ha investito in modo adeguato? «Fallimento di mercato», è evidente, a cui rimediare con sovvenzioni dello Stato e protezione dalla concorrenza «selvaggia». D’altra parte l’innovazione la può fare solo lo Stato, in tutto il mondo è sempre stato così, se non c’era lo Stato, l’iPhone Steve Jobs manco se lo sognava, parola di Mariana Mazzucato – come? non avete ancora letto «Lo stato innovatore»? C’è un’inevitabile consequenzialità nel succedersi dei passaggi, tutto discende dalla decisione iniziale, di identificare i settori. Che poi, a ben vedere, prima non è: infatti chi avrà il potere di identificare l’identificatore? La «politica industriale» presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica.

Molti pensano che Mario Draghi a Jackson Hole avesse in mente il surplus di bilancio tedesco quando ha proposto di usare tutta la flessibilità consentita dai trattati. Se pure Angela Merkel lo vorrà leggere in tal modo, c’è da scommettere che anche in Germania si alzerà la voce di chi quel surplus vorrà spenderlo non, ad esempio, riducendo le imposte, ma mostrando i muscoli della «politica industriale». Anche il piano di investimenti infrastrutturali da 300 mld di euro enunciato dal presidente Jean-Claude Juncker, ha lo scopo dichiarato di stimolare la domanda aggregata, ma di fatto è anch’esso un piano «politica industriale». Come tale soggetto alle inevitabili contraddizioni: come stimolare il mercato senza lasciare spazio alla sua capacità di scoperta, come farlo crescere senza le virtù e i difetti dell’imprenditore, come selezionare senza la concorrenza; nel caso specifico poi, come districare il groviglio di problemi di ripartizione e di coordinamento tra Paesi.

Nell’attesa del grande stimolo europeo, il governo Renzi cerca di stimolare la nostra economia con il decreto sblocca Italia. Sarà perché non siamo abbastanza keynesiani, come dice Krugman (che evidentemente di italiano legge solo il blog dell’Istituto Bruno Leoni), sarà perché 140 caratteri sono pochi per complessi progetti costruttivisti, in ogni caso si tratta di provvedimenti sparsi, senza neppure il tentativo di venderli come «politica industriale». Ma hanno lo stesso presupposto ideologico: che «loro» sappiano meglio di «noi» a che fine e come spendere i nostri soldi. Che si tratti di posa di cavi per la banda larga, di porti, di ecobonus o sisma-bonus, di acquistare e affittare immobili ristrutturati, ogni «semplificazione» ha come target il suo interesse rilevante. Non è una nuova «politica industriale»: è la vecchia che non è mai finita.

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Stop all’austerità, sì alla crescita: è il motto dei referendum per abrogare parti della legge che attua il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Iniziativa per più versi singolare: non è impresa da poco raccogliere le firme; è controverso che sia “referendabile” una legge approvata con speciali modalità; il pareggio di bilancio è da sempre una bandiera della destra e tra i proponenti ci sono persone che della destra sono stati esponenti di rilievo. E soprattutto si vogliono togliere obbiettivi di bilancio più gravosi di quelli europei: ma non era l’Ue a strangolarci?
Non è austerità il pareggio di bilancio: anche la nuova formulazione, dopo che quella del vecchio art. 81 aveva consentito il formarsi di uno dei maggiori debiti al mondo, consente elasticità per tener conto del ciclo. Il trattato di Maastricht ne fissa il limite nel 3% del Pil, oltre scatta la procedura di infrazione: rispettare quel limite di elasticità viene chiamato austerità. Quanto al debito, doveva essere il 60% del Pil, siamo a più del doppio, abbiamo firmato un trattato che ci impegna a rientrare in 20 anni: rispettare quell’impegno è chiamato austerità. Certo è diverso ripagare i debiti quando l’inflazione è al 2% e la crescita al 3% reale, o quando inflazione e crescita sono entrambi prossimi a zero. Quindi all’inflazione ci pensi la Bce, alla crescita i governi dell’Europa, rendendosi conto che questa è una crisi da domanda, da cui è possibile uscire con interventi che la stimolino: non riconoscere questa soluzione è “austerità”. Ma siccome fare debiti nuovi per meglio pagare quelli vecchi è un’idea che i creditori potrebbero trovare stravagante, si cerca di trovare come, e a spese di chi, sforare sui vincoli senza far sorgere dubbi. Così Paolo Savona sul Sole 24 Ore, considerando che per noi sarebbe un suicidio obbligarsi a decenni di avanzi primari, propone che l’Italia abbatta il debito vendendo cartelle di una maxiprivatizzazione da 400 mld. Jean Claude Juncker, per avere i voti socialdemocratici, promette di spendere 300 mld in infrastrutture. Ma le privatizzazioni dànno soldi veri solo se chi compera può liberamente disporre dei beni acquistati; per le infrastrutture bisogna che i soldi spesi ritornino come profitti.

È un problema di domanda? In Europa, può darsi; da noi, fuor di dubbio che c’è (soprattutto) un problema di offerta. È da prima dell’euro che abbiamo incominciato a perdere competitività: ci stupiremmo se i soldi dello stimolo venissero spesi a comperare Bmw anziché Thesis? Il divario di produttività verso l’estero varia da settore a settore, con picchi di eccellenza e diffusi ritardi, ma quella totale dei fattori grava su tutta la nostra economia, e dipende molto dalla qualità dei servizi pubblici, nazionali e locali. Misure anticicliche potranno esserci utili, riforme strutturali sono essenziali. Non possiamo confondere. Invece c’è chi ha interesse a farlo: perché così i lamenti per i sacrifici che inevitabilmente le riforme comportano vengono a fare tutt’uno con quelli per l’austerità; e perché gli stimoli per contrastare l’austerità possono essere dirottati a evitare riforme.
Un anno fa, l’Istituto Bruno Leoni aveva pubblicato un’idea per uno stimolo, firmata da Natale D’Amico e Alberto Mingardi. Uno schema preciso: un taglio per tre anni di fila delle imposte sui redditi, finanziato con privatizzazioni di pari entità, 30 miliardi l’anno per 3 anni. Nessuna modifica all’elevato grado di progressività del sistema tributario. Dopo tre anni, l’entità da rifinanziare non sarebbe più di 30 mld l’anno: i soldi, ancor più se non intermediati dallo stato, ma messi direttamente nelle mani dei cittadini, avrebbero prodotto benefici per l’economia e per l’erario, come sostengono i promotori degli stimoli. Nel frattempo ai proventi da dismissioni dovrebbero essersi aggiunti anche i risparmi da spending review. Tanto privatizzazioni da 30 mld per tre anni? Il doppio dell’1% previsto dal governo, ma meno di un quarto dei 400 di Savona. Ci saranno da modificare assetti societari, contratti di lavoro, disposizioni di legge. Garantire la contemporaneità tra ricavi e spese sarà impossibile: ma un programma serio e dettagliato troverebbe orecchie attente. Il vero problema è politico: è sostenibile, è credibile un impegno che si estende su un arco di tre anni? Appare evidente come le riforme istituzionali che riducano le tortuosità del processo legislativo e rafforzino l’esecutivo sono condizione indispensabile per le riforme di struttura. E per superare l’austerità.

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Le buone idee di Calenda e le coalizioni di Renzi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Dire che i dibattiti su flessibilità e crescita sono rimasti finora su piano dell’indeterminatezza, come scrive Carlo Calenda sul Sole di martedì, è un eufemismo: sarebbe più esatto dire dell’ambiguità, ambiguità voluta, in modo da poter presentare l’esito di una discussione nel modo politicamente più conveniente. L’idea è di scrivere un Piano industriale per l’Italia, inteso come aumento della competitività dell’offerta e non come stimolo della domanda, agendo quindi sulle condizioni al contorno. Riforma del lavoro, struttura della legge fallimentare, eliminazione dell’Irap, «il tanto che si può ancora fare sul tema delle utility nazionali e locali» (ancora?), spending review e analisi delle procedure di ogni singolo dicastero. Per chi questi temi li ha tante volte evocati vederli autorevolmente sostenuti è motivo di soddisfazione ma anche di perplessità.

Perché ai grilli parlanti il Governo può anche non rispondere, ma quando a parlare è il viceministro dello Sviluppo economico in carica, non può non rispondere a chi gli chiede: scusa, a che punto siamo? E non si dica che la carne al fuoco è tanta, che le Camere sono ingolfate dalle riforme costituzionali e istituzionali, che ci sono centinaia di decreti attuativi da approvare (come se questa fosse una scusa): in politica, è sempre politica la causa per cui non si fa una cosa. Il ddl di semplificazione delle leggi sul lavoro è stato presentato da Pietro Ichino: sicuro che la maggioranza sarebbe compatta nel votarlo? Quanto all’articolo 18, basta nominarlo che partono i fumogeni. E non mi risulta che il premier Renzi li abbia inclusi nei provvedimenti su cui si gioca la testa.

Parliamo di imposte. Nella lunga intervista pubblicata domenica scorsa dal Corriere della Sera, Matteo Renzi dice che vorrebbe allargare la platea di chi riceve gli 80 euro al mese anche a «famiglie, partite Iva, pensionati»; Calenda ricorda l’abolizione dell’Irap; e l’Unione europea si sta muovendo per la riduzione del cuneo fiscale. Come finanziare tutto questo senza imporre nuove tasse? Il premier, a proposito di debito pubblico, ha lasciato cadere un riferimento alle ricchezze dei cittadini, (oltre che un pesantissimo affondo sulle banche) che non è certo servito a migliorare le «condizioni al contorno», come le chiama Calenda. Le imposte – commenta Angelo Panebianco – sono il tabù della sinistra. Tagliare gli stipendi dei politici, come si vanta di aver fatto Matteo Renzi porta qualche voto ma pochi soldi. E su quanto si possa ottenere con i tagli veri, sia da spending review sia da analisi del funzionamento dei dicasteri, si sta sempre nel vago. Tanto da far venire il dubbio se sia perché non si sanno individuare gli sprechi o perché spaventano le riduzioni del personale che inevitabilmente ne conseguirebbero: se per gli esuberi di Alitalia alcuni sindacati sembrano disposti a seminare di mine anche l’ultima spiaggia, figurarsi che cosa succederebbe se si dovessero toccare Sanità o Pubblica istruzione. O Poste, per restare in campo aeronautico.

La diligente razionalità del “piano” di Calende mette ancora più in evidenza la complessa varietà dei temi con cui deve fare i conti il progetto di Renzi. Di un piano si chiede lo stato di avanzamento, di un progetto politico ci si interroga sulla sostenibilità: a quale maggioranza si rivolge Renzi, e quale è il programma che pensa di riuscire a farle approvare? La maggioranza, in Parlamento e nel Paese, che ha sostenuto il Renzi istituzionale, quello della cesura verso le nomenclature di partito, verso l’ideologia dell’antiberlusconismo, verso lo stallo in cui erano finite le riforme istituzionali e costituzionali, è diversa dalla maggioranza, in Parlamento e nel Paese, di cui ha bisogno il Renzi governante: lo sosterrà qualora le dovesse proporre riforme che negano alcuni principi base della sinistra, la redistribuzione fiscale, la solidarietà in tema di immigrazione, il potere dello stato di controllare l’andamento economico? Sosterrebbe riforme come quelle che hanno fatto Tony Blair e Gerhard Schroeder? O non è invece più probabile che Renzi sia indotto a percorrere strade più tradizionali?
Alla fine il risultato potrebbe essere che la maggioranza che ha consentito a Renzi di arrivare al governo del Paese, e che ha anche accettato i compromessi necessari per portare in porto le “grandi” riforme, si trovi a essere governata dalla solita “normale” socialdemocrazia.