giorgio mulè

Non si cresce con questa frittata

Non si cresce con questa frittata

Giorgio Mulè – Panorama

Oramai la frittata è fatta. Mettetevi il cuore in pace e non aspettatevi miracoli dalla legge di Stabilità, l’insieme di misure che avrebbe dovuto far uscire un’Italia Sfinita dalle secche della recessione. Panorama ha provato a far cambiare verso a una manovra che ci è apparsa fin dall’inizio sbagliata alla radice. Per tre motivi innanzitutto: perché tradiva clamorosamente l’impegno di tagliare cum grano salis l’enorme montagna della spesa pubblica, perché non stimolava gli investimenti, perché rubava il futuro ai giovani attraverso l’imbroglio dell’anticipo del Tfr e l’incremento delle tasse sui fondi pensione.

Le nostre analisi e le nostre preoccupazioni hanno trovato puntuale riscontro in tutti i pronunciamenti di chi, in Italia e in Europa, è chiamato a dare un giudizio di merito sulla legge di Stabilità: Banca d’Italia, Istat, Unione europea. La nostra crescita, per il 2015, è stata definita a Bruxelles «tiepida», «fragile» o addirittura «molto fragile», gli effetti della manovra sull’economia «nulli» dall’Istat per il biennio 2015-16, perché il governo metterà in circolo denaro aumentando ancora la spesa pubblica, mentre sulle pensioni Bankitalia ha annunciato l’apertura di un potenziale baratro dovuto alla possibilità di intascare il Tfr per i prossimi tre anni. Per non parlare della mannaia che incombe con le «clausole di salvaguardia», una gragnuola di nuove tasse sotto forma di aumento dell’Iva a cominciare dal 2016 e fino al 2018, e i nuovi balzelli che le regioni (già sul piede di guerra e recalcitranti per i risparmi da fare) potrebbero inventarsi dopo il taglio dell’Irap.

In questa situazione si inserisce il defatigante dibattito tutto interno al Partito democratico sul Jobs act con le lacerazioni e le minacce da una parte e dall’altra che hanno oggettivamente stufato. Chi potrebbe assumere non lo fa a causa della totale incertezza della normativa, chi potrebbe investire si tiene alla larga da un Paese incapace di tradurre in atti concreti gli annunci. Ma insomma: quando si potrà avere una linea chiara, senza bizantinismi e rinvii sine die? Quando si potrà capire se per i licenziamenti disciplinari sarà o meno prevista la possibilità che un giudice intervenga disponendo il reintegro con l’inevitabile indeterminatezza del suo giudizio? Tutto questo senza dimenticare che a ridosso di Natale, tanto per invogliare gli italiani a predisporsi con il migliore auspicio ai consumi, saremo chiamati a saldare il conto dell’Imu e della Tasi, ultimo atto di una tassazione della casa che non conosce eguali nel mondo moderno. E con questo la frittata è completa. Se Renzi, come dichiara a Bruno Vespa, vuol governare fino al 2023, faccia pure. Ma se non cambia registro, siamo fritti.

Il gufo di se stesso

Il gufo di se stesso

Giorgio Mulè – Panorama

Adesso noi dovremmo essere soddisfatti, darci di gomito in redazione e idealmente con voi che ci leggete. Perché quattro giorni dopo aver denunciato in copertina, dati alla mano, l’incapacità del governo di attuare i tagli alla spesa previsti, lunedì 13 ottobre Matteo Renzi ha annunciato l’aumento della spending review nel 2015 da 10 miliardi scarsi a 16 miliardi. Avevamo scritto: «La strada per diminuire seriamente le tasse e destinare fondi agli investimenti c’è, e Panorama la predica in maniera ossessiva: i tagli alla spesa pubblica».

Beh, ci sarebbe di che essere contenti. E invece mentre ascoltavamo l’ennesimo annuncio del premier, in redazione ci siamo guardati smarriti. Perché Renzi, soltanto il 7 ottobre, aveva spiegato che la manovra sarebbe stata di circa 23 miliardi (adesso è di 30) e che i tagli non avrebbero raggiunto quota 10 miliardi (ora lievitati a 16). Il nostro smarrimento nasce dalla considerazione, suffragata da anni di esperienza, che la revisione della spesa pubblica è una cosa seria e non s’improvvisa: va pianificata nel tempo per avere risultati, altrimenti è una presa in giro. Esempio: si decide di abolire le 34mila centrali di acquisto di beni e servizi per ridurle a 34 con l’evidente finalità di risparmiare. Peccato che questo provvedimento, il quale da solo potrebbe valere circa 13 miliardi (il comune X non potrebbe più comprare un computer, ma lo farebbe un unico ufficio istituito a livello centrale per tutti i comuni italiani, strappando condizioni e sconti assai maggiori dalle imprese che garantiscono le forniture), per produrre effetti già il prossimo anno doveva entrare in vigore a luglio scorso mentre è stato rimandato proprio dal governo (!) al gennaio 2015 per gli acquisti di beni e servizi e al 1° luglio 2015 per gli appalti sui lavori pubblici (!!). Addirittura nel provvedimento di rinvio della presidenza del Consiglio si legge che «l’area vasta che avrà funzioni anche di centrale di committenza sarà operativa soltanto dal 1° ottobre 2015» (!!!). Non è finita. I comuni hanno già fatto sapere di volere una deroga per gli «acquisti in economia (sono quelli che non hanno bisogno di una gara d’appalto, ndr) fino a 40 mila euro e per interventi di somma urgenza» (!!!!).

Non voglio tediarvi oltremodo con i dannati punti esclamativi e mi fermo qui. Di sicuro non sono queste le premesse per una spending review affidabile, qui siamo alle comiche. Ma l’annuncio sui 16 miliardi non è un episodio da trascurare politicamente. Ci dice che la realtà, cruda e crudele dei nostri conti impone già a Matteo Renzi di cambiare metodo. Il premier che camminava tre metri sopra il cielo, il facilone che pensava di mettere tutto a posto con gli annunci è tornato sulla terra. Ha preso finalmente atto che le parole non bastano più nell’Italia disastrata e paralizzata;e che per ripartire la strada obbligata è quella di eliminare sprechi e mangiatoie come noi gufi gli ripetiamo da quando è arrivato a Palazzo Chigi senza alcun mandato popolare. Non è mai troppo tardi. Per fortuna, anzi, Matteo Renzi è diventato il gufo di se stesso. E questa sì che è una grande soddisfazione.

Presidente, tiri fuori il coraggio

Presidente, tiri fuori il coraggio

Giorgio Mulè – Panorama

E non inizierò adesso con la tiritera che io l’avevo detto, io l’avevo previsto, io vi avevo avvertito. Però stiamo ai fatti. Il 29 agosto eravamo pronti per celebrare la scossa all’ltalia, anzi il big bang secondo i cantori renziani, e invece dalla sala stampa di Palazzo Chigi s’è udito in lontananza un ruttino forse dovuto alla cattiva digestione del cono gelato consumato poco prima per replicare stupidamente all’Economist. Dallo #sbloccaItalia s’è così passati allo #squagliaItalia e allo #sbroccaItalia: dei 40 miliardi annunciati ne sono rimasti appena un paio spalmati in tre anni e chi vivrà vedrà. Peanuts, noccioline sufficienti per un aperitivo striminzito. Per tacere del resto e cioè delle macerie in cui sono state trasformate le «grandi riforme» – scuola e giustizia su tutte – rinviate a data da destinarsi o ridotte a imbarazzanti e monchi disegni di legge. Agosto è finito male e settembre è iniziato pure peggio con l’inutile parata del «passo dopo passo», dei 1.000 giorni e – aridaje – del chi vivrà vedrà. Siccome però ci tocca vivere il 2014, eccoci ancora una volta a pregare il presidente del Consiglio di fare l’unica cosa sensata. Metta al bando i gelatini, trangugi piuttosto un’abbondante dose di filetto di tigre: abbia coraggio. Il coraggio proprio dei leader e degli statisti, l’orgogliosa rivendicazione di un piano serio per far ripartire il Paese.

Se, come ha fatto Renzi, si cita la Germania come modello di riforme sul lavoro, si legga la storia e si applichi quanto fece Gerhard Schröder nel 2003: una rivoluzione vera e bisturi in profondità nei tagli, nella riduzione delle prestazioni sociali, coraggio leonino nelle liberalizzazioni, negli sgravi fiscali, nelle riduzioni delle aliquote sul reddito (il Cancelliere tagliò dal 52 al 42% quella massima, per dire). Schröder pagò tutto questo, fu sommerso da proteste e impopolarità. Ma portò la Germania da vagone di seconda classe a locomotiva dell’Europa. Fu uno statista.

Badare invece al consenso, essere ossessionato come il nostro premier dal timore di perderlo non è serio: significa tradire quegli elettori, e sono stati tantissimi, che gli hanno accordato fiducia. Renzi sa come prendere il toro per le corna; ha opportunamente citato la Germania: dunque tiri fuori le palle e agisca di conseguenza. Metta da parte quel suo metodo, tanto semplice quanto infruttuoso, la cui prevedibilità è ormai diventata persino stucchevole: rivoluzione annunciata con tweet pomposo e demagogico (vedi i casi giustizia e lavoro, tanto per fare due esempi), successivo decretino legge da fumo negli occhi (ferie tribunali e contratti a termine) e consultazione popolare o legge delega per la riforma vera e propria destinata a vedere la luce chissà quando (non dimenticate che ci sono da smaltire ben 699 decreti attuativi accumulati da Monti, Letta e Renzi).

No, non è serio. Al pari del grande imbroglio sulla Tasi, la tassa comunale sulle abitazioni, che il governo fa finta di non vedere. Lo scorso anno non la pagammo. Quest’anno ci tocca versarla: ergo è una nuova tassa. E sarà un salasso. Un esempio? Nella presunta capitale della buona amministrazione, cioè la Firenze che fu di Renzi, il neosindaco Dario Nardella ha fissato l’aliquota per la prima casa al massimo. Per un appartamento di 120 metri quadrati si dovranno pagare 453 euro. Vogliamo continuare con la favoletta che gli 80 euro (per chi li ha presi) servono a rilanciare i consumi?

Tutto il resto è fuffa

Tutto il resto è fuffa

Giorgio Mulé – Panorama

Mettetevi nei panni di Joe, un americano in vacanza a Roma. Negli States essere ricco non è un reato; possedere due case non fa di un cittadino il perfetto obiettivo del fisco; avere messo soldi da pane non lo fa somigliare a un evasore fiscale. Joe è un marziano ai nostri occhi. Atterra a Fiumicino e scopre che l’Italia deve rinviare le sue previsioni di bilancio per ricalcolare il Prodotto interno lordo. Accipicchia, o meglio woooow!, pensa: gli italiani si sono rimessi in moto e stanno superando la crisi. Ecco, dear friend, le cose stanno un po’ diversamente: ce l’ha presente Johnny Stecchino nel bellissimo movie di Robeno Benigni? Beh sì, insomma noi ricalcoleremo il nostro Pil alla luce delle previsioni di Cosa nostra su tre settori: andamento del mercato della droga, della prostituzione e del contrabbando.

Tutto perfettamente illegale. Joe, it’s not a joke, non si scherza affatto: aumenteremo il nostro Pil, avremo pure big benefici nei conti pubblici. Manco fa in tempo a smettere di ciondolare la testa di qua e di là, farfugliando qualcosa che somiglia a un intraducibile «what the fuck…››, che gli capita di leggere la proposta di un signore che conosce bene perché ha conquistato gli States con i megastore Eataly. Mister Oscar Farinetti, renziano della prima ora, è quel che si dice un ambasciatore dell’Italia nel mondo. Già in predicato di fare il ministro, dà la sua ricetta per mettere a posto la spesa previdenziale: «Ci vuole una bastonata: tetto massimo di 3.000 euro netti, bastano e avanzano per vivere» sentenzia. E quelli che prendono di più, cioè i 600mila italiani che hanno versato contributi per 40 anni? La risposta è facile, caro Joe, basterebbe ricordarsi come si traduce in americano «cazzi loro» però va bene anche «what the fuck. ..».

Passata la pagina di economia dove il suo connazionale Bob Wilt, presidente del colosso Alcoa, annuncia la chiusura definitiva dello stabilimento di Portovesme in Sardegna con 455 lavoratori a spasso perché, dear italians, «le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto non sono purtroppo cambiate», il nostro Joe decide che è tempo di lasciarsi alle spalle tanta mestizia e rigenerare lo spirito con una visita alla Casa di Augusto in occasione del bimillenario della morte dell’imperatore. È obbligatorio prenotare, al centralino parlano anche in inglese. Wonderful. Peccato che dopo 10 minuti d’attesa, Joe viene invitato a richiamare «tra qualche giorno» perché la Soprintendenza deve fissare ancora le regole per le visite. D’altronde hanno avuto sono duemila anni per farlo. Ci risiamo col bisbiglio: «What the fuck…» lasciamo Joe al suo disgusto e concentriamoci un momento su di noi.

La realtà dell’Italia è esattamente quella che avete letto, se non peggio. E allora, visto che s’ode di nuovo la rumba degli annunci, sarà il caso di mettere in fila le priorità. Sono due: lavoro e giustizia. Si lasci perdere la fuffa, si eviti l’effetto grigliata mista mettendo sul fuoco provvedimenti dall’indiscusso valore mediatico ma dalla scarsissima possibilità di vedere la luce. L’Italia riparte se si mette mano in profondità in quei due settori con il concorso di tutti perché, come per le riforme istituzionali, rappresentano un terreno comune dove le forze politiche responsabili possono e devono incontrarsi. Lavoro e giustizia hanno priorità assoluta: da lì passano sviluppo, competitività e credibilità, soprattutto nei confronti degli investitori esteri. ll resto, come direbbe Obama, è horseshit.

Date una pensione a Renzi e Poletti

Date una pensione a Renzi e Poletti

Giorgo Mulè – Panorama

Nei piani del governo, quello sulle pensioni doveva essere un blitz: improvviso e, aggiungo io, improvvido. Me lo confidò, lunedì 4 agosto, una mia fonte assai addentro ai segreti ministeriali. Con dovizia di particolari elencò le misure del blitzkrieg fissato per ottobre che prevedeva tra l’altro il varo dell’ennesimo e ipocrita «contributo di solidarietà», la rimodulazione degli assegni calcolati con il metodo retributivo e la revisione delle pensioni di reversibilità. Scrivemmo tutto, ovviamente, e giovedì 7 agosto mandammo in edicola la copertina di Panorama (numero 33) con Matteo Renzi nelle vesti di un vampiro e il titolo: Il prelievo. Nessun giornalone, nei giorni seguenti, approfondì la notizia. Normale, nel provincialismo editoriale italiano. Fin quando domenica 17 agosto il ministro del Lavoro, Guliano Poletti, ha confermato tutto con un’intervista al Corriere della sera. Il resto lo state leggendo in questi giorni (ben svegliati, colleghi) e continuerete a leggerlo nelle prossime settimane.

Sono circa 300 i miliardi che l’Italia paga ai pensionati ogni anno. Per ogni governo si tratta di una categoria bancomat: non c’è manovra, manovrina o manovrona che li abbia risparmiati. Le storture non mancano, per carità, ed è giusto intervenire anche in profondità. Il problema è che bisogna farlo con raziocinio e non a colpi di rapine indiscriminate. Evitando, soprattutto, azioni demagogiche modello Robin Hood come quella in corso: è profondamente sbagliato dipingere il titolare di una pensione da 3.000 euro come un ricco sfondato e quindi meritevole di essere spennato per cedere parte dei suoi soldi a chi ne ha di meno. Perché il pensionato che perderà soldi si sentirà povero e impaurito e spenderà ancora di meno rispetto a oggi mentre l’altro pensionato (già terrorizzato dalla congiuntura attuale e fresco di fregatura dal mancato arrivo degli 80 euro) che ne prenderà poco di più non si accorgerà neppure dell’incremento.

E mentre lor signori discettano di quanto e a chi rapinare, che cosa c’è da aspettarsi se non l’ennesima gelata sui consumi da parte di coloro che con quei 300 miliardi equivalgono al 20 per cento del prodotto interno lordo? Nella platea dei «ricchi» pensionati chi spenderà un euro in più oltre lo stretto necessario? Non ci vuole un economista di Harvard per enunciare questo banale parallelo, lo sanno perfettamente al ministero dell’Economia e pure a quello del Lavoro e lo ha sottolineato un insospettabile come Stefano «chi?» Fassina.

Alla radice di tutto c’è un problema di cultura di governo. Il ministro Poletti è una degnissima persona, un “tecnico” chiamato da Renzi: ma si è nutrito di pane e comunismo (pochissimo il pane) fin da quando aveva le brache corte. Nel defunto Partito comunista ha ricoperto incarichi importanti, è stato custode di quell’ortodossia maledetta nella rossissima Imola negli Anni 80. Che cosa c’è da aspettarsi da un ministro così se non un prelievo dalle pensioni che lui si ostina a chiamare «d’oro»? Inutilmente s’è atteso il colpo d’ala dal sempre assai loquace Renzi, una frasettina tipo: «Suvvia Giuliano, nun di’ bischerate». Macché, muto è stato. Poi, tanto per tenersi sulle generali, ha scritto un tweet che però non smentisce nulla: dice vagamente che i giornalisti a Ferragosto si inventano cose che il governo non ha neppure pensato. Ma a quali cose si riferisce? Tweet da Sibilla cumana.

Comincio a pensare che Renzi, oltreché muto, sia pure sordo. Al premier, che pure dall’orecchio destro, quello delle riforme, sembra recepire qualche segnale, bisogna sturare al più presto l’orecchio sinistro, quello dell’economia: deve avere un tappo che puntualmente gli impedisce di sentire. E, ahinoi, di cogliere la realtà.

Fai presto

Fai presto

Giorgio Mulè – Panorama

Inutile girarci intorno: il 2014 ce lo siamo giocati. I mesi che ci separano dalla fine dell’anno saranno contrassegnati da dati nefasti su tutti i fronti principali dell’economia: prodotto interno lordo, occupazione, consumi. Non si tratta di fare i gufi e anzi, piccola parentesi, sarebbe ora che Matteo Renzi la smettesse di fare lo spiritoso guardando in faccia la realtà perché c’è un Paese in ginocchio.

L’ultima mazzata che certifica lo stato comatoso dell’Italia è il dato sull’andamento dei prezzi: a luglio sono calati ancora innescando quella micidiale spirale che si chiama deflazione. Per capirci, la deflazione è il contrario dell’inflazione: la gente non compra, i prezzi calano e a ruota si mettono in moto una serie di conseguenze che portano meno profitti alle imprese, meno produzione, meno assunzioni, maggiori difficoltà per sostenere gli interessi sul debito. Una catastrofe. Basti ricordare che, a causa della deflazione, il Giappone ha conosciuto una crisi che gli economisti hanno efficacemente battezzato del «Decennio perduto» anche se gli effetti sono stati addirittura più lunghi.

La discesa dei prezzi a luglio si spera che convinca definitivamente il premier che il bonus da 80 euro è servito solo a fargli vincere le elezioni europee: gli effetti concreti sono sottozero, al punto che il fatturato dei saldi del 2014 ha conosciuto un decremento del 4 per cento rispetto al già pessimo 2013. La gente non spende, se ne frega altamente della riforma del Senato anche perché è terrorizzata dalla mazzata autunnale in arrivo sul fronte dei tributi locali con in testa la Tasi. A questo punto, piuttosto che interpretare Braccio di ferro e fare a cazzotti con la Bce di Mario Draghi (e comunque gli finisce male, dovrebbe sapere il premier), il governo che non ha legittimazione popolare faccia un bagno di umiltà. Concordi con le forze politiche responsabili e le categorie produttive del Paese un piano di emergenza: tagli sul serio la spesa pubblica di 50 miliardi in 3 anni (si può fare, si deve fare) e assuma immediatamente l’iniziativa di rilanciare gli investimenti pubblici e privati. Questo non significa battezzare un nuovo provvedimento roboante, tipo lo Sblocca Italia che in realtà sblocca a stento una vite in quanto si limita a spostare soldi da un capitolo all’altro o, peggio, a sancire il via libera a opere che però daranno lavoro tra due o tre anni come l’autostrada Orte-Mestre.

La strada è quella di dare incentivi a imprenditori piccoli, medi e grandi affinché siano realmente spinti a investire i loro soldi. Significa inventarsi misure come una rottamazione dei macchinari industriali, per esempio, che spesso sono obsoleti, dando in cambio benefici fiscali da riconoscere a chi con l’innovazione risparmia energia o digitalizza l’impresa. Non ci vuole molta fantasia, ma senso pratico per rimettere in moto l’Italia. Al bando l’arroganza, presidente Renzi. Non perda tempo con l’articolo 18 (non è aria) e si concentri sul 2015. Inizi subito e vari le misure entro agosto.

Cottarelli non è un passero solitario

Cottarelli non è un passero solitario

Giorgio Mulè – Panorama

Mi uniformerò alla rappresentazione ornitologica della realtà in stile renziano per descrivere Carlo Cottarelli, ennesimo commissario alla revisione della spesa pubblica della storia repubblicana che è sul punto di congedarsi senza aver tagliato quanto avrebbe dovuto e certamente per responsabilità non sue.

Cottarelli, destinatario di un vaffa metaforico da parte del premier, non è certamente un gufo né appartiene a una delle sottospecie indicate dal nostro aulico capo del governo (gufi professori, gufi brontoloni e gufi indovini). Sbaglia però, e pure di grosso, chi lo ritiene un passero solitario che con le sue parole di verità (tanto erano vere che il governo ha dovuto fare una assai ingloriosa marcia indietro) ha avuto il torto di turbare l’armonia che gorgheggia e si espande nella meravigliosa valle italica immaginata da Renzi.

Cottarelli, figura di primo piano del Fondo monetario internazionale, è piuttosto un punto di riferimento per chi guarda e valuta il nostro Paese dall’esterno; ed è (era) insieme una garanzia di mantenimento degli impegni presi. Che, detto in pratica, significa la capacità di intervenire col piccone su quella montagna di sprechi composta da 800 miliardi di spesa pubblica (la metà del nostro prodotto interno lordo) ed evitare un ulteriore incremento del nostro insostenibile debito pubblico. Per questo all’azione del commissario alla spending review guardavano con fiducia le istituzioni europee e gli investitori internazionali nella spasmodica attesa di segnali di svolta. Anche perché Cottarelli era stato chiarissimo fin dopo la sua nomina a ottobre 2013.

Aveva messo da subito in chiaro alcune cosette straordinariamente strategiche tipo che «a metà anno (2014, ndr) deve esserci uno sgonfiamento delle spese e delle tasse»; che «la cosa più importante della spending è il legame tra la riduzione di spesa e la riduzione delle tasse sul lavoro»; e che un punto centrale della sua azione passava «dall’accentramento degli acquisti(della pubblica amministrazione) con la creazione di 35 soggetti invece che i 34 mila attuali». Bene: non uno di questi punti strategici è stato centrato. E, ribadisco, ciò è successo non per una cattiva volontà di Cottarelli, ma per il sabotaggio e la pessima capacità del governo: basti pensare al paradossale blitz con cui proprio l’esecutivo, d’accordo con i comuni, ha rinviato fino a un anno (e poi chi vivrà vedrà) la centralizzazione degli acquisti dopo averla prevista e voluta per decreto appena tre mesi prima!

Chi sta fuori dai nostri confini chiede fatti e invece, ahimè, qui si continuano a sfornare chiacchiere o improvvisazione come nel caso della riforma della pubblica amministrazione gestita dal ministro Marianna Madia. Ma che ce ne importa, ripetono a Palazzo Chigi, avremo la riforma del Senato, che in realtà ha bisogno di ben altri quattro passaggi parlamentari e di un referendum prima di vedere la luce. Peccato che, come questo giornale ripete da mesi, la questione delle questioni non è il Senato ma l’economia reale, la capacità di affrontare di petto il tema della crescita, della disoccupazione e delle tasse che ci soffocano. Il governo aveva a disposizione un funzionario davvero bravo che avrebbe potuto aiutarlo nell’impresa. L’hanno silurato e hanno buttato un altro anno al vento. Ma si può?