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Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Tasi e imprese, aumenti in 4mila comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla Tasi si è scaldato intorno alla sorte delle abitazioni principali, ma le rassegne delle scelte locali dopo che sono scaduti i termini per pubblicare le aliquote mostra che anche capannoni, uffici, alberghi e centri commerciali sentiranno nei prossimi mesi gli effetti del nuovo tributo. In breve, l’arrivo della Tasi aumenta il conto per gli immobili strumentali in 4.278 Comuni, cioè il 53% del totale. A livello nazionale, il nuovo quadro delle aliquote fa crescere la pressione sul mattone delle imprese di circa il 9%, ma quando si parla di imposte locali i valori medi non dicono tutto e l’esperienza reale dei singoli contribuenti andrà incontro anche ad aumenti assai più decisi. Anche nelle tante città – come Milano o Roma – dove l’Imu aveva già raggiunto i massimi nel 2013 e quindi non sembrava lasciar spazio ad altre tasse, il carico è cresciuto ancora “grazie” all’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille, consentita per quest’anno allo scopo di finanziare gli sconti sull’abitazione principale. In qualche Comune l’ingresso della Tasi può essere stato compensato da una riduzione dell’Imu, ma si tratta di casi minoritari.

Viste alla luce della situazione di oggi, le promesse di abbattere il carico fiscale sugli immobili d’impresa che erano fìorite intorno alla scorsa legge di stabilità appaiono lontanissime: laTasi, introdotta proprio dalla legge di stabilità per quest’anno, gonfia ancora una volta il peso del fisco immobiliare sulle imprese e annulla gli effetti della “mini-deducibilità” Imu scritta nella stessa legge. Gli incrementi di quest’anno, nei Comuni in cui la Tasi si applica anche agli immobili strumentali, oscillano tra il 9 c l’11,5 per cento, ma rispetto ai tempi dell’Ici le imposte si sono impennate, dall’80% registrato in tante città fino al 170% di Milano, dove la vecchia imposta comunale sugli immobili era più bassa della media.

A spingere le tasse “locali” (ma bisogna ricordare che su questi immobili l’Imu ad aliquota standard del 7,6 per mille finisce allo Stato), secondo la rassegna delle aliquote realizzata dal Caf Acli sono 3.649 Comuni. L’elenco, però, cresce ancora, a causa dei 652 Comuni, soprattutto medio-piccoli, che non hanno pubblicato delibere entro il 18 settembre. In questi casi, scatta per tutti l’aliquota all’1 per mille, che si aggiunge alle normali richieste avanzate dall’Imu; le uniche eccezioni arrivano quando il Comune ha già stabilito il massimo per l`imposta municipale, togliendo quindi ogni spazio alla Tasi, ma dal momento che gli enti senza delibera sono medio-piccoli questa eventualità non dovrebbe essere frequente.

Nelle città, l’evoluzione del carico fiscale sulle imprese dipende ovviamente dall’evoluzione delle singole aliquote, ma le dinamiche complessive sono simili fra loro. Facciamo i conti per un capannone da 700mila euro di valore catastale: per esempio a Milano e Roma, dove l’Imu era già al massimo e la «super-Tasi» è stata introdotta per finanziare gli sconti sulle abitazioni principali, si arriva a 7.232 euro di imposta da pagare, contro i 6.638 dello scorso anno, mentre a Cagliari, dove l’aliquota dell’1 per mille si aggiunge ad un’aliquota Imu del 9,6 per mille, la richiesta è di 6.858 euro invece dei 6.157 dell’anno scorso. Sul peso complessivo delle imposte sul mattone incide anche la deducibilità, cioè la possibilità di sottrarre al reddito d’impresa le somme pagate come tributi locali. Nell’Imu la deducibilità è parziale (20% da quest’anno, 30% nel 2013), mentre nella Tasi è totale, nel senso che l’intero tributo pagato viene “tolto” dall’imponibile dell’Ires. A conti fatti, però, si tratta di dettagli, come mostra per esempio il caso di Verona: la città ha abbassato l’Imu all’8,9 per mille e fissato la Tasi al 2,5 per mille, con il risultato di arrivare a un’aliquota massima uguale a quella di Milano e Roma (dove al 10,6 per mille di Imu si aggiunge lo 0,8 per mille di Tasi), ma di produrre un carico fiscale leggermente inferiore grazie al fatto che tutto il tributo sui servizi indivisibili è deducibile. Naturalmente, però, la deducibilità non scatta per le imprese in perdita, che per questa via maturano solo un “credito” spendibile quando ritorneranno utili da tassare.

Un altro effetto collaterale della Tasi riguarda i “fabbricati-merce”, cioè gli immobili che le imprese costruttrici non riescono a vendere. Dal 1 luglio scorso sono stati esentati dall’Imu, ma paradossalmente proprio questa mossa ha aperto le porte alla Tasi: quest’anno, come accade per l’abitazione principale, può arrivare al 2,5 per mille (e non mancano i Comuni che l’hanno applicata), ma senza correttivi nel 2015 la richiesta può volare rino a quota 10,6 per mille. Proprio come l’Imu da cui questi immobili erano stati appena esentati.

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

La tassa-fantasia ha bisogno di una bussola

Mauro Meazza e Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Se la fantasia si traducesse in decimali di Pil, basterebbe la dotazione schierata per Imu e Tasi a farci agganciare il treno della crescita. Le migliaia (sì, migliaia) di variabili che governano le detrazioni per la Tasi dimostrano quanto potenziale immaginativo possa farsi sentire in un terreno che si penserebbe povero di stimoli, come quello del Fisco.

In realtà, la fantasia impositiva dei Comuni viene da lontano ed è stata alimentata soprattutto da due fattori: le strette da parte dello Stato e il continuo traballare delle regole di prelievo. Se partiamo dalla prima Imu (dicembre 2011), non c’è stato un versamento che abbia seguito le stesse regole di quello precedente. Ma la danza era già cominciata con l’Ici, a onor del vero, chiamata ad aggirare la prima casa ma a garantire contemporaneamente gettito sufficiente per i municipi. Primi e pallidi segnali, se guardiamo al pasticcio in cui siamo finiti ora. Tanta fantasia (statale prima e locale poi) non solo non porta decimali alla crescita, ma anzi rischia di sottrarne. Perché, tanto per fare un esempio banale, chi non sa quanto deve spendere per le tasse può prudentemente scegliere di spendere meno per altre voci. L’incertezza costa, è nemica della fiducia e quindi anche delle speranze di ripresa dei consumi.

Nelle prossime settimane, mentre cittadini e professionisti affonderanno nei calcoli della Tasi, ministri e parlamentari saranno chini sui testi della nuova legge di stabilità, che tornerà a occuparsi del fisco del mattone. I pasticci da risolvere sono tanti, a partire dal fatto che senza correttivi la Tasi 2015 sulla prima casa può arrivare al 6 per mille senza detrazioni, polverizzando ogni confronto con la vecchia Imu. Il premier Renzi ha già annunciato un nuovo «tetto», che è indispensabile ma non basta. Quest’anno si è discusso per mesi di limiti pensati con il bilancino in una lotta estenuante fra sindaci e governo, e i risultati si vedono. Nello scrivere le nuove regole, la politica si faccia una domanda: fa più danni al Pil (e ai voti) il conto della Tasi o la montagna di regole cervellotiche che dobbiamo scalare per calcolarlo?

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Centomila variabili per calcolare la Tasi

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Meno male che si tratta di un’imposta «unica». Nel suo anno del debutto, la componente immobiliare della «Iuc» – articolata in Tasi più Imu (a cui si aggiunge la Tari per pagare la nettezza urbana) – sfiora il muro delle 200mila aliquote: quelle approvate e pubblicate finora, come mostrano i calcoli di ItWorking (la società del sistema Assosoftware che ha monitorato tutte le delibere comunali), sono 197.350. Il contatore, però, può ancora salire perché per deliberare le aliquote Imu c’è tempo fino al 28 ottobre e mancano ancora 2.500 Comuni all’appello. Il tetto delle 200mila aliquote, addirittura, entro fine anno potrebbe essere sforato.

A far polverizzare ogni record di complicazione è naturalmente la Tasi, il tributo sui «servizi indivisibili» dei Comuni che si incrocia con l’Imu e moltiplica all’infinito le variabili di un’imposta, quella immobiliare, che in teoria sarebbe tra le più semplici da applicare. Fin dall’inizio, però, è stato chiaro che nella Tasi l’unica regola è stata rappresentata dall’assenza di regole, che ha impedito di trovare un qualsiasi parametro chiaro per orientarsi nel nuovo tributo. Anche nel calendario, per esempio, la legge dice una cosa, ma la realtà ne racconta un’altra. Dopo vari correttivi, l’acconto è stato fissato al 16 giugno per un primo gruppo di Comuni, quelli più “rapidi” a decidere le aliquote, e al 16 ottobre per tutti gli altri, con appuntamento al 16 dicembre per il saldo. Nei fatti, però, i Comuni hanno continuato a seguire la disciplina originaria, che non prevedeva date fisse, e spesso hanno scelto scadenze diverse che finiscono per avere la meglio su quelle “ordinarie”.

A giugno, l’incrocio tra date nazionali e calendari locali ha portato a una sostanziale disapplicazione delle sanzioni per chi avesse sforato la scadenza del 16, e anche per l’appuntamento di ottobre è facile pronosticare più di un problema. «Per semplificare davvero – spiega Bonfiglio Mariotti, presidente di Assosoftware – bastano piccoli correttivi che non hanno costi per lo Stato o per gli enti locali. Nel caso di Imu e Tasi sarebbero sufficienti formati standard per le delibere con campi predefiniti per le aliquote, e un limite alla fantasia nelle detrazioni».

Non è solo il numero delle variabili a complicare la vita dei contribuenti, e dei professionisti che li devono assistere. Rispetto all’Imu, che da sola dispiega circa 99.200 aliquote diverse (ma tutte fondate su criteri costanti), i parametri della Tasi si sono sviluppati in nome della “libertà totale” lasciata alle amministrazioni locali. Con risultati spesso cervellotici, e qualche volta paradossali (si veda anche l’articolo in basso). Nel costruire le architetture gotiche della Tasi, i sindaci sono stati animati anche da buone intenzioni. È il caso di chi ha voluto evitare alle abitazioni principali un carico fiscale superiore all’Imu, introducendo decine di detrazioni diverse (a Bologna sono 23) o addirittura formule matematiche per sconti “su misura”. Oppure di chi ha studiato decine di aliquote ridotte per negozi, laboratori artigianali o fabbricati invenduti.

Non è questo, però, a poter giustificare la confusione di un tributo che pare ormai fuori controllo. I conti di Assosoftware confermano, inoltre, che le detrazioni hanno una presenza piuttosto limitata nel campo della Tasi. L’Imu, che esclude la quasi totalità delle abitazioni principali (pagano solo quelle considerate «di lusso» dal Fisco), conta in Italia più di 28mila detrazioni diverse, mentre la Tasi non arriva a 10mila. La rassegna delle delibere mostra, del resto, che solo nel 29% dei Comuni il tributo sull’abitazione principale è alleggerito da detrazioni (i calcoli sono del Caf Acli). Limitati nel numero, gli sconti Tasi non conoscono però confini nella fantasia di applicazione: possono essere graduati o riservati in base al reddito del proprietario, al suo «riccometro» (cioè l’indicatore Isee), all’età, alla presenza di figli, di famigliari disabili, oppure alle caratteristiche della casa. Risultato: le 28mila detrazioni Imu ricadono tutte in 13 grandi tipologie, mentre le famiglie degli sconti Tasi sono incalcolabili perché la stessa ItWorking, dopo aver catalogato 186 variabili, si è dovuta arrendere.

Le complicazioni, infine, non abbandonano nemmeno i contribuenti dei quasi 700 Comuni in cui la delibera non è ancora stata approvata. In quel caso, infatti, la Tasi andrà pagata tutta a dicembre, con l’aliquota standard dell’1 per mille. Per le abitazioni principali questo significa che non ci sono detrazioni, e che quindi tutti (anche chi non ha mai pagato né Imu né Ici) dovranno versare qualcosa. Sugli altri immobili, invece, il dato andrà incrociato con le aliquote Imu, perché la somma delle due gambe della Iuc non può superare il 10,6 per mille. Dove l’Imu è già al massimo, la Tasi non sarà dovuta. Dove è al 10 per mille si pagherà lo 0,6 per mille, e così via. Anche questo aiuta a capire come mai l’invio dei bollettini pre-compilati, promesso dalla legge, è rimasto nell’ampia maggioranza dei casi una pia illusione.

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tagliare di almeno un terzo il tax gap dell’Iva, cioè quel complesso di evasione vera e propria e di mancati pagamenti per errori o crisi di liquidità che ogni anno sottrae all’Erario tra i 35 e i 40 miliardi di euro, a seconda dei calcoli. È l’«obiettivo di medio periodo» scritto nel Rapporto sulla lotta all’evasione che il Governo deve presentare al Parlamento: un obiettivo che servirebbe a riportare l’Italia «nella media dei Paesi europei» fra i quali oggi primeggia per i mancati incassi nell’imposta sul valore aggiunto.
Il primato italiano è scritto nelle analisi comparative sull’evasione appena prodotte dall’Unione europea, dove si legge che il gap italiano dell’Iva non teme confronti né in valore assoluto (la Francia secondo le stime, relative al 2011, ha “perso” 32,2 miliardi all’anno, la Germania 26,9 e il Regno Unito 19,5) sia in rapporto al Pil, perché il gap italiano (2,3% del Pil) doppia abbondantemente quello attribuito a Germania e Regno Unito (rispettivamente 1% e 1,1%) e supera di slancio quello registrato in Francia (1,6%). Questo accade perché il nostro Paese non riesce a incassare più di un quarto dell’«Iva potenziale», con una performance che si tiene lontanissima da quella dei principali Paesi europei (si veda il grafico qui a fianco): peggio di noi fanno solo la Grecia e alcuni Paesi dell’Est Europa.
La nostra amministrazione finanziaria muove qualche obiezione al merito di queste graduatorie europee, perché l’Italia è «Paese leader in campo internazionale per quanto riguarda la metodologia di stima del sommerso», e il confronto rischia paradossalmente di premiare gli Stati che sono meno attenti in questo campo e di conseguenza calcolano un’evasione minore. È lo stesso Rapporto, però, a riportare questi dati, e soprattutto a riconoscere l’esigenza di riportare l’Iva a un livello «europeo» di riscossione effettiva.
Per combattere il fenomeno bisogna prima di tutto capirne le cause, e da questo punto di vista arriva per la prima volta un’ammissione interessante. «È possibile – si legge nel documento – che l’aumento dell’aliquota ordinaria tenda a produrre, mediante la crescita della pressione fiscale effettiva, un innalzamento del tasso di evasione». Come denunciato da alcuni analisti, quindi, gli incrementi che hanno spinto l’Iva ordinaria dal 20% al 21% il 16 settembre 2011 e al 22% dal 1° ottobre 2013 per effetto di diverse clausole di salvaguardia contenute nelle manovre anticrisi rischierebbero di avviare un circolo vizioso in cui i problemi di finanza pubblica aumentano l’Iva, ma l’aumento dell’Iva alimenta a sua volta le difficoltà del bilancio statale. Il rischio si acuisce proprio nelle fasi di crisi, che oltre a ridurre la domanda interna determinano «un clima di incertezza e sfiducia» che costituisce «il terreno favorevole per l’acuirsi di pratiche evasive». Anche così si spiega il rialzo del gap Iva registrato dalle serie storiche dal 2010, dopo le discese quasi costanti nel 2004-2007 e nel 2008-2010.
Al di là di queste oscillazioni, però, il problema è strutturale e chiede soluzioni. Il Rapporto, come previsto, punta le proprie carte sulla tracciabilità dei flussi e in particolare sulla fattura elettronica, che dai rapporti con la Pa si potrebbe estendere alle transazioni fra imprese «in ragione dei risparmi gestionali che ne possono derivare». Da attuare, poi, rimane l’erede del vecchio elenco clienti-fornitori, cioè la comunicazione quotidiana al Fisco delle fatture da parte delle partite Iva (articolo 50-bis del Dl 69/2013). Si tratta di un’opzione, in calendario dal 1° gennaio prossimo, ma se le sue modalità attuative offriranno a chi la sceglie semplificazioni importanti su altri fronti potrà tessere una rete fitta di informazioni utili al Fisco.

Se mancano scelte decise

Se mancano scelte decise

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

La realtà è complessa, e cercare parametri che siano in grado di abbracciarla tutta è una sfida impossibile. La vicenda dell’Imu (e ora anche della Tasi) per il Terzo settore lo dimostra bene. Sono stati necessari due anni abbondanti per definire l’attuazione, ora serve una selva di calcoli per capire quanto bisogna pagare e il risultato è sbagliato quando si chiede di sommare, invece che di rapportare fra loro, la percentuale di superficie e la quota di tempo (o di utilizzatori) occupate dalle attività commerciali. Manca un’altra prova, cioè la pioggia di ricorsi che accompagneranno gli accertamenti inevitabilmente ballerini, ma le premesse ci sono tutte e sembra solo questione di tempo. Riassumiamo: in tutti i casi di utilizzo “misto”, dalla parrocchia con sala conferenze all’ospedale con il bar e l’edicola, per capire l’imponibile bisognerà calcolare la quota di superficie occupata dall’attività commerciale, la parte di tempo o di utenti (come?) a cui è destinata, e poi inopinatamente sommarle. Il risultato è una sproporzione evidente fra la complessità dei calcoli, spesso basati su criteri non verificabili, e l’esiguità del gettito che ne verrà fuori. A creare il problema è stata la politica, che non ha voluto assumere scelte chiare su un tema spinoso e ha costretto quindi a inerpicarsi su un sentiero tortuoso di criteri e variabili ingestibili. Sarebbe stato meglio, allora, definire un’Imu ultraleggera, per esempio il 10% di quella ordinaria, per gli utilizzi misti, che probabilmente avrebbe avuto gli stessi risultati per i bilanci pubblici ma avrebbe evitato l’ennesima sfida burocratica ai contribuenti. Questa, però, sarebbe stata una scelta precisa.