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I compiti a casa dell’Italia

I compiti a casa dell’Italia

Bruno Vespa – Il Mattino

A scuola i primi della classe non sono mai stati troppo popolari, a meno di una visibile generosità nei confronti dei compagni. Angela Merkel non ha questa fama. Perciò la risposta piccata («Fate i compiti a casa») all’annuncio che la Francia sarebbe rientrata soltanto nel 2017 nel limite del 3 per cento tra deficit annuale e prodotto interno lordo non è stata gradevole. Non siamo sicuri peraltro che l’invito – apparentemente senza destinatario – non riguardasse anche l’Italia, che resta sotto il 3 per cento, ma non scende vicino al 2 come avrebbe dovuto e soprattutto ha rinviato al 2017 l’applicazione del pareggio di bilancio. (La lettera inviata dalla Banca centrale europea a Berlusconi il 5 agosto 2011 anticipava al 2013 questo vincolo previsto inizialmente per il 2014). A parte un debito pubblico elevatissimo (ma di cui abbiamo sempre pagato le rate degli interessi), l’Italia ha i conti più in ordine della Francia, a cominciare dall’avanzo di bilancio pubblico positivo, (più entrate che spese, al netto degli interessi) che la mette in testa alla classifica del G7 insieme proprio con la Germania. Sulla Francia pesa inoltre il tabù delle 35 ore, del tutto anacronistico nel mondo globalizzato, la mancata riduzione della spesa pubblica di 50 miliardi, un mercato del lavoro senza i vincoli del nostro articolo 18, ma complessivamente ancora ingessato.

Matteo Renzi ha subito espresso la propria solidarietà a Hollande ricordando di guidare il più votato partito europeo e di rispettare il vincolo del 3 per cento. Questa mossa lascia intendere che i due paesi nelle prossime settimane rammenteranno alla prima della classe che compiti a casa pesanti come quelli assegnati alle nazioni in difficoltà, se non svolti un poco alla volta, rischiano di ammazzare anche lo studente più volenteroso. (E l’Italia lo è più della Francia). Ma proprio perché ha il debito così alto, l’Italia deve presentarsi al confronto con i compiti fatti meglio della Francia, più forte di noi per ragioni storiche, politiche, strategiche e perché l’euro è nato da un accordo tra Mitterrand e Kohl per dimenticare il sangue procuratosi a vicenda negli ultimi due secoli.

Qui casca l’asino della riforma del lavoro. Per chetare la sinistra del suo partito, Renzi ha promesso che nel nuovo statuto del lavoro si potranno reintegrare, oltre ai lavoratori discriminati, anche quelli licenziati per ragioni `disciplinari’. Questa normativa può essere scritta in tanti modi diversi,da quella che non lascia margini interpretativi a quella che consente di vanificare l’intera riforma dell’articolo 18. Il Nuovo centrodestra ha già fatto sapere al presidente del Consiglio che su questo punto sarà inflessibile, anche perché sente il fiato sul collo di Forza Italia, a sua volta costretta ad irrigidirsi da una rivolta interna antigovernativa che va ben al di là del caso Fitto (basta leggere in controluce i franchi tiratori nelle elezioni alla Corte costituzionale). Se vuole presentarsi al vertice sul lavoro dell’8 ottobre con un testo non ancora votato, ma radicalmente diverso dal passato, Renzi sarà costretto stavolta ad ascoltare più Alfano che Bersani. Guai a sedersi al tavolo in cui ciascuno presenterà i compiti a casa con un tema scritto con calligrafia cattiva e incomprensibile.

Per l’Europa il tempo di una svolta è adesso

Per l’Europa il tempo di una svolta è adesso

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Dire che l’Europa è sull’orlo del collasso è dire poco. Più realisticamente si potrebbe notare che nel collasso si è già auto-catapultata da anni, a cominciare dagli errori di gestione sul caso-Grecia. O, forse, bisognerebbe ammettere che la scommessa di partire da un’unione monetaria per arrivare a quella politica, cioè il contrario esatto di quello che storia, economia e logica suggerivano, è perdente e presenta il suo conto tremendo.

Fatto è che dopo lo “strappo” sul bilancio della seconda economia dell’eurozona, la Francia, hanno parlato la terza (cioè l’Italia) e la prima (la Germania). «Io sto con Hollande, noi rispetteremo il vincolo del 3% ma Parigi ha ragione», ha detto il premier Renzi in trasferta a Londra dove ha saldato un nuovo asse anti-austerity con la Gran Bretagna di David Cameron, paese che è fuori dall’eurozona. «Dovete fare i compiti e rispettare gli impegni», ha tagliato corto la Cancelliera tedesca Angela Merkel rivolta a Parigi e Roma. «Non ci tratti da scolari», ha risposto Renzi. Ecco, questa è oggi l’Europa. Non bastasse, da Napoli è arrivata la conferma, via Bce, che la politica monetaria, nell’eurozona dei maestri e degli studenti discoli, non può fare da supplente e risolvere problemi che non sono alla sua portata, come più volte ricordato da Mario Draghi. I mercati hanno preso atto, Milano è caduta a picco.

Delle due l’una. O l’Europa, Berlino in testa, mette in campo una nuova politica economica che a partire dagli investimenti necessari e da una riconsiderazione delle regole di governance sia capace di ribaltare le prospettive dell’economia reale o collassa definitivamente. Mercoledì 8 ottobre si terrà a Milano il vertice europeo sul lavoro. Siamo nel semestre di presidenza europea a guida italiana, cioè della coppia Renzi-Padoan, sul quale erano state costruite, sbagliando, aspettative di successo enormi. Il minimo che si possa fare ora è lavorare per una sterzata, chiara nei modi, nei tempi e nelle risorse, a favore della crescita. Il minimo, che è poi la vera enormità, per non condannarsi al crac, nell’interesse dell’Europa e anche del nostro.

Renzi non si accodi a Hollande

Renzi non si accodi a Hollande

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Renzi sembra quella di accodarsi alla Francia nel chiedere flessibilità per il bilancio 2015 e seguenti. Una tentazione diabolica per un cattolico praticante (sempre Renzi) che si batte il petto tutte le domeniche. È come recarsi alle corse dei cavalli e puntare sul perdente. Una follia. Quando è cominciata l’avventura presidenziale di Renzi, l’abbiamo scritto con insistenza: era necessario creare un fronte dei paesi per i quali necessitano misure speciali di sostegno, in modo che la Merkel e l’Europa fossero costretti a trattare. Invece no. A Bruxelles il nostro «boy-scout» s’è pavoneggiato di un’intesa, tutta da verificare, con la cancelliera tedesca e ha inciso come può incidere un piccolo moscerino sulla pelle di un cavallo da tiro.

Quando s’è trattato di discutere gli incarichi nella Commissione si è autolimitato designando l’inesistente Mogherini che, in quanto tale, è stata accettata dopo qualche piccolo mal di pancia. Se Moscovici, commissario francese agli affari economici, mette le mani avanti evocando le difficoltà che incontrerà sul dossier francese, figuriamoci la nostra commissaria (alta) alla politica estera e di sicurezza. Dobbiamo confessare che, leggendo i triboli della Francia, abbiamo pensato ai risolini a proposito dell’Italia (dell’Italia, non di Berlusconi) del duo Sarkozy-Merkel in una famosa conferenza stampa e non ci siamo dispiaciuti delle difficoltà transalpine.

Si tratta di «mal italiano», cioè dell’assenza delle riforme liberamente convenute in sede europea con l’approvazione del «Fiscal compact» e delle conseguenti direttive. La cura francese aggraverà la malattia, visto che si pensa di combattere la recessione con deficit ben al di fuori del 3% tabellare. Ecco, l’inesperienza e la supponenza potrebbero condurre Matteo Renzi sulla strada del disastro. Il sistema di dichiarare «fatte» le riforme approvate, anche in semplice cartellina, dal consiglio dei ministri è ormai al capolinea.

La legge di stabilità metterà una parola definitiva, almeno per il 2015, alle evoluzioni verbali del nostro «premier»: certo, nell’attuale situazione, sarà difficile che l’Unione nomini tre commissari (la Troika) per governare il risanamento delle finanze pubbliche italiane e per aggredire il debito pubblico. La soluzione che sembra consolidarsi nei corridoi di Palazzo Berlaymont (sede dell’Ue), in vista dell’insediamento della nuova commissione, consiste in un cronoprogramma vincolante di riforme (definite nei loro contenuti minimi, in modo che il teatrino dell’art. 18 non possa più ripetersi). Rispetto a esso, il governo e il Parlamento italiani hanno solo il compito di procedere con rapidità effettiva, trasformando in modo sostanziale la struttura socio-economica della Nazione. Il mercato «tout-court», cioè la concorrenza vera, le strutture pubbliche, protette e deficitarie, il welfare, la sanità, l’idrovora regioni. Insomma un’azione seria condotta a tamburo battente, pena, appunto, il ricorso ai commissari.

Saranno capaci questo governo e questo Parlamento di affrontare e vincere la sfida? C’è da dubitarne, visto il livello e, soprattutto, i condizionamenti di un passato che non ci si decide a seppellire. La verità vera è che, comunque, fra breve il passo cambierà. Resta da capire chi sarà protagonista del cambiamento, dato che le cicale politiche italiane risultano, sin qui, incapaci di trasformarsi in formiche.

L’asse fragile con la Francia

L’asse fragile con la Francia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un punto che accomuna le due capitali, è piuttosto il tentativo di non soffocare un’economia già debole con un’ulteriore stretta ai conti. Entrambi i leader, Matteo Renzi e Hollande, sono in cerca di investimenti, consumi delle famiglie, un qualche segno di ripresa all’orizzonte. Ma entrambi stanno toccando con mano lo stesso limite: nella loro situazione di fragilità, c’è ormai pochissimo che i due governi nazionali possono fare per far ripartire la domanda nell’immediato. Per l’Italia provare a farlo con il deficit, o mettendo in tasca ai lavoratori gli accantonamenti pensionistici nelle aziende, è un gioco ad altissimo rischio e rendimento minimo. La spinta alla domanda ormai spetta quasi solo a dei progetti europei, alla Bce, all’euro che si svaluta o a una eventuale svolta della Germania. Renzi e Hollande possono solo pensare a modernizzare i propri Paesi, a metterli al passo con l’economia globale del ventunesimo secolo. Ed è qui che avanzano, in questo davvero insieme, come nella giungla di notte.

Se l’Italia seguisse le orme di Parigi sul deficit il suo debito salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo. Se l’Italia pagasse interessi sul debito come la Francia, sarebbe la Germania. E se la Francia pagasse interessi sul debito come l’Italia, sarebbe sul punto di chiamare la troika. Naturalmente niente di tutto questo succede nella realtà, ma la situazione nei due Paesi è tanto simile in superficie quanto diversa a una seconda occhiata. I due governi hanno molti degli stessi problemi e delle stesse idee, ma non hanno interesse a prendersi l’un l’altro a modello. Parigi gestisce un esercizio di bilancio anche più fragile di quello italiano, stando ai dati della Commissione Ue. Prima ancora di pagare gli interessi su un debito che ormai sfiora il 100% del Pil, il governo francese è già in rosso di oltre l’1,5% del prodotto lordo. L’Italia invece è in surplus di bilancio quasi quanto la Germania (almeno per ora), cioè di oltre il 2% del Pil prima di onorare le cedole sui suoi titoli di Stato e gli altri strumenti di debito. Se la Francia non ha un deficit ancora più alto, una dinamica del debito ancora più esplosiva e costi di finanziamento delle imprese più insostenibili, è per un solo motivo: paga tassi d’interesse più bassi dell’Italia e allineati a quelli tedeschi.

Ancora oggi, dopo anni di compressione degli spread fra i vari Paesi dell’euro, i titoli a dieci anni della Francia rendono ben 100 punti-base (cioè l’1%) meno di quelli italiani. Nella psiche degli investitori, Parigi è ancora assimilata con Berlino come nucleo base del progetto europeo. In quei prezzi di mercato così simili fra le due capitali è racchiusa l’identificazione politica fra i due grandi Paesi dell’area e l’idea che la Germania potrà sì lasciar cadere l’Italia, la Spagna o la Grecia; ma il suo alleato sull’altra sponda del Reno, questo mai. Viene di qui la storica riluttanza di tutti i governi di Parigi a effettuare un vero cambio di alleanze, ammesso che davvero il gioco europeo funzioni così. Se l’Eliseo cercasse di saldare un presunto «asse» con Palazzo Chigi, in contrasto con Berlino, gli investitori ne prenderebbero atto e tratterebbero la Francia di conseguenza: i tassi d’interesse sul debito di Parigi si allontanerebbero da quelli tedeschi, si avvicinerebbero a quelli italiani, e gli equilibri dell’economia transalpina salterebbero.Questa Francia così poco competitiva, così minacciata dal Front National di Marine Le Pen, può resistere solo se assimilata dal mondo esterno al «nucleo duro» d’Europa. Non alla cosiddetta «periferia».

Allo stesso tempo, neanche il governo di Roma ha interesse a seguire le orme di François Hollande. È vero che se l’Italia avesse un costo del debito «francese» – al 2,5% e non al 5% del Pil – il suo deficit scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia, paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda.

Ma adesso tocca ai governi

Ma adesso tocca ai governi

Stefano Lepri – La Stampa

Ora dipende davvero da François Hollande e da Matteo Renzi se l’Europa si rimetterà in movimento. Non soltanto perché Italia e Francia hanno entrambe un gran bisogno di riformarsi per uscire dalle attuali difficoltà economiche: anche perché non c’è altro modo di rompere una altrettanto deleteria immobilità, quella della Germania. Mario Draghi con la sua mossa a sorpresa di ieri ha fatto tutto quello che poteva, nella situazione data. I mercati temevano che non fosse in grado di tradurre in atti le parole del suo discorso del 22 agosto in America; discorso che era parso al mondo (tranne che a molti tedeschi) innovativo e all’altezza della gravità della crisi. Invece ci è riuscito.

Ma proprio a Jackson Hole sulle Montagne Rocciose il presidente della Bce aveva anche detto chiaro e tondo che per far ripartire l’economia del nostro continente non bastano gli strumenti a sua disposizione. L’attuale circolo vizioso di inflazione troppo bassa e di ristagno produttivo, lo ha ripetuto anche ieri, richiede azioni di tipo nuovo da parte dei governi. Occorrono sia riforme incisive sia cambiamenti nelle politiche di bilancio. In Francia e in Italia sono prioritarie le prime; la Germania potrebbe procedere senza rischi a misure espansive dato che hai conti pubblici in ordine. Mentre a Roma e a Parigi si esita o si procede a fatica, dando a parole ragione a Draghi, Berlino per la parte propria resta del tutto ferma. Il suggerimento del capo della Bce è ora di discutere prima le riforme e poi una maggiore flessibilità delle politiche di bilancio per tutti i Paesi euro; logico da parte di un economista abituato ad analizzare come si formano le decisioni dei governi (senza buoni incentivi è facile sbagliare). Se si vuole, è anche politicamente astuto, perché in caso contrario – occorre essere realisti – non si andrebbe avanti.

La Bce non ha compiti politici, dunque è sbagliato raccontare le sue mosse con termini da cronaca politica, come si fa solo in Italia (Draghi ieri ha dovuto ovviamente smentire di aver proposto un «grande patto» ai governi). Tuttavia, far funzionare meglio l’economia europea è uno scopo comune per il quale bisogna interagire, ed è politico in senso alto. La Germania non vuole muoversi perché da un decennio il suo modello economico funziona meglio; le ha fatto finora attraversare la crisi con pochi danni, attorno ad esso si è consolidato un equilibrio politico interno. Dunque squadra che vince non si cambia. Ma è un brutto segno che da lì ora vengano molte reazioni scandalizzate alle novità di Draghi, scarse proposte alternative; insomma povertà di idee sul futuro.

Un ripensamento sta iniziando, a partire anche da esponenti di rilievo del mondo industriale e bancario tedesco: perché mai non investire di più in scuole e strade, perché mai non compiere passi avanti nella solidarietà europea. Incontra molte resistenze. Si bloccherà se continuerà a valere la scusa che in Francia e in Italia non cambia nulla.

Le decisioni di ieri adattano all’Europa, dove la finanza e centrata sulle banche, ricette sperimentate dalla Federal Reserve, dalla Banca d`Inghilterra, dalla Banca del Giappone. Uscite da un compromesso nel consiglio riunito al trentaseiesimo piano dell’Eurotower, paiono in Germania rischiose, a taluni eccessive; nel resto del mondo ci si chiede se saranno sufficienti. Ora le banche avranno molti più soldi da prestare, ai tassi di interesse più bassi della storia: basterà a convincere le imprese ad investire? Può darsi che la Bce si sia mossa tardi. In ogni caso non ce la farà da sola a stimolare la ripresa. È inevitabile seguire lo schema in due tempi proposto da Draghi. Occorre che i due tempi siano i più ravvicinati possibile.

Il cono di Renzi che gli inglesi si sognano

Il cono di Renzi che gli inglesi si sognano

Gaetano Pedullà – La Notizia

Che simpaticoni i colleghi del settimanale inglese The Economist. Nell’ultima copertina hanno messo un Matteo Renzi col gelato in mano accanto a un Hollande (inspiegabilmente cresciuto di statura) e alla Merkel su una banconota dell’euro a forma di barchetta che affonda. Alle loro spalle un Mario Draghi che cerca di tenere tutti a galla raccogliendo l’acqua col cucchiaino. Da Londra, che ancora non ringrazia abbastanza i suoi leader politici per essersi tenuti stretta la sterlina, è fin troppo facile fare ironia su questa Europa di cartone. Un’unione burocratica di Paesi divisi su tutto con una sola cosa in comune: la moneta. Inevitabile che affondi. Si capisce poco, invece, cosa c’entra il nostro premier col gelato in mano, così come l’ha immaginato il suo amico (o forse ex?) Diego Della Valle in una battuta dai più già dimenticata. Che bellezza la libertà di critica e di fare ironia (su questo giornale ne facciamo uso a vagonate) e lungi l’intenzione di essere bacchettoni. Ma prima Berlusconi perché era Berlusconi, adesso Renzi non si capisce bene perché, ogni volta è l’Italia e non i singoli primi ministri che vengono messi alla berlina. E si fa anche bene perché oggi i giornali nemici del governo si getteranno sull’osso per dimostrare che il nostro premier ha perso credibilità in Europa, mentre quelli più vicini a Palazzo Chigi minimizzeranno la cosa o sosterranno che questa è l’eredità di anni di cattiva politica. Mancherà la capacità di sostenere insieme che noi siamo l’Italia e gelati buoni come i nostri a Londra se li sognano. Ci pensassero prima di prenderci in giro.