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Ai giovani si dà poca garanzia

Ai giovani si dà poca garanzia

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il ministro Giuliano Poletti ha dichiarato di voler apportare correttivi a Garanzia giovani per aiutare di più l’occupazione. «Bene le aperture del Governo. Non è un mistero, infatti, che il primo bilancio del programma Ue, finanziato fino al 2015 con 1,5 miliardi di euro, sia stato finora piuttosto modesto. E soprattutto poco attrattivo per le imprese». Il problema, spiega al Sole 24 Ore il direttore generale di Assolombarda, Michele Angelo Verna, è che Youth Guarantee è stata lanciata con una parola chiave: «occupabilità», come espressamente indicato nelle raccomandazioni europee, con l’obiettivo cioè di «offrire una risposta ai ragazzi al di sotto dei 25 anni, che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro dopo la conclusione degli studi, rafforzandone le competenze a vantaggio delle opportunità di un impiego». E invece cosa è successo? Che il programma è stato esteso anche agli under 29 «Neet», snaturandone così l’obiettivo iniziale e, nei fatti, rivolgendo Garanzia giovani esclusivamente ai ragazzi con maggiori difficoltà a entrare a contatto con le aziende», spiega Verna.

E i numeri, purtroppo, stanno parlando chiaro: finora da maggio 2014, quando è partito il piano Ue anti-disoccupazione, le opportunità di lavoro rese disponibili sono state 27.094, pari ad appena 38.528 posti, sufficienti a coprire solo l’11% degli iscritti complessivi (poco più di 355mila under 29) e l’1,6% dei «Neet» stimati dall’Istat (oltre 2,4 milioni). È chiaro che c’è stato anche un problema di «execution», ancor più grave considerato che qui siamo in presenza di un piano europeo largamente finanziato (degli 1,5 miliardi a disposizione infatti, oltre 1,1 miliardi arrivano direttamente da Bruxelles, poi c’è il co-finanziamento nazionale). Ci sono troppi meccanismi “tecnico-burocratici”. Qualche esempio? «È molto difficile accedere ai bonus occupazionali per la presenza di filtri che impediscono di destinare a tutti i giovani questa misura – osserva Verna -. Inoltre, il sito internet ministeriale è poco funzionale e l’attività di informazione è affidata essenzialmente agli youth corner che di solito sono situati nei centri per l’impiego, non certo luoghi frequentati da ragazzi».

Quanto disposto sul bonus occupazionale è, a dir poco, paradossale: «Le regole ministeriali hanno imposto una serie di limitazioni all’incentivo – dice il dg di Assolombarda -. Esso è riconosciuto esclusivamente per i contratti a tempo indeterminato e per quelli a tempo determinato e di somministrazione. Per questi ultimi con due ulteriori vincoli: che abbiano una durata già inizialmente prevista pari o superiore a 180 giorni; che i giovani siano profilati in fascia di aiuto “alta”o “molto alta”». L’aspetto peggiore è che non è previsto alcun bonus per le assunzioni in apprendistato professionalizzante, che è tipicamente un contratto di formazione sul lavoro e che doveva essere lo strumento principale di Garanzia giovani.

L’impatto di questi lacci e lacciuoli è evidente: in Lombardia su oltre 3mila giovani assunti, solo 270 hanno diritto al bonus occupazionale. Questo perché, principalmente, il profiling del ministero del Lavoro colloca il 95% dei giovani in fascia di aiuto “bassa” o “media” e quindi non titolari di bonus per le assunzioni a tempo determinato. Il rischio, molto concreto, è che, se le norme non dovessero cambiare, il bonus occupazionale di Youth Guarantee potrebbe rimanere inutilizzato, anche a fronte del nuovo sgravio contributivo triennale previsto dal Job Act per le assunzioni a tempo indeterminato a tutele crescenti. Un peccato, specie in regioni come la Lombardia, che premia e incentiva direttamente le imprese (e non finanzia la formazione fine a stessa). La vera scommessa deve essere la formazione finalizzata al lavoro, che di fatto è la formazione on the job. Per questo «c’è bisogno di modificare le regole. Il bonus occupazionale dovrà essere assegnato per i contratti a tempo determinato di 180 giorni, considerando anche le proroghe. Inoltre, va riconosciuto alle imprese che assumono giovani (a prescindere da filtri e discriminazioni) e deve essere utilizzato pure per i contratti di apprendistato professionalizzante».

Anche il sito ministeriale è da rivedere. Dovrebbe essere una “vetrina”. Invece basta aprirlo per capirne l’inefficacia, come sottolinea Verna: «I giovani dovrebbero trovarci offerte di lavoro, ma gli annunci non sono filtrabili né per tipologia di contratto né per titolo di studio,che è l’unica cosa che i ragazzi conoscono con certezza. Mancano sezioni specifiche per chi ha maturato esperienze lavorative. Manca, inoltre, una sezione per individuare l’offerta formativa nei territori: il primo vero canale di “ritorno in attività” dei giovani soprattutto se la formazione è di tipo professionalizzante e maggiormente orientata al lavoro». Senza considerare, poi, che le aggregazioni giovanili non profit sono state totalmente escluse da Garanzia giovani. Come, pure, è mancata la valorizzazione del ruolo delle scuole e delle università.

«Occorre correggere il tiro – aggiunge Verna – e prevedere l’istituzione obbligatoria di servizi di placement all’interno delle scuole sul modello di quanto finora ha attivato la sola Regione Lombardia. C’è anche una scarsa attenzione alla collaborazione pubblico-privato, che in molti territori non valorizza le Agenzie per il lavoro che sono essenziali per garantire la riuscita di Youth Guarantee. Vanno liberalizzati i servizi per l’impiego in un’ottica premiale: chi più aiuta i giovani a inserirsi in azienda, più deve essere finanziato. In nove regioni l’accreditamento delle agenzie per il lavoro non è stato ancora avviato». Insomma, il ministro Poletti, che finora ha mostrato grande capacità di ascolto, «deve dare forti segnali di discontinuità conclude Verna. «È vero, i giovani registrati al programma Ue sono pochi. Nei prossimi mesi cresceranno. Per loro Garanzia giovani rappresenta un’occasione per l’ingresso nel mercato del lavoro. Il Paese non può permettersi di deluderli».

Disoccupazione: la crisi accresce il divario tra regioni

Disoccupazione: la crisi accresce il divario tra regioni

NOTA

Durante gli anni della crisi la disoccupazione in Italia è raddoppiata (passando dal 6,1% del 2007 al 12,2% del 2013) e si è anche accresciuto il divario esistente tra le diverse zone del Paese. Se nel 2007 la differenza tra la regione con la migliore occupazione (Provincia Autonoma di Bolzano) e quella con la peggiore (Sicilia) era di 10,4 punti percentuali, oggi tra il mercato del lavoro migliore (sempre Bolzano) e quello peggiore (Calabria) ci sono 17,8 punti di disoccupazione di differenza. Lo rivela un’analisi dell centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
A reggere meglio l’impatto della crisi sono state le regioni del Nord Est. Rispetto al 2007 la Provincia di Bolzano ha aumentato i suoi disoccupati solo dell’1,8% seguita da Trento (+3,7%) e da Veneto e Friuli Venezia Giulia (+4,3%). Va molto peggio al Sud: la Calabria passa dall’11,2% al 22,2% (+11%), la Campania dal 11,2% al 21,5% (+10,3%), la Puglia dall’11,2% al 19,8% (+10,3%).

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Sono senz’altro i giovani ad aver subìto fin qui i maggiori effetti della crisi: la percentuale di soggetti tra i 14 e i 25 anni privi di occupazione è infatti passata in Italia dal 20,3% del 2007 al 40% del 2013, raddoppiando praticamente in tutte le regioni italiane. Vanno meglio della media nazionale il Friuli Venezia Giulia che passa dal 14,5% al 24,2% (+9,7%), la Sicilia che passa dal 37,2% al 53,8% (+16,6%) e il Veneto che dall’8,4% del 2007 (miglior dato nazionale) finisce al 25,3% (+16,9%). Anche in questo caso si acuisce il divario tra Nord e Sud. Nel 2007 la differenza tra la regione migliore (Veneto) e quella peggiore (Calabria) era di 23,2 punti percentuali. Oggi tra il Friuli Venezia Giulia, regione italiana con il minor tasso di disoccupazione giovanile, e la Basilicata (ultima con il 55,1% di disoccupazione under 25) esiste un distacco del 30,9%.

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Va invece sottolineato come la disoccupazione femminile sia cresciuta con percentuali decisamente inferiori rispetto alla disoccupazione giovanile e in misura leggermente inferiore anche al tasso di disoccupazione generale. Particolarmente interessante è in questo caso il dato della Basilicata che, nonostante un dato comunque molto alto (14,8%) vede calare – è l’unico caso in Italia per qualsiasi tipo di indicatore – il numero di donne disoccupate rispetto al periodo prima della crisi (erano il 15,3%). La media italiana vede questo indicatore peggiorare di 5,2 punti percentuali passando dal 7,9% del 2007 al 13,1% del 2013. La percentuale di donne senza lavoro è molto più alta al Sud (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia tutte sopra il 20%) che al Nord. E la situazione continua purtroppo a peggiorare: Puglia, Calabria e Campania sono infatti le tre regioni in cui l’occupazione femminile ha pagato il prezzo più alto, con il tasso di disoccupazione che è cresciuto tra il 7,8 e il 9,2%.
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Questione di Censis

Questione di Censis

Massimo Gramellini – La Stampa

L’Italia è un Paese che umilia i giovani, denuncia l’ultimo rapporto Censis del diversamente giovane Giuseppe De Rita. Solo una sparuta minoranza immagina che l’intelligenza serva a farsi strada nella vita. Anche la cultura e l’istruzione godono di scarsa considerazione. I ragazzi italiani credono che per fare carriera servano le conoscenze giuste e i legami familiari, registra il presidente del Censis con sorpresa e, gli va riconosciuto, un certo dispiacere. Dopo di che procede alla nomina del nuovo direttore generale del Censis, l’ingegner Giorgio De Rita.

Sulle prime molti pensano a un caso di omonimia. Invece no, Giorgio è proprio figlio di Giuseppe. Fortunatamente non si tratta di raccomandazione, familismo o conflitto di interesse, fenomeni già catechízzati da De Rita (Giuseppe) in una dozzina di rapporti Censis. Dc Rita (Giuseppe) ha scelto De Rita (Giorgio) in quanto è il più bravo di tutti. E se tuo figlio è il migliore, non dargli il posto solo perché la nomina dipende da te sarebbe una discriminazione all’incontrario. Qualsiasi interpretazione diversa, sostiene De Rita (Giuseppe, ma probabilmente anche Giorgio), significa «cercare a oltranza il capello».

Il ragionamento ha una sua audacia, ma forse sottovaluta il fatto che qualsiasi altro padre interpellato dal Censis affermerebbe che suo figlio è il più bravo di tutti. Per questo nelle nazioni diverse dalla Corea del Nord vige l’usanza di impedire a un padre di assegnare incarichi di rilevanza pubblica a un figlio, sia pur bravissimo. Si tratta di clausole curiose dal nome a noi ignoto di regole. Ne scoprirà l’esistenza il prossimo rapporto del Censis.

Flop della Garanzia Giovani, governo verso nuove regole

Flop della Garanzia Giovani, governo verso nuove regole

Rita Querzé – Corriere della Sera

Peccato: quello che sembra mancare alla Garanzia giovani è proprio il lavoro. Per un misura che ha l’obiettivo di lenire la piaga della disoccupazione giovanile è davvero il massimo. Dicono in regione Lombardia: «Abbiamo stanziato 52 milioni per il bonus occupazione (sconti e sgravi per chi assume a vario titolo con Garanzia giovani, ndr). Il problema è che il cavallo non beve. Insomma, i posti non ci sono. Se continua così, spostiamo i soldi su altre misure: i tirocini, la formazione, il servizio civile».

Le agevolazioni per le assunzioni dei giovani si fanno concorrenza tra loro. Il bonus Renzi prevede decontribuzione fino a 8.500 euro l’anno per tre anni. Spesso attrae gli imprenditori più della Garanzia. D’altra parte gli “sconti” della Youth guarantee per contratti a termine, a tempo indeterminato, apprendistato non si possono sommare con nessun altra agevolazione. Inoltre i contratti a termine danno diritto agli sgravi della Garanzia soltanto quando durano più di sei mesi. E di questi tempi per le aziende spesso sei mesi sono troppi.

Il problema è ormai chiaro anche al ministero del Lavoro dove mercoledì scorso si è tenuto un incontro con le Regioni. Si parla di cambiare in corsa le regole per l’assegnazione del bonus occupazionale, in sostanza gli sgravi per le aziende che assumono i giovani con la Garanzia. D’altra parte se si continua così semplicemente i soldi non vengono spesi. Su 2.000 contratti a termine di giovani under 29 stipulati in Lombardia da luglio a ottobre, 473 erano più lunghi di sei mesi, quindi meritevoli degli sconti della Youth Guarantee. Ma non è finita. Di questi 473 ragazzi, solo 30 sono hanno garantito gli sgravi alle aziende che li hanno assunti. Tutti gli altri, in base alle regole oggi in vigore, sono considerati facili da piazzare sul mercato del lavoro: per loro (e per le aziende che li ingaggiano) nessuna agevolazione. Altra questione: la Garanzia Giovani è sempre più un vestito d’Arlecchino. In alcuni territori, soprattutto al Nord, la macchina è partita. In altri si sta ancora cercando di accendere il motore. In Sicilia il bando per l’accreditamento delle aziende autorizzate a fornire tirocini con la garanzia è saltato per problemi informatici. Ora si sta cercando di partire con l’aiuto del ministero del Lavoro. Non prima però di avere sistemato la vertenza dei precari addetti agli sportelli. Paradosso nel paradosso.

Un problema a cui non è ancora stata trovata soluzione è quello dei giovani che si sono iscritti alla garanzia in regioni diverse dalla propria, fatti girare come trottole per presentarsi a colloqui che non portano a nulla. Per finire, una cosa buona ci sarebbe. La multiutility Iren sostituirà 400 dipendenti in uscita volontaria con ragazzi assunti tramite la Garanzia. Ma piani del genere restano una rarità. Anche nelle aziende a partecipazione pubblica che dovrebbero dare l’esempio.

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

Jenner Meletti – La Repubblica

Sembrava che tutto stesse cambiando, nei nostri campi. Giovani laureati, armati di zappa e computer, impegnati in aziende capaci di rilanciare il Made in Italy. Vendita diretta dal coltivatore al consumatore, mercati dove il contadino porta frutta e verdura e mette la sua faccia. Una ricerca di Nomisma – curata da Denis Pantini e Massimo Spigola – racconta invece che la nostra agricoltura non è un mestiere per giovani (tranne rare eccezioni) e che dalle campagne è in corso una vera e propria fuga. Con un rischio pesante: che la terra diventi ancor più un bene rifugio per chi già possiede ricchezza e non risorsa per chi, nelle campagne, potrebbe trovare un futuro per sé e per il Paese.

Dal 2008 al 2013 – questi i primi dati della ricerca che sarà presentata oggi alla fiera di Bologna a cura dell’Informatore Agrario – gli occupati in agricoltura sono calati del 6% mentre i giovani con meno di 24 anni sono diminuiti del 15%. Alzando l’asta ai 35 anni, si scopre che i giovani agricoltori sono 82.000, il 5,1% del totale.Quelli che invece superano i 65 anni – età in cui negli altri settori si va in pensione – sono 603.390, pari al 37,2%. Diversa la situazione in altri Paesi europei, nostri diretti concorrenti. In Spagna gli under 35 sono il 5,3, in Germania il 7,1, in Francia l’8,7. Ancor più netta la differenza se si guarda al peso degli anziani. Gli over 65 sono appena il 12% in Francia e il 5,3% in Germania. Nelle campagne italiane la «rigenerazione» diventa difficile. Sono al lavoro infatti 14 giovani ogni 100 anziani. In Francia gli under 35 sono 73 ogni 100 anziani, in Germania arrivano addirittura al 134%.

Non è soltanto una questione di età. «Oggi – spiega Denis Pantini di Nomisma – è difficile avviare un’attività davvero produttiva con meno di 20 ettari di buona terra. E invece la Sau – superficie agricola utilizzata – dei giovani agricoltori italiani è in media di 13,6 ettari, mentre in Germania è di 49 ettari e in Francia di 68,5. Anche la nostra dimensione economica è fra le più contenute, con un valore inferiore ai 55.000 euro di produzione standard, mentre in Francia è di 118 mila euro e in Germania di 130.000».

Qualcosa si muove, comunque. Nelle aziende italiane le attività remunerative oltre a quella agricola (ad esempio fattorie didattiche, produzione di energia rinnovabile…) sono pari al 4,7%, nelle aziende di chi ha meno di 40 anni arrivano al 46,4%. Con una disoccupazione giovanile al 42%, il lavoro nei campi potrebbe essere una soluzione. E invece l’attrazione è davvero bassa. Settore pubblico e libera professione sono ai primi posti. La «stabilità occupazionale» è il primo desiderio, con il 40,7%. «Possibilità di lavorare all’aria aperta» registra solo l’1,7%. E chi fra i giovani non coltivatori ha amici o parenti in agricoltura, associa a questo lavoro le parole «fatica e povertà». «Un’agricoltura in mano agli anziani – raccontano i curatori della ricerca – non si impegna negli investimenti e nell’innovazione e così perdiamo potenzialità proprio mentre il Made in Italy è richiesto in tutto il mondo».

L’Europa deve cambiare rotta

L’Europa deve cambiare rotta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’entusiasmo di allora si è trasformato in un senso di declino che ridicolizza l’ingenuità del nostro ottimismo. L’Europa si confronta con un impoverimento demografico e una stagnazione economica che paiono così inattaccabili da valicare il nostro campo visivo ed essere infatti definiti “secolari”. Anno dopo anno, previsioni economiche come quelle pubblicate ieri da Bruxelles si degradano drasticamente, mentre la fiducia dei cittadini si inaridisce. Il fatto che anche democrazie ben ordinate ed economie solide come Germania e Francia si arrestino svela l’illusione che “fare i propri compiti di casa” sia sufficiente. Se le economie sono interdipendenti, le politiche non possono restare rinchiuse dentro i confini del consenso nazionale.

L’intero Occidente, Giappone e Stati Uniti compresi, è preda di un senso di incertezza ingigantito dal confronto con i modelli asiatici del capitalismo statale. Il contratto sociale delle democrazie liberali sembra superato. Un collega di Brookings descrive il vecchio contratto in questi termini: «Lavorando con burocrazie d’alto livello, governi democratici garantivano crescita, una costante riduzione della povertà, sicurezza fisica ed economica, nonché migliore sanità verso il sogno di Cartesio di sconfiggere la morte con la scienza». L’ottimismo economico si identificava con le finalità individuali e addirittura con il senso dell’esistenza. Non ci si può sorprendere se la disillusione di oggi è altrettanto esistenziale.

Il dramma della disoccupazione dei giovani, spesso istruiti, aperti al mondo o critici della società, evidenzia i limiti del vecchio contratto. Il calo dei redditi da lavoro sta erodendo consumi e crescita, producendo una fase senza precedenti di bassa inflazione e di alti debiti. Le aspettative di inflazione proiettano un calo dei prezzi non più su pochi mesi, ma su dieci anni. L’esempio giapponese non è isolato, negli Stati Uniti la quota del reddito che va in salari e stipendi è al livello più basso da 50 anni, le imprese accrescono la produzione senza assumere nuovi lavoratori nella fascia dei redditi medi, centrale alla tenuta del contratto sociale.

Ma mentre gli Usa hanno ritrovato un passo di crescita che pur squilibrato compra tempo alle speranze dei cittadini, l’Europa non ha alternativa che cambiare rotta. Affidarsi alla sola politica monetaria non basta. Le banche avevano un ruolo critico nel contratto, servendo l’economia secondo logiche che non erano solo di massimizzazione del profitto, ma che poi si erano piegate a interessi di consenso politico. Negli ultimi venti anni il canale finanziario ha invece assunto vita propria. Il distacco è vistoso oggi quando l’iniezione di quantità inaudite di moneta manca di ravvivare la crescita, se non nell’unico paese per il quale l’industria bancaria ha un ruolo non di servizio all’economia reale ma di industria esportatrice, la Gran Bretagna.

Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.

La bassa inflazione fa crescere il valore reale dei debiti in tutta l’euro area. Il richiamo all’austerità come valore in sé non è sufficiente. La scarsa comprensione del vuoto di investimenti in Europa è una denuncia dei limiti di visione politica. La caduta del Muro aveva catalizzato la risposta politica europea: individui coraggiosi avevano aperto i confini; l’Occidente aveva riconosciuto le ragioni di investire anche materialmente nel futuro comune; lanciando l’euro, la Ue aveva assecondato l’istinto degli individui, abbattendo i confini, ampliando il mercato e accrescendo la libera circolazione. Poi le paure e le marce indietro. Un quarto di secolo dopo, l’esistenza della Ue è sfidata da chi vuole, non solo a Londra, richiudere i confini. Sentimenti xenofobi stanno dilagando.

In Francia il Fronte nazionale è il primo partito; in Germania il 44% degli elettori ritiene che il partito anti-europeo Alternativa per la Germania rappresenti l’interesse dei tedeschi. La politica si è ritirata dall’ambizione di promuovere il bene pubblico di lungo termine. È tornato il riferimento dei confini nazionali, ne è responsabile anche la gestione della crisi europea in cui a ogni Stato è chiesto prima di tutto di essere autosufficiente: “Chacun sa merde”, a ciascuno il proprio lerciume, come disse nel 2008 a proposito delle banche europee Angela Merkel, proprio il primo leader tedesco che veniva dall’altro lato del Muro. Ora il lerciume è di tutti.

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

“Garanzia Giovani” labirinto burocratico: ogni offerta di lavoro è costata 58.700 euro

Emanuela Micucci – Italia Oggi

Garanzia Giovani sale a quota 273.124 iscrizioni, di cui 76.003, il 28%, sono giovani presi in carico e profilati. Mentre 29.229 sono i posti di lavoro disponibili. Un trend, quello delle registrazioni, salito negli ultimi due mesi a 50mila iscrizioni al mese, come ha sottolineato in Commissione Lavoro del Senato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti indicandolo come «un buon risultato».

Dedicato ai 2.254.000 giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano (i Neet), di cui circa 1,27 milioni hanno fino a 24 anni e tra questi 181mila sono stranieri, cioè il 21% dei ragazzi di questa fascia di età, il programma Garanzia Giovani «più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, si è purtroppo rivelato un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte», osserva il Centro Studi ImpresaLavoro nella ricerca “Il labirinto della Garanzia Giovani” (www.impresalavoro.org). Analizzando i report periodici del ministero del Lavoro dall’avvio del programma (il 1 maggio scorso) fino al 9 ottobre, quando vi avevano aderito 250.770 giovani, di cui 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema Garanzia Giovani ed erano stati offerti 25.747 posti di lavoro. Numeri leggermente aumentati a fine ottobre, come riportiamo in apertura del nostro articolo, ma che sostanzialmente confermano la conclusione di ImpresaLavoro: ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro.

«Sulla base dei dati sui Neet – spiega Giancamillo Palmerini, curatore della ricerca – il nostro Pese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative) pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del programma sarà, pertanto, pari a circa 1.512 milioni di euro». Risorse su cui è intervenuto Poletti in Commissione Lavoro al Senato, indicando in 1,5 milioni la platea massima potenziale di giovani e in 900mila quella ragionevole, ma precisando che le risorse disponibili sono in grado di garantire il servizio potenzialmente a 400-500mila giovani». A oggi, ha aggiunto, «complessivamente sono stati impiegati 561 milioni di euro».

Secondo l’analisi di ImpresaLavoro, la maggior parte delle occasioni di lavoro è concentrata al Nord, ben il 71,7%, contro il 14,3% al Centro e il 13,9% al Sud mentre quelle all’estero rappresentano solamente lo 0,1%: percentuali rimaste invariate nel corso del mese.

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Garanzia giovani, impegnato solo un terzo dei fondi

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Finora «sono stati impegnati 561 milioni di euro» (sugli oltre 1,5 miliardi complessivi a disposizione di Garanzia giovani per il biennio 2014-2015); ma la programmazione attuativa nei territori va avanti ancora a passo lento. Solo 12 regioni (Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna, provincia autonoma di Trento) hanno pubblicato avvisi per misure dirette ai Neet; il Piemonte è in dirittura d’arrivo, mentre la Calabria è «in grave ritardo».

Registrati 262mila giovani Neet
I giovani registrati al programma Ue antidisoccupazione giovanile, partito in Italia lo scorso 1° maggio, sono poco più di 260mila (262.171 al 23 ottobre – appena 62mila hanno fatto un primo colloquio con i servizi per l’impiego). Le opportunità di lavoro pubblicate sono 19.109, per un totale di 27.393 posti disponibili (il 71,6% delle occasioni è concentrata al Nord, il 14,6% al Centro, il 13,8% al Sud, solo lo 0,1% all’estero). La fotografia sullo stato di avanzamento di «Youth Guarantee» è stata scattata, ieri, direttamente dal ministro, Giuliano Poletti, nel corso di un’audizione dinnanzi la commissione Lavoro del Senato, presieduta da Maurizio Sacconi. A livello internazionale solo Italia e Francia hanno approvato piani attuativi di Garanzia giovani (gli altri paesi sono indietro). Ma da noi, da Milano a Palermo, «la messa a punto» del programma viaggia a macchia di leopardo: «Alcune regioni, come Lombardia e Piemonte, sono più avanti perchè disponevano già di piani territoriali per i giovani. Altre sono indietro».

Risorse da impegnare entro il 2015
Il punto, ha ricordato Poletti, è che le risorse vanno impegnate entro fine 2015 (tassativamente). Poi possono essere spese nell’arco dei tre anni successivi. Finora sono stati impegnati circa 230 milioni per le misure nazionali (oltre 188 milioni per il bonus occupazionale e quasi 40 milioni per il servizio civile). Altri 70 milioni (nazionali) sono in corso d’impegno. Mentre le risorse oggetto di programmazione attuativa regionale sono poco più di 260 milioni, il 22,01% degli 1,1 miliardi totali (al netto dei fondi per bonus occupazionale e servizio civile). Il ministero del Lavoro «sta operando a stretto contatto con le Regioni – ha detto il dg per le politiche attive, i servizi per il lavoro e la formazione, Salvatore Pirrone -. Da un lato, stiamo monitorando le iniziative già messe in campo, dall’altro cerchiamo di dare una spinta propulsiva». Del resto, gli iscritti a Garanzia giovani viaggiano al ritmo di 50mila giovani Neet al mese, e con i soldi attualmente a disposizione il servizio potrà essere garantito «potenzialmente a 4-500mila ragazzi». «Il ministro ci ha dato l’immagine di un piano nazionale che solo alcune Regioni riescono in qualche misura a implementare, sia pure con un generale ritardo – ha commentato il giuslavorista, senatore di Sc, Pietro Ichino -. Cè il grave rischio che gran parte delle risorse messe a disposizione dall’Ue restino inutilizzate».

Ecco chi siamo

Ecco chi siamo

Gino Gullace Raugei – Oggi

Cuori nella tempesta economico-finanziaria: i numeri dicono che (forse) il peggio è passato ma il meglio ancora non si vede. A raccontarci l’Italia al tempo della crisi è Giuseppe Roma, direttore generale del Censis (Centro studi investimenti sociali). «Da una parte il Paese appare con tutte le sue grandissime capacità, la sua cultura, la secolare creatività e l’antica inventiva che ci ha fatto essere in qualche modo protagonisti del futuro; dall’altra parte, invece, si vede un Paese sempre pronto a dividersi in una miriade di gruppetti litigiosi che pensano ai loro comodi e non all’interesse nazionale. La storia contemporanea è dominata da giganti, la Cina, il Brasile, l’India e noi ci ostiniamo a rimanere un topolino che rischia di essere schiacciato». La crisi ci ha ributtato agli Anni 50: dominano l’incertezza e la paura del domani. Le statistiche ci dicono però due cose: negli ultimi anni difficili ci ha salvato la vecchia, cara famiglia all’italiana e se la macchina dell’economia ricomincerà un bel giorno a girare sarà merito soprattutto delle donne.

Le grandezze della crisi
Dal 2008 ad oggi il nostro Pil (il Prodotto interno lordo, indice della ricchezza nazionale) è diminuito di circa l’8 per cento. «Vale a dire», spiega il professor Roma, «una somma di circa 119 miliardi di euro, più del Pil dell’Ungheria». Ogni italiano (siamo 60.782.668) ha perso in media 1.957 euro e 79 centesimi. Ma non per tutti è cosi. Già, incredibilmente, tra occupati che diminuiscono e tasse che aumentano, c’è anche chi ha trovato il sistema di diventare più ricco: i 10 uomini più facoltosi d’Italia dispongono infatti di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, equivalente a quello di quasi 500 mila famiglie di operai; e, dichiarazione dei redditi alla mano, i nostri 2 mila Paperoni, cioè lo 0,003 per cento della popolazione. posseggono oggi 169 miliardi (senza contare il valore degli immobili), pari alla ricchezza totale del 4,5 per cento degli italiani.

Famiglie paracadute
Fortunati a parte, la crisi ha reso tutti gli altri più poveri: il reddito degli operai è diminuito del 17,9 per cento, quello degli impiegati e dipendenti del 12, degli imprenditori del 3,7. Risultato: oggi il 72,8 per cento delle famiglie italiane considera insostenibile una spesa extra per un improvvisa malattia o per significative riparazioni della casa o dell’auto; il 24,3 per cento fa fatica a pagare tasse e tributi; il 22,6 per cento spesso non ha soldi per bollette e assicurazioni mentre il 6,8 per cento non riesce più a pagare le rate del mutuo. Il 14 per cento delle famiglie si è trovata nelle condizioni di svendere oro e argento di famiglia per pagare i debiti. Credevamo di esserci americanizzati, finendo con l’annacquare i tradizionali, forti legami parentali; le difficoltà economiche ci hanno invece fatto riscoprire la classica, numerosa famiglia all’italiana che credevamo ormai consegnata ai libri di storia sociale. «In questi anni c’è stato un fortissimo recupero dei valori di solidarietà tra genitori e i figli, nonni e nipoti, fratelli, cugini e persino suoceri» spiega Roma. La famiglia è stata il più efficace degli ammortizzatori sociali, il paracadute che ci ha salvato dalla rovinosa caduta economica. Per il 76 per cento degli italiani la rete familiare include da 6 a 15 persone: un piccolo clan. Solo negli ultimi dodici mesi sono 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto qualche forma di aiuto economico dalle rispettive reti familiari.

Ripresa in rosa
Le famiglie sono il vero termometro della crisi: lo dicono i dati relativi al risparmio. Nel 2008 le famiglie italiane hanno depositato in banca poco più di 52 miliardi di euro; nel 2009 la somma si è ridotta a 56.7 miliardi: il 30 per cento di meno. Nel 2010 le famiglie italiane non solo non sono riuscite a risparmiare, ma hanno dovuto ritirare dai conti correnti ben l4,7 miliardi di euro; nel 2011 è andata anche peggio, coi prelievi che hanno sfiorato i 21 miliardi. L’anno successivo la tendenza si è però invertira: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca 37,4 miliardi. Vuol dire che la crisi ha attenuato i suoi effetti reali? «Siamo effettivamente in una fase in cui il peggioramento degli indici economici tende a rallentare», spiega l’economista Francesco Extrafallaces, «ma questo non vuole dire che la crisi è passata. L’anda- mento del risparmio ci dice piuttosto che le famiglie italiane si sono adattate alle difficoltà». Come? Risparmiando sulla spesa e rinunciando a molte cose: se in casa si rompe qualcosa cerchiamo di ripararlo da soli, con le donne protagoniste assolute del ritorno al bricolage: il 29,3 per cento fa tutto da sola, il 15.2 guida e dirige il braccio dell’uomo di casa. Dal 2009 al 2013 1,6 milioni di imprese italiane hanno cessato di vivere. Secondo l’Ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza, la crisi ha assassinato anche moltissime aziende storiche, quelle con almeno 50 anni di attività: ne sono sparite 9mila, cioè una su quattro. In questo che sembra un drammatico bollettino di guerra c’è un clamoroso numero in controtendenza che rivela un’Italia che non t’aspetti: secondo Unioncamere, nel 2015 le imprese italiane la cui titolare è donna hanno fatto registrare un significativo saldo positivo, con circa 5mila unità in più. E le regioni in cui è più spiccato il processo di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale sono quelle del Sud: Molise (dove sono il 29,7 per cento del totale), Abruzzo (27,8), Basilicata (27,7) e Campania (26,5). A livello nazionale le aziende rosa sono l.429.880, il 23,6 per cento del totale. Le imprenditrici giovani, che hanno cioè meno di 35 anni, sono ben 171.414, cioè il 12 per cento del totale. «Le donne rappresentano una grande speranza per il futuro», dice il professor Giuseppe Roma. «Sono più preparate dei loro colleghi maschi. più determinate ed hanno una qualità importantissima: riescono a fare squadra coi loro dipendenti e questo consente alle loro aziende di adattarsi meglio alla crisi, superando le diffìcoltà». Ricordate la nave albanese Vlona che arrivò nel porto di Bari stracarica di disperati in fuga dalla miseria? Era l’8 agosto del 1991: gli immigrati stranieri residenti in Italia erano allora 625 mila. Oggi sono oltre 5 milioni e parliamo di quelli con regolare permesso di soggiorno; i clandestini si presume invece che siano circa 500 mila.

Gli immigrati: la sfida più difficile
L’Italia è il quinto Paese europeo per numero complessivo di extracomunitari residenti. Le ondate migratorie che da 30 anni investono l’Italia sono il fenomeno sociale più importante della nostra storia recente», ci dice Anna Italia, ricercatrice del Censis. Nell’Italia di oggi, gli immigrati rappresentano una parte importante del tessuto sociale: abbiamo l.6 milioni di stranieri dediti ai servizi domestici un milione dei quali sono badanti che si occupano dell’assistenza agli anziani. Dei 180 mila ristoranti presenti nel nostro Paese, il 10 per cento, cioè 18 mila circa, sono etnici; di questi, uno su 4 è cinese e 1 su 8 arabo. Eppure quando si parla di extracomunitari ci balzano agli occhi le drammatiche immagini dei barconi stracarichi di disperati sulle rotte della morte nel Canale di Sicilia. «Arrivano in media 70 mila persone ogni anno», dice Anna Italia. «Sono quasi tutti in fuga dalle persecuzioni in atto nei loro Paesi d’origine e vengono in Italia per chiedere asilo. Perché, se hanno diritto all’assistenza che spetta agli stranieri perseguitati, scelgono un modo così rischioso per raggiungere l’Italia? «Perché la legge italiana prevede che un cittadino straniero possa chiedere asilo politico solo se si trova in Italia; non può farlo presso le nostre ambasciate o consolati che si trovano sul’altra sponda del Mediterraneo», spiega Anna Italia. I numeri dicono che nel nostro Paese oggi gli extracomunitari stanno occupando spazi importanti anche nei piani più alti del sistema economico. In alcuni settori la presenza di imprenditori stranieri è massiccia; è il caso delle costruzioni edili, dove il 21,2 per cento delle imprese ha proprietari stranieri (in gran parte rumeni); oppure del commercio al dettaglio (il 20 per cento). Mentre i negozianti italiani sono diminuiti del 3,3 per cento, quelli stranieri sono aumentati del 21,3 per cento. In città come Pisa, Caserta e Catanzaro. le botteghe di extracomunitari sono rispettivamente il 35,4, il 34,5 e il 52,7 per cento del totale.

Gli emigranti: giovani e arrabbiati
Siamo la terra promessa di moltissimi stranieri, ma nello stesso tempo molti giovani italiani lasciano il Paese per cercare fortuna altrove: il 54,1 per cento dei nostri emigranti ha meno di 55 anni. Fuggono all’estero soprattutto i giovani che hanno alle spalle famiglie con redditi medio alti: la percentuale di 5,6 per cento di nuclei familiari con un reddito mensile di mille euro che hanno almeno un componente fuori dai confini nazionali, diventa del 10.6 per cento nelle famiglie con un reddito di 4 mila euro. Come negli Anni 50, gli italiani emigrano in Australia; dal 2012 al 2013 c’è stato un aumento di partenze del 116 per cento e negli ultimi tre anni ben 32 mila giovani si sono stabiliti a Melbourne o Sydney. Il 72,7 per cento degli emigranti afferma che la scelta di partire è stata giusta e piena di soddisfazione. Tra tutte le ombre, questa è quella più cupa che si addensa sul futuro del nostro Paese.

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

L’ultimo inganno di Bruxelles, la Garanzia Giovani è un flop

Sergio Patti – La Notizia

Un’altra grossa fregatura dall’Europa. Più che uno strumento efficace per offrire concrete opportunità di lavoro a centinaia di migliaia di giovani italiani, l’applicazione italiana del Programma comunitario Garanzia Giovani (che il Ministero del Lavoro ha di fatto delegato nella sua gestione alle singole Regioni) si è purtroppo rivelata un labirinto burocratico che non conduce da nessuna parte. Lo dimostra una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” (consultabile all’indirizzo www.impresalavoro.org) le cui conclusioni sono sconfortanti, a maggior ragione se si tiene conto che tale programma è volto in particolare a risolvere il fenomeno dei giovani Neet 15-24enni (non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo), stimabili, in Italia, in circa 1,27 milioni (di cui 181mila stranieri) e che corrispondono al 21% della popolazione di questa fascia di età. Un dato estremamente rilevante in ragione della stretta connessione tra l’identificazione della platea dei destinatari e l’entità delle risorse attribuite, per la gestione della Garanzia Giovani, dalla Commissione Europea.

L’Italia ha peraltro deciso di allargare il target group ai giovani di età compresa tra 25 e 29 anni, per un totale di ben 2.254.000 ragazzi. Sulla base di tali dati il nostro Paese riceverà infatti risorse, a titolo della YEI (Youth Employment Initiative), pari a circa 567 milioni di euro. A questi si dovrà sommare un pari importo a carico del FSE, oltre al co-finanziamento nazionale. La disponibilità complessiva del Programma sarà, pertanto, pari a circa 1.513 milioni di euro. Una montagna di denaro pubblico che ha partorito un costosissimo topolino: la ricerca di “ImpresaLavoro” rende noto che al programma comunitario hanno infatti aderito 250.770 giovani, di cui solo 59.150 sono stati poi effettivamente presi in carico dal sistema di Garanzia Giovani.

Mentre l’Europa chiede ai sistemi Paese ingentissime risorse, persino aumentando il budget dei trasferimenti dei singoli Stati alla Comunità, dall’inizio del programma sono stati offerti ai Neet 25.747 posti di lavoro. Questo significa che ogni ragazzo preso in carico è costato sin qui 25.600 euro e che ogni offerta di lavoro ci è costata finora la somma ragguardevole di 58.700 euro. Mentre molte iniziative valide sono rimaste escluse dai fondi.