Una moratoria legislativa per attrarre capitali esteri

Gianluca Comin – Il Messaggero

L’Italia continua ad essere un Paese attrattivo per gli investimenti esteri. Circa un quinto del prodotto interno lordo viene, infatti, da acquisizioni e fondi internazionali ma ancora poco rispetto a Francia, Spagna e Germania. A tirare il freno a mano alle imprese e istituzioni finanziarie straniere sono quei vincoli che, da sempre, denunciamo e che con fatica il governo Renzi cerca di smantellare: una burocrazia barocca e lenta, una giustizia amministrativa imprevedibile ed una civile interminabile, una legislazione faraonica, l’incertezza dei tempi di autorizzazioni e permessi e una moltiplicazione infinita di poteri di approvazioni e di veto. Ma soprattutto una regolazione incerta e mutevole. Basterebbe infatti che ciascun dirigente pubblico, amministratore centrale o locale con responsabilità o politico in carica provasse, almeno una volta nella vita, a spiegare ad un top manager straniero la complessità del nostro sistema per capire il senso di frustrazione di chi intende avviare una impresa nel nostro Paese.

Non sono mancate in questi anni le analisi, i libri bianchi e le riforme. Tuttavia è ancora sorprendente quanto siamo in larga parte inconsapevoli di questo gap che ci distanzia dai principali competitor europei. L’ultimo rapporto è stato presentato qualche giorno fa dall’American Chamber of Commerce in Italy ed ha il titolo alquanto esplicativo di “Il rischio regolatorio in Italia”. Una analisi certo parziale ma significativa perché effettuata su un campione di medie e grandi imprese che operano in Italia in diversi settori industriali, commerciali e dei servizi. Il quadro che emerge non è che la conferma di quanto assistiamo da anni. La regolazione incide profondamente sulla redditività delle imprese. Più di un quarto delle aziende intervistate ritiene, infatti, che oltre la metà del proprio margine operativo, cioè la capacità di fare reddito della propria impresa, dipende dal quadro regolatorio. Per circa un terzo delle aziende questa quota è compresa tra il 20 ed il 50 per cento. La capacità di influenza delle decisioni legislative e regolatorie è addirittura aumentata nel corso degli ultimi anni ed in particolare dall’inizio della Grande Crisi che ha visto una maggiore attitudine dei governi ad intervenire in economia.

Che l’Italia sia un Paese iper-regolato non è nuovo. Un recente rapporto del World Economic Forum poneva l’Italia al 146° posto su 148 economie considerate (davanti solo a Brasile e Venezuela) per peso della regolazione. E sempre secondo Amcham sono le industrie chimiche e farmaceutiche, seguite da quelle dell’energia e dai servizi finanziari quelle che si ritengono operare in un ambiente «altamente regolamentato e con un rischio regolatorio ai diversi livelli amministrativi». Più della metà degli intervistati ritiene infatti che il peso burocratico derivi soprattutto dalle decisioni prese a livello regionale e locale. Gli esempi possono essere molti: leggi che cambiano, anche retroattivamente, le regole del gioco dopo la decisione di investimento (norme sul fotovoltaico, regolazione del farmaco, affitti pubblici, spending review), variazioni alla legislazione fiscale, norme su permessi ed autorizzazioni.

Per i manager stranieri la frustrazione è alta. Spiegare ai loro headquarter dall’altra parte del mondo la particolarità del sistema italiano è spesso impossibile e così il “rischio Paese” diventa la variabile principale nelle scelte di investimento, ancor più della legislazione sul lavoro o il deficit infrastrutturale. Una frustrazione che emerge dalle risposte alla ricerca dell’Amcham quando ben il 54% dei manager intervistati dichiara di «non essere mai riusciti a influenzare la produzione di politiche nel proprio settore di attività», il 16% solo raramente, il 29% qualche volta. Le aziende straniere, ma anche quelle italiane, riscontrano un problema di accesso al policy maker: 7 su 10 dichiarano che è difficile anche solo entrare in contatto con il governo/regolatore. Ma c’è anche un problema di comprensione da parte del decisore pubblico delle istanze poste dalle aziende. Problema di trasparenza del rapporto innanzitutto, come sottolinea ancora il Wef che pone l’Italia al 140° posto su 148 per «trasparenza del processo di produzione delle politiche e del quadro normativo».