gian maria de francesco

Italia ultima per libertà fiscale, siamo massacrati dalle tasse

Italia ultima per libertà fiscale, siamo massacrati dalle tasse

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Nel campionato europeo delle tasse l’Italia occupa l’ultima posizione. La classifica è stata stilata dal Centro studi ImpresaLavoro che ha pubblicato la seconda edizione dell’Indice della libertà fiscale, un monitor che consente di paragonare tra loro i 28 Paesi dell’Unione europea più la Svizzera quanto a invadenza dello stato nelle attività economiche dei cittadini e delle imprese attraverso la leva del fisco.

L’indice è stato elaborato sulla base dei dati Eurostat e del rapporto Doing Business della Banca mondiale e analizza sette diversi indicatori, ciascuno dei quali comporta l’assegnazione di un punteggio. La somma delle valutazioni ricevute in ogni categoria restituisce la classifica finale che vede l’Italia tristemente ultima con 39 punti. Nell’area dei Paesi fiscalmente oppressi – con un punteggio inferiore a 50 – si ritrovano anche Danimarca (49), Grecia (48), Austria (45), Francia (44) e Belgio (41). La prima impressione che se ne ricava, dunque, è che i Paesi nell’area euro, indipendentemente dalla loro collocazione tra i «buoni» o i «cattivi» siano più in difficoltà rispetto al resto del Vecchio Continente. Prova ne è che anche Germania (52), Spagna (54) e Olanda (56) non stiano messi molto meglio. In cima alla classifica, infatti, troneggiano economie sviluppate che non hanno perso la propria sovranità monetaria. Svizzera (75), Regno Unito (65) e Svezia (60) figurano tra le nazioni fiscalmente più libere. Le eccezioni dell’area euro sono, invece, rappresentate da Paesi che hanno una fiscalità meno esosa proprio per attrarre imprese e, soprattutto, patrimoni, come Irlanda (74) e Lussemburgo (68).

Resta da chiedersi, comunque, il perché di questo specifico tutto italiano. La particolarità dell’analisi effettuata dal Centro studi ImpresaLavoro è, infatti, nel non essere basata su luoghi comuni (ricreati ad arte tramite statistiche) né su eccessi di idealismo. Non si vagheggia un sistema fiscale perfetto ma si individuano, appunto, sette parametri o benchmark. Se ben sette Stati tra i quali Svizzera, Lussemburgo, Croazia e Irlanda riescono a tenere la tassazione delle imprese sotto il 30%, allora questo obiettivo non è irrealizzabile. E se non è irrealizzabile, è lecito chiedersi perché l’Italia continui a vessare gli imprenditori con un tax rate del 64,8% che non invoglia certo a fare business. E soprattutto viene da chiedersi perché l’Italia sia ultima per costi degli adempimenti burocratici per pagare le tasse (7.559 euro) staccando pure la Germania (7mila euro circa) e il Belgio (6.295 euro). A questi costi si aggiunge la perdita di tempo (e di danaro) per pagare le tasse (269 ore annue): solo in Europa dell’Est le procedure sono più farraginose delle nostre. E se si mettono questi risultati assieme alla pressione fiscale complessiva sul Pil (43,6% nel 2014) si osserva come solo la Francia e il Belgio siano messi peggio. L’insieme di questi dati finora osservati non è solo un termometro dell’invasività fiscale, ma una spia della perdita di competitività generale del nostro Paese. Un’Italia che dal 2000 al 2014 ha visto l’incidenza delle tasse sul prodotto interno lordo aumentare di 3,6 punti percentuali regalando agli altri partner europei un vantaggio di cui hanno saputo approfittare. Con buona pace di Renzi.

Scarica l’articolo in formato Pdf

«Ora investire in sicurezza»

«Ora investire in sicurezza»

di Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco

Una delle prime reazioni dopo gli attacchi di Parigi e di Bruxelles è stata l’invocazione di una maggiore spesa pubblica nei settori sicurezza e difesa, spesso esposti a tagli da parte dei governi europei perché si tratta di costi facili da aggredire (l’ottusità di chi invoca la pace a tutti i costi ha semplificato il lavoro dei governanti). Ma davvero impiegare le nostre tasse per aumentare la nostra percezione di un ambiente sicuro e meno esposto alle insidie del terrorismo islamico può risolvere la questione quando l’Isis ha messo anche Internet tra i suoi obiettivi? La risposta è no e lo spiega bene Edward Marsh, direttore Aerospazio Sicurezza & Difesa della società di consulenza americana Frost & Sullivan.

Continua a leggere sul sito de “Il Giornale”

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il certificato di malattia è uno degli stratagemmi più utilizzati per allungare il weekend. È quanto emerge dai dati dell’osservatorio statistico dell’Inps che hanno messo in evidenza come nel 2014 un italiano su tre si sia ammalato di lunedì. La distribuzione del numero degli eventi malattia per giorno di inizio l’anno scorso è stata simile sia nel settore pubblico che in quello privato. Il primo giorno della settimana si sono registrati 2.576.808 eventi nel privato e 1.325.187 per la Pa, pari rispettivamente al 30,2% e al 27,2% del totale. Il sospetto che il certificato medico possa essere utilizzato per godere di un «meritato» riposo è giustificato dalla distribuzione degli eventi malattia per classi di durata. Se si guarda a quelli compresi da uno a tre giorni, si registrano 3,7 milioni di casi nelle aziende (43% del totale) e oltre 3 milioni (62%) nel comparto statale e parastatale. Il dubbio, pertanto, è più che legittimo.

Cadere nella trappola dei luoghi comuni è facile. Purtroppo i numeri certificano quella che è un’opinione abbastanza condivisa: i dipendenti pubblici non paiono eccessivamente «attaccati» al loro posto di lavoro. Essi, infatü, tendono ad ammalarsi il doppio rispetto ai loro colleghi che lavorano nelle imprese private. I primi, infatti, hanno consumato 31,5 milioni giornate di malattia contro i 77,2 milioni dei loro colleghi. Ma se si considera che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni in Italia sono circa 3,2 milioni, mentre coloro che lavorano nel privato sono circa 14 milioni, si vede bene come l’incidenza di malattie e infortuni sia di gran lunga superiore, osserva il Centro studi Impresa Lavoro. Le assenze medie sono, infatti, di 10,5 giorni da una parte e di 5,67 giorni dall’altra.

La Lombardia è in testa alla classifica delle assenze sia per il settore privato (894.175 lavoratori; 22% del totale). Quanto invece ai casi di malattia, seguita da Veneto, Emilia Romagna e Lazio (poco più del 10%) che nel pubblico (12,5%) dove precede Lazio (11,9%) e Sicilia (10,3%). Se, però, si guarda alla densità di occupati nel settore pubblico emerge che al Sud ove, in media, un lavoratore su cinque è al servizio dello Stato il problema assume dimensioni rilevanti. Ad esempio in Calabria circa un dipendente pubblico su tre (61mila su 191mila) l’anno scorso si è dato malato. Nel Lazio il rapporto diventa uno su due (209mila su 396mila) e cosi pure in Campania dove 3 su 5 (181mila su 293mila) hanno dato forfait almeno una volta. È un trend comune a tutta l’Italia, è vero, perché 1,7 milioni su 3,2 milioni di lavoratori della Pa sono stati malati almeno un giorno l’anno scorso. Ma nel pubblico tutto questo non è accaduto perché a marcare visita sono stati 4,4 milioni su circa 14 milioni.

Anche il comparto aziendale non è esente dal problema «furbetti»›. Ad esempio, le frequenze più alte degli eventi malattia si sono riscontrate nelle classi da 20 a 49 dipendenti (13,8%) e in quella superiore ai mille (17,7%). Da questo si evince che più è alto il numero dei dipendenti più è difficile controllare e che, in particolare, lo Stato è un pessimo controllore. «Le assenze dal lavoro nel settore privato, sopratutto nelle piccole imprese, sono limitate anche da eventuali sanzioni che arrivano dagli stessi colleghi», ha commentato il presidente del Centro studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni. «Nel pubblico impiego – aggiunge – le censure sembrano essere molto meno efficaci». Ed è difficile dargli torto: dai 25 milioni di giornate di assenza del 2011 si è ritornati in pochi anni sopra quota 30 milioni. Un chiaro segnale che l’abbandono della riforma Brunetta ha prodotto, in particolare nel Mezzogiorno, un effetto «liberi tutti».

La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Che la pacchia fosse finita molti lo sapevano o l’hanno capito leggendo i loro estratti conto, ma che un investimento in Bot o Btp potesse comportare una perdita non tutti l’hanno compreso pienamente. A ricordarlo ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro elaborando i dati delle ultime aste e confrontandoli con i precedenti relativi al triennio 2012-2014. Il combinato disposto del prelievo fiscale sui rendimenti e l’imposta di bollo comportano risultati complessivamente negativi per i risparmiatori. Il vero dramma è un altro: non esiste nessun limite alla tassazione di Bot e Btp anche in caso di rendimento negativo.
I dati sono impietosi e preoccupanti per le famiglie italiane che, secondo i dati ufficiali di Bankitalia relativi a fine 2013, hanno investito 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale) in titoli di Stato. Ma, soprattutto, è una patata bollente per il premier Matteo Renzi e per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ancora non sono intervenuti sulla materia, sebbene siano ampiamente consci del tradizionale «affetto» dell’italiano medio verso il solido Btp.
Per spiegare l’effetto perverso della tassazione conviene partire dalla fine, cioè dagli effetti che i bassi rendimenti (determinati sia dal taglio dei tassi della Bce che dal programma di acquisti di titoli di Stato di Eurolandia lanciato da Mario Draghi) e le imposte hanno prodotto sui buoni del Tesoro. Coloro che avessero acquistato 20mila euro di Bot semestrali all’asta dell’altroieri hanno lasciato sul terreno 25 euro e 60 centesimi. Di questi, 5 euro e 60 centesimi sono legati al fatto che i Bot hanno un rendimento negativo dello 0,055 per cento. Il calo dei tassi fa sì che bisogna pagare lo Stato perché custodisca i risparmi per 6 mesi anziché ricevere indietro del denaro a titolo di interesse sul prestito come accadeva un tempo. Gli altri 20 euro sono relativi all’imposta di bollo che dal 2014 è salita allo 0,2%, una mini-patrimoniale.
Questo caso particolare esclude altri due costi generalmente a carico dell’investitore in titoli di stato. Il primo è rappresentato dalle commissioni bancarie per l’acquisto dei titoli in asta (cioè quando si dà il mandato alla banca, ndr ), che tuttavia sono ridottissime o nulle se il rendimento è vicino allo zero o negativo. A questo si aggiunge il dossier titoli che è di massimi 10 euro semestrali. Se Bot e Btp offrono una cedola, lo Stato preleva il 12,5% (su azioni, fondi, altre obbligazioni e conti di deposito è del 26%) e se lo prende anche se vengono ceduti prima della scadenza conseguendo una plusvalenza.
L’analisi del Centro studi ImpresaLavoro mostra anche che in asta i Bot semestrali e annuali, nonché i Ctz, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. I Btp quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti, L’incidenza effettiva delle imposte (interessi + bollo) ha toccato, tuttavia, il 48,2% per i Btp a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i Btp a 10 anni offerti nel marzo 2015. La situazione non migliora per chi volesse comperare i titoli di Stato sul mercato telematico. I prezzi sono tutti superiori a quelli d’asta, per cui la perdita alla scadenza è già assicurata. È, tuttavia, possibile usare la minusvalenza a compensazione di futuri guadagni. Se il governo voleva spingere gli italiani a comperare azioni, ci è riuscito benissimo.
Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi

Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Senza una riduzione delle tasse il bazooka anticrisi di Mario Draghi sparerà a salve. È questo il senso di un’analisi condotta dal Centro studi Unimpresa sulla base della Nota di aggiornamento al Def. Il peso delle imposte sulle famiglie e imprese italiane tra il 2014 e il 2018 è atteso attestarsi sempre su una quota superiore al 43% del Pil, un valore decisamente incompatibile con qualsiasi prospettiva di rilancio.

Nei cinque anni dell’orizzonte previsionale del governo Renzi, l’aumento delle entrate tributarie dovrebbe attestarsi a oltre 45,7 miliardi di euro, portando il totale cumulato sopra i 2.540 miliardi. Quest’anno la pressione fiscale dovrebbe attestarsi al 43,4% del Pil (43,5% nel 2014) per raggiungere il picco del 43,6% l’anno prossimo, vista la scadenza delle clausole di salvaguardia su Iva e accise. Per poi registrare una impalpabile diminuzione: 43,3% nel 2017 e 43,2% nel 2018. Anche i valori assoluti fanno paura: la soglia dei 500 miliardi di entrate fiscali sarà avvicinata quest’anno (493,8 miliardi) per essere superata nel 2016 (508 miliardi). «La sola immissione di nuovo denaro in circolazione con il quantitative easing della Bce – spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – non può bastare a superare la dura recessione dalla quale non si riesce a uscire». Parole da Cassandra? Volontà di smorzare l’ottimismo del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ieri, intervistato da Repubblica , ha preannunciato una revisione al rialzo delle stime di crescita del Pil 2015? Nulla di tutto questo.

I 1.140 miliardi che la Bce dovrebbe immettere nell’economia di Eurolandia da marzo fino a settembre 2016 avranno, infatti, un impatto limitato sull’economia reale. Confindustria ha accolto la misura positivamente e vede addirittura un incremento del Pil italiano dell’1,8% nel biennio 2015-2016. Gli economisti di Société Générale sono stati più prudenti e credono che quei mille miliardi potranno avere un impatto compreso tra lo 0,2% e lo 0,8% annuo, direttamente proporzionale ala maggiore inflazione che si dovrebbe creare. L’inflazione rende l’ambiente più favorevole a chi si indebita, mentre il quantitative easing contribuisce a mantenere basso il livello dei tassi di interesse, garantendo un flusso continuo di denaro verso gli operatori finanziari. Se a questo si aggiunge il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, si può osservare il quadro economico con maggiore serenità.

Il problema è che per sfruttare i vantaggi offerti da una maggiore offerta di moneta (quella immessa dalla Bce con gli acquisti di titoli di Stato) bisogna essere nelle condizioni di potersi indebitare, ossia disporre di almeno un patrimonio minimo da rischiare. Ed è quello che in molti casi manca, perché la pressione fiscale mangia via le disponibilità residue di famiglie e imprese. Quello che ha scritto ieri Renato Brunetta nel suo intervento sul Giornale è solo la logica conseguenza di questo stato di cose: senza una «riduzione delle tasse, soprattutto sulla casa, e una liberalizzazione del mercato del lavoro» sarà difficile se non impossibile che lo stimolo di Mario Draghi si trasmetta all’economia reale. Molto più facile, di questo passo, che il prossimo futuro sia costituito da banche con i bilanci in ordine con poche richieste di prestiti da parte di aziende e cittadini. Cosa volete che cambi per il signor Rossi che vede il suo reddito annuo lordo di 24.500 euro ridursi a soli 11.929 euro, dopo tutte le tasse che è costretto pagare, che oggi il denaro costa zero? Come può pensare di investire odi consumare di più se deve barcamenarsi con 990 euro ogni mese? Renzi dovrà per forza tenerne conto.

Tutti i trucchi del fisco per spiare la nostra vita

Tutti i trucchi del fisco per spiare la nostra vita

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere».Lo diceva anche George Orwell nel suo capolavoro “1984”. Il problema è che, quando la fantasia diventa realtà, l’essere esposti al controllo di un «altro»›, in grado di giudicare costantemente le nostre azioni e la nostra vita, è un incubo che rende ancor più insopportabile la nostra quotidianità. Eppure, in materia fiscale, lo Stato italiano si è dotato di una strumentazione tale da far impallidire anche il Grande Fratello di orwelliana memoria. Ogni momento della nostra vita, dal 2015 (e quindi con 31 anni di ritardo rispetto alle previsioni) può essere passato al setaccio. Non che si tratti di un controllo tipo l’agente della Stasi protagonista de “Le vite degli altri”, ma gli assomiglia molto. A voler essere meno enfatici, si può tranquillamente affermare che dallo scorso primo gennaio il cittadino italiano medio è sottoposto allo stesso «trattamento» di un qualsiasi imprenditore o commerciante, cioè a uno studio di settore onnipervasivo che misura se le sue entrate e il suo tenore di vita siano «congrui», cioè se non vi sia qualche risorsa segreta che viene sottratta al fisco, una discrepanza nascosta, un lato oscuro junghiano. Merito della Legge di Stabilità che consente ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate di poter incrociare i dati di 128 banche dati pubbliche e verificare eventuali «anomalie» tra spese effettuate e reddito dichiarato. Mentre questo tipo di controlli, fino all’anno scorso, era riservato a soggetti a rischio-evasione, dal 2015 siamo tutti sulla stessa barca.

Ma quali sono queste 128 banche dati? C’è di tutto e di più: l’anagrafe dei Comuni, il catasto, il Pubblico registro automobilistico, gli archivi dell’Inps (non solo le assunzioni di dipendenti per le aziende ma anche quelle di colf e badanti), le Scia (segnalazioni certificate di inizio attività, di prammatica per le ristrutturazioni), i verbali delle ispezioni della Guardia di Finanza e così via. Ma la parte più importante è l’accesso ai nostri conti correnti. Non che l’Agenzia delle Entrate non potesse monitorare già da prima i nostri movimenti: il Sistema interscambio dati varato nel 2013 obbliga le banche a trasmettere i saldi all’inizio e alla fine dell’anno solare. Ora, anche la giacenza media dovrebbe essere oggetto di indagine e se si discosterà in modo significativo da quelle che sono le evidenze dei nostri 730, partiranno i controlli. Soprattutto se le nostre spese sono tracciabili (con assegni e carte di credito) e inducono a ritenere che il nostro tenore di vita sia superiore a quello che potremmo permetterci. Facciamo due esempi molto pratici.

Basta prendere l’ultima circolare dell’Agenzia delle Entrate. Si chiede agli intermediari finanziari, cioè alle banche, di fornire i dati sugli interessi passivi applicati ai contratti di mutuo, cioè la spesa che, per quanto riguarda la prima casa, si porta in deduzione dal 730, cioè si sottrae alla nostra base imponibile. Nel file che gli istituti di credito sono tenuti a inviare ci sono le generalità del contribuente, l’importo del mutuo, il numero di rate pagate e l’ubicazione dell’immobile. Se vi fosse qualche incongruenza, le Entrate possono benissimo guardare il catasto giacché l’Agenzia del Territorio è stata accorpata nell’ente guidato da Rossella Orlandi, A questo punto, se sbaglieremo la nostra dichiarazione o se vorremo cambiare qualcosa nel 730 precompilato che da quest’anno arriverà a casa potrebbe iniziare anche per noi la via Crucis che commercianti e professionisti conoscono molto bene. A quel punto nulla vieta di verificare, in base al prestito della banca, se il prezzo pagato per la casa sia corrispondente al valore di mercato e se effettivamente una tale spesa fosse alla nostra portata. Se troppo basso, si potrebbe ipotizzare che fosse da ristrutturare. Ma abbiamo portato in detrazione quelle spese? E se non è stato fatto, è perché qualcosa è stata pagata in nero? E se, invece, fosse stata la compravendita ad avere qualche lato oscuro? Sono domande che si pongono in linea teorica: l’Agenzia delle Entrate non ha personale a sufficienza per passare al setaccio tutti questi minimi dettagli, ma è chiaro che se il sistema segnalasse potenziali anomalie, allora potrebbero essere dolori.

È un po’ quello che succede con i famigerati controlli a tappeto della Guardia di Finanza. Ipotizziamo che un cittadino alla guida di un bel Suv venga fermato a un posto di blocco: patente, libretto e carta d’identità. I solerti finanzieri inviano i dati alla loro centrale operativa e all’Agenzia delle Entrate. A quel punto, se il proprietario risulta aver dichiarato un reddito di qualche decina di migliaia di euro, saranno lacrime e stridore di denti. Idem per i mezzi di lusso che risultano proprietà di aziende: la Finanza controlla il reddito dell’impresa. Se la vettura è intestata a un parente o a un amico, il controllo viene eseguito sul reddito dei proprietari. Motivo per il quale negli anni scorsi molti benestanti hanno rinunciato al «macchinone» per non avere seccature. E pensare che questa innovazione avrebbe pure uno scopo nobile: evitare che si acceda in maniera fraudolenta alle prestazioni sociali che prevedono diverse tariffe a seconda delle fasce di reddito, come l’iscrizione all’asilo o la retta universitaria, se l’indice di situazione economica equivalente – Isee – della propria famiglia è basso. Il fatto è che la politica fiscale di Matteo Renzi è tutta impostata sulle teorie dell’ex ministro Vincenzo Visco (lo ricordate? Pubblicò su internet i redditi degli italiani), l’uomo per il quale tutti sono evasori. E contro l’evasione per Visco & C. non c’è che un rimedio: il terrore.

Il futuro è fatto di monitoraggi. Così come nei sogni dell’ex ministro che si tramuteranno nei nostri incubi. Anche quelle che il governo sta presentando come «rivoluzioni» non sono che trappole mortali per la nostra libertà. Prendete l’abolizione dello scontrino fiscale. Che c’entra con il Grande Fratello? Centra, c’entra. Prossimamente non ci sarà più bisogno di quel pezzettino di carta: le transazioni saranno inviate direttamente all’Agenzia delle Entrate che ne terrà conto per le nostre dichiarazioni precompilate. Ad esempio, se stiamo acquistando un farmaco,non ci sarà bisogno di portare con sé il tesserino sanitario perché, se paghiamo con il bancomat, l’Agenzia delle Entrate risale a noi e detrae la spesa dal nostro 730. Ecco, il trucco è tutto lì: disincentivare l’uso del contante e tracciare tutte le transazioni economiche.

Eppure c’è chi non si sorprende di questo cambiamento. «Per i funzionari dell’Agenzia non cambierà assolutamente nulla», spiega Sebastiano Callipo, segretario generale di Confsal-Salfi, il principale sindacato dei dipendenti delle Entrate. «Lo scopo è aumentare l’autotassazione – aggiunge – facendo capire, con il sorriso, al contribuente che sappiamo tutto di lui e oltre un certo limite di evasione non può andare, ma questo schema non funziona con un sistema fiscale che finisce con l’accanirsi su lavoratori dipendenti e pensionati». Il sospetto che, in realtà, dietro tutte queste innovazioni ci sia solo la volontà di aumentare il gettito diventa così una certezza. «La verità – afferma Callipo – è che lo Stato vuole dalle Entrate più di 20 miliardi e dobbiamo trovarli. Per questo motivo, ci sta trasformando da controllori in consulenti fiscali che devono spiegare ai cittadini che è bene dichiarare più tasse».

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’aggressione sulla casa ha due volti, entrambi mostruosi. Quello più noto è rappresentato dai 20 miliardi di tasse in più che gli italiani sono stati costretti a pagare negli ultimi quattro anni a causa dell’accanimento dei governi Monti, Letta e Renzi sulla proprietà immobiliare. A colpi di Imu, Tasi e Ici si è passati dai 9 miliardi di prelievo del 2010 ai 28 miliardi stimati da Confedilizia per quest’anno.

Il volto nascosto di questo raptus autopunitivo lo svela il Centro Studi ImpresaLavoro: il mercato italiano delle costruzioni sta segnando performance che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa. È chiaro che, in questo modo, si frustrano molte possibilità di agganciare la ripresa ove mai si presentasse. Ecco perché il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ancora ieri è ritornato sull’argomento. «La casa è colpita da tasse che tre governi non eletti dai cittadini hanno moltiplicato per tre», ha detto nel corso dell’intervento a La telefonata su Canale 5. «La casa per Forza Italia è sempre stata qualcosa di sacro: è un pilastro su cui ogni famiglia ha il diritto di costruire la sicurezza del suo futuro», ha aggiunto ricordando che «tagliare le tasse sulla casa non solo è possibile, ma è doveroso». Un segnale di battaglia in vista del No Tax Day azzurro del prossimo fine settimana che sarà incentrato su questo tema.

L’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, però, offre uno spaccato della propensione «suicida» del nostro Paese nei confronti dei competitor europei. L’aumento della tassazione, infatti, ha bloccato il settore e, dal 2011 a oggi, si è perso il 30% del valore della produzione. In Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia hanno registrato andamenti peggiori di quello italiano e non è un caso che si tratti di Paesi profondamente segnati dalla crisi del debito sovrano. Se si guarda alle aree più sviluppate del Vecchio Continente, si osserva come la Francia, nello stesso periodo, abbia registrato un arretramento del 5,1%, il Regno Unito del 3,2%, mentre la Germania ha visto un lieve incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18,9 per cento. L’Italia è ampiamente al di sotto della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea poiché il -29,3% cumulato si confronta con una media del -5 per cento. Insomma, non solo si sono massacrati i contribuenti, ma si è resa l’intera nazione più debole.

Crollano, di conseguenza, anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni un terzo delle ore in meno rispetto al 2011 (-28,9%). La Francia ha perso solo il 4,2%, mentre gli incrementi hanno interessato Regno Unito (+3,7%), Spagna (+1,4%) e Germania (+0,9%). Un effetto della perdita dei due terzi di permessi di costruzione (-63% nel triennio) a causa della recessione autoindotta nel comparto. Dunque, non bisogna con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. «I governi Monti, Letta e Renzi hanno trasformato la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”», commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni. I numeri non fanno che confermarlo.

Il piano segreto dell’Europa: saccheggiare i nostri risparmi

Il piano segreto dell’Europa: saccheggiare i nostri risparmi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un’«euro-rapina» sui conti correnti? Potrebbe accadere e i poveri risparmiatori subirebbero una mazzata con pochi precedenti (tra i quali il prelievo forzoso notturno del 1992 effettuato dal governo Amato). E, soprattutto, è quello che teme il focoso europarlamentare leghista, Gianluca Buonanno, che ha presentato un’interrogazione scritta alla Commissione Ue e alla Bce per chiedere di confermare «l’esistenza di un piano di misure adottato nel luglio 2014» secondo il quale, come già sperimentato a Cipro, «sarebbe prevista l’imposizione di misure d’urgenza che consentirebbero il congelamento dei conti correnti bancari dei cittadini e delle imprese europee e il prelievo forzato delle somme ritenute necessarie a fronteggiare l’esposizione debitoria».

Ma la domanda che pone Buonanno è anche un’altra: «la Bce ritiene che il rischio di default sia concreto a tal punto da permettere l’adozione di un tale piano?». La risposta non è semplice: anche se le crisi si presentano sempre in forme diverse, l’opera di prevenzione (anche se l’Ue ha raggiunto soglie maniaco-depressive) può rappresentare un aiuto. Tuttavia quando si ascoltano le parole del capo economista di Standard & Poor’s, Jean-Michel Six, l9o shock è fortissimo. «La ripresa economica ha perso molto slancio e, avvicinandoci al 2015, nell’Eurozona sono aumentati i rischi di una terza recessione dopo il 2009 e il 2011», ha detto.

I quesiti aumentano. Perché il presidente della Bce, Mario Draghi, e soprattutto le istituzioni italiane – pubbliche e private – in questi mesi hanno messo l’accento sulla creazione di una bad bank , cioè di un ente che si faccia carico dei crediti deteriorati degli istituti (in Italia hanno superato i 180 miliardi) per ripulire i bilanci e consentire una migliore sopravvivenza del sistema? Perché la principale banca italiana, Intesa Sanpaolo, ha scaricato dal portafoglio 17 miliardi di Btp? Qui rispondere è più facile: hanno ripreso valore e ha guadagnato, la Bce li penalizza e, se la recessione proseguisse, meglio stare leggeri. Perché allora Buonanno lancia questo allarme? «Mi è stato detto da fonti interne alla Commissione che esiste un documento nel quale si specifica che il prelievo sui conti correnti potrebbe arrivare al 10% delle giacenze», racconta sostenendo che «in ogni caso la Bce e la Commissione devono smentire se si tratta di una notizia falsa oppure confermarla».

Vale la pena di raccontare la storia per intero. Sin dall’anno scorso in sede comunitaria è stato approvato un piano d’azione per la «risoluzione ordinata delle crisi bancarie», contestuale alla nascita dell’Unione bancaria. I pilastri sono due. Il primo è il Single supervisory mechanism (Ssm), ossia la vigilanza unificata della Bce sulle più importanti banche europee. È stato istituito un organismo, sono state scritte delle regole sui requisiti minimi di solidità patrimoniale e sono stati condotti gli stess test che in Italia hanno bocciato Monte dei Paschi e Banca Carige. Il secondo pilastro è il Single resolution mechanism (Srm), ossia il dispositivo per i salvataggi in caso di crisi. La trattativa è stata complicatissima e si è conclusa solo nell’Ecofin di Lussemburgo dello scorso giugno. Come al solito ha vinto la Germania. È, infatti, passato il principio-guida del bail-in , cioè il salvataggio delle banche con mezzi propri. Se le cose vanno male, come accaduto a Cipro, pagano prima gli azionisti (con aumenti di capitale mostruosi) e poi gli obbligazionisti (con una rinegoziazione del debito). Se la situazione non migliorasse, sarebbero i correntisti con depositi oltre i 100mila euro a rimetterci. È prevista, inoltre, l’istituzione di un fondo unico finanziato dagli Stati membri (che raggiungerà la dotazione di 55 miliardi nel 2024) per tamponare le eventuali carenze di liquidità. È chiaro che i prestiti del fondo andranno comunque restituiti dalle banche con le modalità sopra descritte. I piccoli risparmiatori che volessero chiudere i conti prima che la propria banca fallisca potrebbero dover aspettare almeno 15 giorni fino al 2018. E, comunque, i derivati non si toccano!

Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

In 61 giorni lo Stato si farà un’abbuffata di tasse e balzelli da 91 miliardi di euro a spese di famiglie e imprese. È quanto ha rilevato la Cgia di Mestre. A novembre e dicembre i contribuenti saranno impegnati in un vero e proprio tour de force per assolvere a una serie di obblighi fiscali che prosciugheranno le casse del sistema-Italia. Giusto per fare qualche esempio, si tratta del versamento delle ritenute Irpef dei dipendenti, delle ritenute per i lavoratori autonomi e dell’Iva. A queste si aggiungeranno gli acconti Irpef, Ires e Irap, il versamento dell’ultima rata dell’Imu e della Tasi per un totale di 25 scadenze fiscali che, escludendo sabati e domeniche, significano una tassa da pagare ogni due giorni.

«Una pioggia di scadenze che potrebbe mettere in seria difficoltà moltissime piccole imprese a causa della cronica mancanza di liquidità», osserva il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, ricordando che «la fine dell’anno è un periodo molto delicato per le aziende perché, oltre all’impegno con il fisco, devono corrispondere anche le tredicesime ai dipendenti». Visto il perdurare della crisi, «questo impegno economico costituirà un vero e proprio stress test», aggiunge. L’unico politico a raccogliere l’appello di Bortolussi è stato Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. L’eccesso di tasse «rischia di mettere definitivamente in ginocchio il Paese», ha commentato formulando «l’auspicio è che il governo intervenga a stretto giro per alleggerire il carico fiscale, apportando anche dei miglioramenti alla bozza della legge di Stabilità». La priorità, ha concluso, è «salvare le nostre Pmi o la crescita resterà un miraggio».

La confederazione degli artigiani mestrini si è poi peritata nel determinare il numero complessivo delle gabelle e, tra queste, nell’individuare le più astruse. Il risultato è parzialmente sorprendente. «Tra addizionali, bolli, canoni, cedolare, concessioni, contributi, diritti, imposte, maggiorazioni, ritenute, sovraimposte, tasse e tributi, gli italiani ne pagano un centinaio», annota l’Ufficio studi della Cgia. Nella piccola galleria degli orrori fiscali, invece, si possono annoverare: l’addizionale regionale all’accisa sul gas naturale (una tassa sulla tassa) e l’imposta provinciale di trascrizione (una particolarità italiana che consiste nel versare un tributo alle Province per l’acquisto di un’auto nuova). Nell’elenco si trovano anche astrusità come l’imposta sulle riserve matematiche, cioè la tassazione dei fondi che le compagnie di assicurazione devono accantonare per garantire le polizze. Nell’epoca del commercio globale, poi, esistono ancora i dazi doganali che si chiamano «sovraimposta di confine» e si applicano al gas, agli spiriti, ai fiammiferi, ai sacchetti di plastica non biodegradabili, alla birra e agli oli minerali.

Quando, invece, si passa ad analizzare il gettito il catalogo si riduce di molto. Le prime dieci imposte (Irpef, Iva, Ires, Irap, imposta sugli oli minerali, Imu, imposta sui tabacchi, addizionale Irpef regionale, ritenute sugli interessi e altri redditi da capitale e imposta sul lotto) hanno garantito l’anno scorso oltre l’83 per cento del gettito tributario per complessivi 405,6 miliardi su un totale di 485,3. Secondo la Cgia, nel 2014 tra imposte e tributi lo Stato e le autonomie locali incasseranno 487,5 miliardi, con un lieve incremento rispetto al 2013. Ma se si computano anche i contributi sociali, di poco superiori ai 216 miliardi, quest’anno il gettito fiscale complessivo sfiorerà i 704 miliardi di euro. Una cifra da capogiro che mette in evidenza come il costo della macchina statale non sia più sostenibile se, per finanziarlo, gli italiani vengono tosati come pecore.

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Discuto con tutti, ma le Regioni facciano la loro parte perché hanno qualcosa da farsi perdonare». Il premier Matteo Renzi non vuole toccare l’impostazione della Legge di Stabilità, ma dovrà fare i conti con un mostro a venti teste (21 se includiamo il superautonomo Alto Adige). Quei 4 miliardi di tagli previsti sono stati proprio maldigeriti, anche se, a conti fatti, si tratterebbe di solo di risparmiare 2 miliardi in quanto le dotazioni per il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra gli enti locali è stato aumentato di 2 miliardi per l’anno prossimo.

Ed è proprio da quei 110 miliardi che l’anno prossimo saliranno a 112 che si potrebbe partire per tagliare qualche spreco. Non foss’altro perché tale maxistanziamento finisce sempre per rivelarsi insufficiente, tant’è vero che alla fine del quarto trimestre 2013 – sia che fossero sotto piano di rientro sia che non lo fossero – le Regioni hanno accumulato altro deficit sanitario per circa un miliardo, un terzo dei -3 miliardi del 2012. Tra il 2002 e il 2013 la spesa sanitaria è cresciuta in media del 3% annuo a fronte di un incremento medio annuale del Pil dell’1,7 per cento. Non c’è stata, perciò, proporzionalità tra le due variabili. Anche se è in lenta discesa il costo del personale sanitario ammonta ancora a 36 miliardi, mentre l’acquisto di beni e servizi (ivi inclusa la farmaceutica) è in costante aumento e l’anno scorso ha toccato quota 29,2 miliardi. Se una sanitaria perugina (lo hanno testimoniato Le Iene mercoledì scorso) vende un plantare per bambini a 69 euro a un privato e a 172 euro alla Asl? Ci sarà un motivo se una colonscopia costa circa 103 euro in tutta Italia e ben 175 in Val d’Aosta? La risposta sarebbero i famosi costi standard, ovvero l’allineamento ai criteri di economicità dei servizi, ma chissà perché in ambito sanitario hanno fatto quasi tutti orecchie da mercante.

I governatori non riescono inoltre a fare molta economia nemmeno sul personale dipendente. Secondo uno studio di Confartigianato, oltre 25mila dipendenti sono di troppo (la sola Sicilia ne conta 19mila, più di quelli del governo britannico), un surplus che costa 2,5 miliardi di euro. Ancor più severa è stata Confcommercio che non ha misurato solo i costi del sistema-Regioni, ma anche la loro produttività. Ebbene, prendendo come esempio la virtuosa Lombardia con 2.651 euro di spesa pro-capite (il livello più basso a fronte di buoni servizi e il 23% di personale in meno rispetto alla media italiana), si potrebbero risparmiare ben 82,3 miliardi di euro. Un quarto di questo sbilancio si concentra in Sicilia (13,8 miliardi) e in Calabria (6,4 miliardi), anche se la spesa pro capite più elevata è quella di Trentino (3.669 euro) e Valle d’Aosta (5.400 euro, oltre il doppio di Milano & C.). Sì, c’è molto da farsi perdonare se, ad esempio, la Regione Calabria ha buttato decine di milioni in assegnazione di incarichi dirigenziali e di contratti di consulenza a soggetti privi dei requisiti necessari.

E va ancora peggio se si considera la giungla delle oltre 400 partecipate regionali. Oltre 100 milioni di perdite, 1,5 miliardi erogati a vario titolo e una decina di miliardi di indebitamento a carico della collettività. Non fossero poco più che stipendifici avrebbero anche un senso, ma se si ricordano i fallimenti dei corsi di formazione e il proliferare di competenze, soprattutto in ambiti strategici come il turismo non se ne può uscire soddisfatti. Ecco, i governatori hanno tutti moltissimo da farsi perdonare. Nessuno, però, lo ammetterà mai: molto più facile aumentare le addizionali.