giuliano poletti

La grande fuga dei giovani dall’Italia, nel 2016 fanno le valigie in 123.000

La grande fuga dei giovani dall’Italia, nel 2016 fanno le valigie in 123.000

di Gianluca Baldini – La Verità

Siamo d’accordo tutti. Chi lascia l’Italia per andare a lavorare all’estero non è per forza migliore di chi resta. «Bisogna correggere un’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori», ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averla più tra i piedi». Ma se, come succede da noi, il fenomeno riguarda ogni anno decine di migliaia di giovani, allora il problema c’è. Anche perché non conviene a nessuno formare professionisti che voi vanno ad arricchire le casse degli altri Paesi.

VIA TRENTINI E FRIULANI

Solo nel 2015 il numero di italiani andati a vivere oltreconfine ha superato per la prima volta la quota di 100.000 unità: si tratta di una cifra pari a due volte e mezzo la media registrata tra il 1995 e il 2010, e superiore di oltre 13.000 unità al dato relativo all’anno precedente, come sottolineano i numeri di una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati Istat. In un anno ci siamo giocati la popolazione equivalente di un piccolo capoluogo di provincia: si tratta di un flusso di persone, silenzioso ma incessante, che dal 2010 cresce inesorabilmente in media del 21 per cento all’anno, e che proprio in virtù di questo potrebbe raggiungere le 123.000 unità già nel 2016, a meno che la tendenza non si mentisca.

Calcoli alla mano, nel 2016, a lasciare la nazione potrebbero essere oltre due italiani ogni 1.000. Non poco. Anche se ci sono aree del Paese dove questi numeri sono anche più alti. Come il Trentino Alto Adige (ben il 2,5 per mille di italiani emigrati), il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta (per entrambe il 2,1 per mille), la Sicilia e la Lombardia (2 per mille). Ma se il fenomeno sta aumentando in tutto lo Stivale, le dinamiche che spingono i giovani a fare baracca e burattini nelle varie aree d’Italia sono differenti e a tratti sorprendenti. Per esempio, rispetto alla media 1995-2010, il flusso in uscita degli italiani si è accentuato molto di più in regioni del Nord che – almeno in teoria – dovrebbero offrire più opportunità rispetto alla media. Lombardia ed Emilia-Romagna, assieme a Veneto, Valle d’Aosta, Marche e Umbria, hanno infatti visto il proprio tasso di espatrio quadruplicarsi in pochi anni. In crescita, ma non sono raddoppiati, i tassi di esodo di alcune regioni del Sud. In Sicilia e in Puglia, ad esempio, il numero di ragazzi che ha tentato fortuna non ha raggiunto i livelli di alcune regioni del Nord. Sono invece stabili in Basilicata e addirittura in flessione in Calabria, rispetto alle medie degli anni passati. In linea con la tendenza nazionale (aumento del 150 per cento) i dati di Lazio, Liguria e Friuli Venezia Giulia.

La classifica delle regioni da cui si emigra di più verso l’estero si è però molto rivoluzionata negli anni: rispetto al 2002 la Lombardia è passata dal 12° al 5° posto per espatri in rapporto alla popolazione residente ed ora è tra le regioni più colpite dal fenomeno, mentre la Basilicata è scesa dal 4° all’ultimo posto e la Puglia dal 5° al quart’ultimo.

PARTONO E NON RIENTRANO

Il risultato è interessante anche se si considera il saldo tra le voci di italiani che rientrano e quelli che emigrano. Il bilancio appare strutturalmente negativo fino al 2001 per quasi 12.000 unità annue in media, mentre è positivo nel triennio successivo e, seppur di poco, anche nel 2007. Dal 2008 in poi, invece, la tendenza si inverte nuovamente, raggiungendo dapprima il saldo record di meno 38.000 unità nel 2012 per poi arrivare a quello ancor più ampio di meno 72.000 nel 2015. I dati analizzati dal Centro studi ImpresaLavoro non vanno confusi con quelli dei saldi migratori globali, che includono quelli dei cittadini stranieri che si iscrivono o si cancellano dall’anagrafe e che evidenzierebbero tutt’altra dinamica.

Per il lavoro una politica industriale

Per il lavoro una politica industriale

Walter Passerini – La Stampa

Quella di oggi pomeriggio è un’occasione importante. L’incontro tra governo e parti sociali, sindacati e imprese, officiato a nome dell’esecutivo dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, suscita aspettative al di là dell’ordine del giorno formale, che parla soprattutto di Jobs act e di revisione delle tipologie contrattuali. «Speriamo non sia un monologo», commenta Susanna Camusso (Cgil). «È una pagina nuova da scrivere», incalza Anna Maria Furlan (Cisl). «Sono pronto a stupirmi», rincara Carmelo Barbagallo (Uil). Il summit cade due giorni prima del prossimo Consiglio dei ministri, che avrà nell’agenda molti temi e qualche sorpresa, se si sta alle parole di Matteo Renzi, che alla Direzione Pd ha affermato: «Finalmente approveremo cose di sinistra».

All’opinione pubblica e ai cittadini interessa una risposta chiara: che cosa sta facendo il governo per agganciare la ripresa? L’Istat ha comunicato che l’Italia vede la fine della recessione ma la crescita rischia di restare al palo. Quello 0,0% del nostro Pil invariato nell’ultimo trimestre 2014 brucia di fronte allo 0,7% della Germania, allo 0,7% della Spagna e allo 0,3% dell’Eurozona. Bisogna fare di più e in fretta. Sindacati e imprese porranno al governo anche temi includibili: crescita, fisco, pensioni. Va bene disegnare un mercato del lavoro più flessibile, tutelato e dinamico, ma le regole da sole non bastano più, ci vuole sostanza.

Il Jobs Act ha portato a casa troppo poco: venerdì verranno approvati gli unici due decreti operativi (contratto a tutele crescenti e nuovi ammortizzatori), ma molti provvedimenti viaggiano con il freno a mano. Altri tre ne verranno annunciati (cassa integrazione, semplificazione contrattuale e maternità), ma tra quelli rinviati e che più contano ci sono le politiche attive, i servizi per il lavoro e l’Agenzia nazionale per l’occupazione. Regole e contratti sono importanti, ma c’è una poltrona vuota al tavolo delle trattative: le nuove politiche industriali. Un’assenza stridente, un silenzio assordante. Lo testimonia la stessa Confindustria con il direttore generale, Marcella Panucci («Positivo l’investment compact, ma va potenziato»): si tratta di disegni e cornici più fiscali che industriali.

Quali sono i settori economici e produttivi su cui vogliamo puntare? Una domanda oggi senza risposta. Eppure i liberisti Obama e Angela Merkel lo hanno fatto per le loro due locomotive, individuando i settori su cui investire e incentivare. Noi ancora no. Quanto investiremo in made in Italy, nelle quattro A (alimentare, abbigliamento, arredamento, automazione), nel digitale e nel green? Senza dimenticare l’industria manifatturiera, senza la quale non ci sara alcuna ripresa. Lo ricorda la Fondazione Edison con orgoglio: nel manifatturiero siamo sesti al mondo per valore aggiunto, quinti per bilancia commerciale, secondi per quota di esportazione di prodotti dopo la Germania e davanti agli Stati Uniti. Il fatturato manifatturiero dal 2008 al 2013 è cresciuto nell’estero del 17%, ma è calato del 16% all’interno. Le imprese italiane sono tra le più competitive al mondo. La zavorra è il crollo della domanda interna, non la competitività dell’industria.

Le pensioni (povere) che prenderemo

Le pensioni (povere) che prenderemo

Antonio Castro – Libero

Chi riesce ad arrivare a fine mese con una pensione di 500 euro alzi la mano. La riforma del lavoro e l’annunciata imminente riapertura del cantiere pensioni (Poletti dicet), spalancano le porte ad un baratro di futura indigenza, come se la fase di crisi attuale già non bastasse. C’è solo da sperare che la stagnazione economica non si prolunghi ancora. E che l’economia italiana torni a crescere. Perché le nostre future pensioni sono aggrovigliate (per crescere) proprio all’andamento del Pil. Insomma, non basterà soltanto restare più a lungo al lavoro italiani con la riforma Fornero sfonderanno quota 68 anni), ma bisogna anche augurarsi che la ricchezza annuale prodotta dal Paese sia consistente e di riuscire a compiere una discreta carriera e un’altrettanta dignitosa crescita del reddito (e quindi dei contributi pensionistici connessi).

Il vero problema, forse, è che gli italiani oggi attivi sanno bene che non godranno di una pensione generosa come i padri. Ma non hanno la minima idea di quanto prenderanno, neppure a spanne. “Merito” certo della riforma Dini (1995), come pure dei “tagliandi” peggiorativi introdotti successivamente. Resta il fatto che gli italiani nella maggior parte dei casi ignorano quanto prenderanno quando andranno in pensione. Il “quando ” è agganciato alle aspettative medie di vita. Un complicato algoritmo matematico (aggiornato dall’Istat), stima quanto camperanno in più uomini e donne, domani, tra 10 anni, tra 20 o 30 anni. Ma, a legge invariata, un 30/40enne può serenamente ipotizzare di non potere staccare prima dei 67/68 anni.

Il problema, piuttosto, è intrecciare la scarsa crescita (e quindi la bassa rivalutazione dei contributi accumulati) con le carriere “canguro” (tanti contratti diversi, redditi e contributi modesti e, spesso, una scarsa continuità contributiva). Considerando anche che, con l’introduzione delle novità portate in dote dal Jobs Act (e prima ancora dei contratti flessibili), l’attuale carriera contributiva è fatta spesso di pochi contributi, lunghi periodi di inattività proprio nei primi 20 anni di accumulo. Un ventennio di accumulo fondamentale soprattutto con il sistema contributivo (che ha scalzato il retributivo), periodo che dovrebbe costituire le fondamenta del Castelletto previdenziale. Il rischio è che la bassa crescita porti fra qualche decennio – come ha stimato la società di pianificazione finanziaria Progetica per il supplemento CorriereEconomia di ieri – insieme alla mancanza di continuità nei versamenti a pensioni irrisorie, comunque non in grado di garantire una vecchiaia dignitosa.

La colpa non è solo dei sistemi di calcolo delle nostre pensioni (retributivo vs contributivo), e neppure della crisi, ma anche della scarsa chiarezza degli enti preposti e, in primo luogo, del governo. Da anni si parla della famosa «busta arancione», una sorta di proiezione pensionistica aggiornata che dovrebbe arrivare a cadenze fisse a tutti i lavoratori per renderli consapevoli di quanto accumulato, dei rendimenti maturati, e quindi della futura pensione che verrà percepita. La si promette da anni con ogni governo e qualsiasi maggioranza. Però, politicamente (ed elettoralmente), non è premiante far sapere a chi ha la fortuna di avere un lavoro oggi quanto (poco) prenderà di pensione domani.

Secondo la simulazione realizzata un 30enne con un reddito netto mensile di mille euro potrà contare su una pensione tra i 514 euro (se l’economia dovesse continuare a ristagnare) e di 600 euro al mese (sempre che il Pil torni a correre). Ancora peggio per il lavoratore autonomo (30enne con 1.000 euro al mese di reddito). Potrà contare su un assegno di appena 432 euro al mese. Non andranno meglio le cose neppure per i redditi più alti (2/3mila euro), addirittura più penalizzati. Tanto più che la famosa integrazione al minimo (per il 2014 è stato fissata a 501,38 euro) per chi andrà a riposo con il sistema contributivo non esisterà più. Con il retributivo lo Stato integrava la pensione di chi non aveva versato contributi a sufficienza. E per cui il reddito da pensione risultava inferiore ad un livello fissato dalla legge, considerato il «minimo vitale». Con il contributivo l’integrazione sparirà. Con il paradosso che chi oggi versa contributi per 30/35 anni, avrà un assegno inferiore al pensionato attuale «integrato al minimo».

L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

Salvatore Cannavò – Il Fatto Quotidiano

La formazione professionale è decisiva. Ma come funziona è un rebus inestricabile, fatto di norme che si sovrappongono, di flussi di denaro che, di fatto, non controlla nessuno, di accordi e complicità tra sindacati e associazioni imprenditoriali. Il controllo su tutta la materia è per lo meno fragile con un ministero, quello del Lavoro, che al di là del responsabile di turno, finora non ha brillato. Quando si parla di formazione professionale può succedere, infatti, che finisca agli arresti un deputato della Repubblica come Francantonio Genovese, coinvolto nell’inchiesta sulle erogazioni pubbliche ai progetti formativi tenuti da numerosi centri di formazione professionale che erano di fatto riconducibili a lui e alla sua famiglia. Materia delicata, scottante, piena di soldi.

Nel caso della formazione interprofessionale, gestita dagli appositi Fondi – sono 21 e vengono mappati dall’Isfol – si tratta di circa 800 milioni di euro l’anno provenienti dalle imprese che li versano all’Inps in ragione dello 0,30% per ogni dipendente. L’Istituto previdenziale, a sua volta, li gira ai Fondi che li gestiscono in forma del tutto privata erogandoli ad Enti formativi di loro stretta competenza. Nonostante il prelievo “pubblico” – cosi almeno stabilì una sentenza del Consiglio di Stato – i Fondi hanno natura giuridica privata come stabilito dal Tar lo scorso dicembre. Questo li mette al riparo da diversi obblighi. Eppure i bilanci sono fondamentali. Secondo il monitoraggio effettuato nel 2012 dal Ministero del Lavoro, dal gennaio 2004 all’agosto 2011 il flusso di trasferimenti operato dall’Inps ai Fondi è stato di 3,59 miliardi di euro. A ottobre-novembre 2012 erano oltre 765 mila le adesioni da parte delle aziende e oltre 8 milioni i lavoratori dipendenti interessati. La torta è amministrata da un patto tra imprese e sindacati. Il Fondo più importante, ad esempio, Fondimpresa, che incamera una quota rilevante dei fondi complessivi – 266 milioni nel solo 2011 – nasce dall’accordo tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Il suo presidente è Giorgio Fossa, già presidente di Confindustria e nel Cda hanno un posto Cgil, Cisl e Uil. Anche il Fondo Banche e Assicurazioni è frutto dell’intesa tra l’Abi, l’associazione delle banche, quella delle assicurazioni Ania e i tre sindacati. Ma ci sono i Fondi che fanno riferimento alla Lega Coop, a Confesercenti, Confcomercio, Federmanager e alle altre sigle sindacali italiane.

Difficile mettere le mani sui bilanci. Walter Rizzetto, deputato M55 – uscito la scorsa settimana dal gruppo dei pentastellati in polemica con Beppe Grillo – oltre a presentare una interrogazione parlamentare, ha fatto un’esplicita richiesta in tal senso all’Ufficio studi della Camera dei deputati. Nemmeno questo è riuscito a mettere le mani sulla contabilità dei Fondi tranne nel caso del bilancio di FonCoop, l’importante Fondo del mondo cooperativo. Le cifre si riferiscono al 2012, anno in cui gli stanziamenti di provenienza dall’Inps sono stati pari a 28 milioni. Di questi, poco più di 23 sono stati stanziati per i “piani formativi” mentre 825mila euro se ne sono andati per “spese propedeutiche” di cui oltre 200mila euro per promozione e pubblicità varie. Oltre l milione, invece, per spese gestionali tra cui 120mila euro di compensi al direttore, circa 500mila euro di stipendi e 70mila euro per “compensi al Cda”. L’incidenza delle spese di manutenzione (6,7%) supera, seppur di poco, i limiti previsti dal decreto ministeriale che ha stabilito un`incidenza dell’8% per Fondi fino a 250mila aderenti, del 6% per Fondi con aderenti compresi tra 250mila e un milione (Fon.Coop è tra questi) e del 4% per quei Fondi con più di un milione di aderenti.

Il problema dell’opacità dei bilanci è ancora più rilevante una volta che si passa al piano inferiore. I Fondi, infatti, non costruiscono direttamente l’offerta formativa. Questa, come ricorda anche il monitoraggio ministeriale, vive con due approcci: “Per alcuni Fondi la scelta viene lasciata al mercato purché erogata da parte di organismi accredidati”. In altri casi l’ente formativo risponde a un avviso “presentando la propria offerta che una volta validata dal Fondo viene inserita in un catalogo accessibile alle imprese aderenti”. Gli enti formativi devono essere accreditati presso le Regioni e presso il Fondo interprofessionale. Ma questo, visti i casi di cronaca richiamati all’inizio, non è indice di garanzia. In realtà, per esperienza diretta di molti operatori, siamo in presenza di una zona poco controllata, in cui contano le relazioni dirette e personali. La dottoressa Patrizia Del Prete, responsabile dell’ente Consophia, che lavora in prevalenza con Fon.Ar.Com ha inviato lettera di denuncia e di segnalazione della situazione a tutti gli enti possibili, dal Ministero all’Inps: “Il problema che cerco di sollevare – dice al Fatto – è che noi siamo schiavi dei Fondi. Non abbiamo un contratto tutelato, siamo completamente ricattabili e non abbiamo mai chiarezza su chi siano realmente i nostri competitor”. Del Prete solleva anche un altro problema. Le imprese non hanno diretto accesso alla consultazione dei dati finanziari. “Tramite l’accesso informatico all’Inps si possono consultare migliaia di dati ma non quelli della gestione del bilancio per i Fondi interprofessionale, il Fondi Reports”. Il quale, come confermato da una lettera inviatele dal Ministero del lavoro, è di esclusiva pertinenza dei Fondi. Cosa succeda a quelle risorse, dunque, è poco comprensibile soprattutto alla luce di alcune decisioni governative. Il Fondo amministrato dall’Inps, infatti, èstato già “saccheggiato” dal governo Letta, prima, e dal governo Renzi, poi, per finanziare la Cassa integrazione in deroga. Nel 2013 sono stati prelevati 246 milioni che si sono ridotti a 92 nel 2014. Con la legge di Stabilità 2015, inoltre, è stato previsto un ulteriore prelievo di 20 milioni per l’anno in corso e di 120 per il 2016. Nemmeno si trattasse di un Bancomat.

Old economy

Old economy

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Correggendo un errore si limitano i danni, non si risolvono certo i problemi. Matteo Renzi, facendo apprezzabilmente autocritica, ha più volte ripetuto di voler modificare l’inasprimento fiscale introdotto per le partite Iva con la legge di stabilità e Giuliano Poletti ne ha annunciato, di conseguenza, la riscrittura. Bene, ma non basta. Perché l’errore deriva dal perpetuarsi di vetusti schemi ideologici che a parole si vorrebbero superare. Il legislatore, invece, resta ancorato alla vecchia cultura del Novecento imperniata sulla diarchia imprenditori-dipendenti – figlia della separazione marxista tra capitale e lavoro, tra padroni e sfruttati, che privilegia solo il dipendente a tempo indeterminato – che dipinge i liberi professionisti e chi si è fatto imprenditore di se stesso, nel migliore dei casi come un limone da spremere fiscalmente, e nel peggiore come un popolo di evasori, quando invece la società moderna, che cammina assai più velocemente, ha già costruito nuovi modelli.

Il Jobs Act, per esempio: lungi da me sottovalutare le discontinuità che produce, ma ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. E gli 80 euro? Una misura da 10 miliardi a favore di chi ha già un lavoro dipendente, stabile e una retribuzione “media”: l’idealtipo dell’elettore di sinistra, insomma, Anche i 5 miliardi di sgravi Irap per i neo assunti, più che generare nuova occupazione, saranno utilizzati dalle imprese per sostituire chi è in uscita, con effetti benefici limitati al turn-over, Stesso discorso per gli under 35 che hanno una partita Iva: dopo aver constatato che nella legge di stabilità (chissà poi perche non è stata utilizzata la delega fiscale) l’aliquota nel regime agevolato dei minimi è stata triplicata (il 15 per cento, contro il 5 per cento deciso dal governo dei tecnici) e aver scoperto che all’innalzamento da 30 a 40 mila euro della soglia di fatturato per l’applicazione del regime fiscale agevolato per artigiani e commercianti, si contrappone l’abbassamento da 30 a 20 mila per lavoratori della conoscenza (addirittura 15 mila nella prima stesura governativa), e dopo aver amaramente visto che i costi saranno definiti in base a coefficienti presuntivi di redditività e non, come sarebbe logico, sulla base delle spese effettivamente sostenute, c’è il rischio che rimpiangano il vecchio Monti.

Perché, in un sol colpo, l’esecutivo dei quarantenni ha ridotto la platea e triplicato le tasse a trentenni che iniziano un’attività da freelance della conoscenza. Senza contare che, mentre si prova a rivoluzionare il sistema degli ammortizzatori sociali, il welfare pubblico per i lavoratori autonomi rimane un tabù e l’aliquota contributiva Inps è appena salita al 29 per cento (e continuerà a farlo fino ad arrivare al 33 per cento nel 2018), mentre per i dipendenti si ferma al 25 per cento. In sintesi, con misure che riducono i contributi previdenziali e ampliano la soglia di applicazione del regime dei minimi, si è dato sostegno al lavoro autonomo più tradizionale (artigiani e commercianti), ma non si è neppure provato a distinguere dentro il variegato mondo del lavoro autonomo, magari premiando chi è completamente rintracciabile nei pagamenti rispetto a chi evade.

Ora bisogna rimediare. L’idea migliore, che era circolata ma è poi stata accantonata, sarebbe quella di varare un veicolo legislativo ad hoc per le partite Iva, completo e soprattutto stabilizzante rispetto alle aspettative future visto che nell’ultima parte del 2014 tanti freelance, consigliati dai commercialisti, hanno deciso che fosse meglio giocare d’anticipo e aprire subito la partita Iva per poter usufruire del “forfettone” (5 per cento di tassazione fino a 30 mila euro) per sfuggire dai nuovi minimi. Meglio arrivare a un regime fiscale e previdenziale più severo ma garantito nel tempo e senza tetti anagrafici, piuttosto che offrire vantaggi spot che velocemente evaporano. Nello specifico, è evidente che diventa difficile per il governo far fare un passo indietro ad artigiani e commercianti dopo aver assicurato loro la gran parte degli 800 milioni stanziati per gli autonomi, Ma proprio per questo, bisogna arrivare a un provvedimento specifico, dove e più facile articolare il dare e l`avere e dove lo spirito liberalizzatore di Renzi (almeno a parole) può essere maggiormente valorizzato.

Nella litania del “largo ai giovani” e dei “millennials pronti a raccogliere le sfide della globalizzazione” non c’e spazio per provvedimenti che spingono i freelance a diventare imprese artigiane o commerciali. Capisco che delle parole di Acta, l’associazione dei freelance che ha lanciato la campagna “#RenzireWind” – “se il presidente del Consiglio è coerente deve bloccare l’aumento dei contributi per la gestione separata Inps e studiare un regime agevolato” – possa esserci una lettura corporativa. Ma è altrettanto vero che non ci sara mai il “nuovo corso” che blairianamente Renzi auspica se l’unico orizzonte resta quello della “old economy”, lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e autonomi “classici”.

La montagna e il topolino

La montagna e il topolino

Giuliano Cazzola – La Nazione

All’avvicinarsi della ‘prova del fuoco’ dei decreti delegati (gli schemi saranno predisposti nel Cdm della vigilia di Natale) emerge con chiarezza la caratteristica del Jobs Act Poletti 2.0, almeno per quanto riguarda la questione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annessa la disciplina del licenziamento individuale. Per diversi motivi, durante il travagliato percorso della legge delega, si è assistito a un duro scontro politico che non trovava riscontro nelle norme che venivano profilandosi nella ‘navetta’ tra le due Camere. Il governo e la maggioranza dichiaravano intenti innovatori non riscontrabili nei principi e criteri direttivi; le opposizioni (a partire da quelle interne al Pd e dalla Cgil) denunciavano gravi abusi di cui non venivano ravvisate tracce nei testi. Alla fine, si è arrivati alla seguente mediazione: «… escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

Se è pacifico che, nel caso di nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, il licenziamento economico ingiustificato sarà sanzionato soltanto con un indennizzo (si sta discutendo sulla misura e se, oltre a un tetto massimo, debba essere prevista una soglia minima) è altrettanto chiaro che, per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato» il giudice potrà ordinare la reintegra. Corre voce che il governo si stia orientando a sanzionare così i casi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto che ha determinato il recesso. Più o meno quanto già previsto nella legge Fornero. La montagna si appresta a partorire il topolino, come denunciano settori della maggioranza? Forse sarebbe stato meglio vigilare sulle mediazioni che il Pd conduceva al proprio interno, piuttosto che sperare di ignorarne la portata al momento dei decreti. Sarebbe almeno importante riconoscere al datore soccombente l’alternativa di optare per un’indennità risarcitoria, anziché attenersi all’ordine di reintegra.

Per finta

Per finta

Davide Giacalone – Libero

Proteste immaginarie contro riforme immaginifiche. La piazza si agita per il sobbollire della voglia di protestare, mentre il legislatore s’arruffa per compensare la genericità nello svogliatamente proporre. Il risultato finale è il crescere della chiacchiera e lo scemare della sostanza. Gli studenti s’intestano il “no” alla riforma della scuola, ma di quale riforma parlano? Gli stessi giovani manifestano contro il cosiddetto Jobs Act, in realtà sfilando contro le suggestioni sventolate, mancanti di provvedimenti effettivi. Anzi, ed è singolare, protestano contro quello che non c’è, ma non contro quello che è già passato, ovvero il decreto Poletti che consente di assumere per tre anni senza contrarre alcun obbligo nei confronti del lavoratore. Conta l’immagine, insomma, non la realtà.

A me piacerebbe che la riforma della legislazione sul lavoro avesse la stessa ruvida chiarezza e univocità di quel decreto, nel qual caso non avrei difficoltà nello spiegare il perché le proteste sono sbagliate. Sarebbe bello poter dire a quei ragazzi: siete in errore e non capite che la difesa dell’esistente è quel che vi condanna alla marginalizzazione. Accendete i fumogeni, sventolate le bandiere palestinesi, impugnate il megafono in un giorno da ricordare, ma, se v’avanza tempo, pensate: il vostro interesse sta in direzione opposta. Dovreste chiedere di fare di più e di farlo più in fretta.

Della retorica della velocità, invece, s’è impadronito il governo. Peccato che la pratichi propiziando la lentezza. Peccato che si sollecitino sentimenti forti per poi dar luogo a risultati mosci. Prendete ad esempio la legge delega sul lavoro, sulla quale è stata e sarà ancora posta la fiducia, per fare alla svelta: il risultato consisterà in una brusca frenata per incostituzionalità. Con il testo passato al Senato non si va lontano, perché la delega è così generica da lasciare lo spazio, domani, ai ricorsi contro i decreti legislativi. Ricorsi innanzi ai quali la Corte costituzionale dovrà constatare l’estrema debolezza dell’indirizzo, quindi la potenziale illegittimità dell’attuazione. E non basta, perché il compromesso politico sul celeberrimo articolo 18 è a sua volta incostituzionale, perché distinguendo fra vecchi e nuovi assunti introduce una discriminazione inconciliabile con la Costituzione. Ci si dovrebbe, semmai, arrivare da un’altra parte: varando il contratto a tutele crescenti e considerando transitoriamente acquisito il tempo dei contratti in essere. Ma nella delega non c’è.

Il ministro del lavoro, al Senato, ha detto che si tende a esagerare, da una parte e dall’altra, circa gli effetti della riforma. Da una parte e dall’altra. Nel bene promesso e nel male temuto. Temo abbia ragione. Ma se ha ragione, vuol dire che l’effetto reale sarà un brodino. Per giunta non è soppressa la cassa integrazione, il che toglie risorse ai nuovi ammortizzatori sociali, che con 1,5 miliardi non ammortizzano un bel niente. Dicono i governativi: intanto cominciamo. Lasciamo perdere che partirono promettendo un approccio assai diverso, ma cominciare con così poco, mettendo nel conto uno stop costituzionale, equivale a dire: facciamo finta. E di tutto abbiamo bisogno, tranne che di far finta.

Lotta ai furbi con il nuovo calcolo del reddito

Lotta ai furbi con il nuovo calcolo del reddito

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Il nuovo Isee, il meccanismo con il quale viene misurata la ricchezza delle famiglie e in base al quale vengono assegnati i diritti ad accedere alle prestazioni sociali in misura ridotta o piena, partirà da gennaio 2015. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha precisato che tutto era pronto anche prima ma si è preferito aspettare per evitare problemi. «Abbiamo valutato, su richiesta degli enti locali, non opportuno anticipare», in modo che, spiega, «tutti abbiano il tempo, altrimenti si arriva all’ultimo giorno e i cittadini diventano matti». E fa sapere che nelle prossime settimane arriverà la modulistica.

Il nuovo Isee, introdotto dal governo Letta, ha come obiettivo di combattere i furbi e lo scandalo dei finti poveri stabilendo un rapporto diretto tra il reddito reale disponibile e l’accesso al welfare. Come? L’autocertificazione è stata ristretta a poche voci mentre i dati fiscali più importanti come il reddito complessivo e quelli relativi alle prestazioni ricevute dall’Inps saranno compilati direttamente dalla pubblica amministrazione. Il vecchio Isee, in vigore dal 1998, lasciava ampi margini di discrezionalità a chi lo compilava, giacché tutto era auto-dichiarato ed erano in molti ad approfittarsi della fiducia che veniva accordata. Così si verificava lo scandalo di chi arrivava all’università in Ferrari e godeva di una serie di agevolazioni fiscali. Dal documento che accompagnava il decreto di riforma dell’Isee, quando fu aprovato dal governo Letta, emergeva che l’80% dei nuclei familiari in riferimento al patrimonio mobiliare dichiara di non possedere neanche un conto corrente o un libretto di risparmio. Ora invece verranno incrociate le diverse banche dati fiscali e contributive e si darà maggiore attenzione alle famiglie numerose e alle disabilità. L’Isee terrà conto di tutte le forme di reddito, persino quelle fiscalmente esenti, e darà più peso alla componente patrimoniale.

Il nuovo indicatore della ricchezza considera anche la perdita del lavoro e l’onere dell’affitto. Qualora la perdita di lavoro o la cassa integrazione comporti una riduzione del reddito superiore al 25%, sarà possibile aggiornare il proprio Isee. È stato elevato l’importo massimo del costo dell’affitto che si può portare in detrazione del reddito ai fini del calcolo dell’indicatore della ricchezza familiare: da 5.165 euro è stato portato a 7.000 euro con un incremento di 500 euro per ogni figlio convivente successivo al secondo. Aumentano anche le franchigie per ogni figlio successivo al secondo e ci sarà la possibilità di considerare la situazione dell’anziano non autosufficiente che ha figli che possono aiutarlo e quella di chi non ha nessuno. Per gli immobili, si considera patrimonio solo il valore della casa che supera l’ammontare del mutuo ancora attivo, mentre viene riservato un trattamento particolare alla prima casa.

Articolo 18, chi vince e chi no

Articolo 18, chi vince e chi no

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Diciamoci la verità sul Jobs Act n. 2. Nell’emendamento presentato dal governo in sostituzione dell’art.4, ci si possono riconoscere tutti: da Maurizio Sacconi a Cesare Damiano, passando per Pietro Ichino. La norma di delega emendata è certamente meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, anche se, a mio avviso, resta inadeguata rispetto a quanto dispone l’articolo 75 della Costituzione. Ma la politica ha le sue esigenze che finiscono sempre per prevalere. E in questo caso occorreva fare in modo che avessero vinto tutti e perso nessuno. Poi si vedrà nel corso dell’iter legislativo e soprattutto al momento della predisposizione degli schemi dei decreti legislativi che dovranno raccogliere i pareri di Commissioni validamente presieduto da due dei protagonisti della mediazione di ieri: Sacconi e Damiano, appunto.

Analizziamo gli aspetti più importanti del nuovo testo. Innanzi tutto, le parole che mancano. Non si parla mai di Statuto dei lavoratori né tanto meno di articolo 18 e di disciplina del licenziamento individuale. Vengono però indicate delle materie che necessariamente richiederanno delle modifiche ad ambedue i santuari della gauche: le norme riguardanti il cosiddetto demansionamento (ovvero la possibilità – ora preclusa – di inquadrare i lavoratori in mansioni inferiori se ciò comporta la salvaguardia del posto di lavoro) e il controllo a distanza, essendo le disposizioni assunte nel 1970 completamente superate dalle nuove tecnologie.

Oddio: non è che i criteri di intervento siano ben definiti, dal momento che essi si limitano a raccomandare al legislatore delegato di tener presenti sia gli interessi dei datori che quelli dei lavoratori. Poi si arriva alla ciliegina sulla torta: «la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Alcune questioni rimangono indefinite. Innanzi tutto, non è detto che dal novero delle tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio sia da escludere la sanzione della reintegra per lasciare il posto soltanto al risarcimento economico. In secondo luogo, noi interpretiamo che i nuovi assunti non coincidano obbligatoriamente con i nuovi occupati, ma che il contratto di nuovo conio si applichi anche a chi cambi lavoro e venga assunto ex novo da un altro datore. Se tali soggetti conservassero, infatti, una sorta di status ad personam (una disciplina del licenziamento “d’annata”), una volta usciti da un impiego stenterebbero a rientrare nel mercato del lavoro per ovvi motivi. Ma avverrà davvero così?

In ogni caso, pare indubbio che dovrà esserci un cambiamento importante: quanto meno la tutela reale – anche se continuerà a essere contemplata e non solo come sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio – interverrà a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Per capire, dunque, come finirà questa vicenda bisogna aspettare.

Nel frattempo però sarebbe consigliabile non cantare anticipatamente vittoria. E fare tesoro della prima riforma Poletti. Il contratto a termine ”liberalizzato” rimane ancora la modalità di assunzione più conveniente. E, a nostro avviso, lo rimarrà anche in seguito. La delega emendata prevede, poi, un giro di vite sui contratti flessibili (non era così nell’emendamento Ichino). Questo è certamente un successo di principio della sinistra. Al centro destra è già capitato – ai tempi della legge Fornero – di sopravvalutare qualche giro di valzer (poi rivelatosi inadeguato) intorno al totem dell’articolo 18 e di non accorgersi che gli stavano sottraendo la cosiddetta flessibilità in entrata.

Date una pensione a Renzi e Poletti

Date una pensione a Renzi e Poletti

Giorgo Mulè – Panorama

Nei piani del governo, quello sulle pensioni doveva essere un blitz: improvviso e, aggiungo io, improvvido. Me lo confidò, lunedì 4 agosto, una mia fonte assai addentro ai segreti ministeriali. Con dovizia di particolari elencò le misure del blitzkrieg fissato per ottobre che prevedeva tra l’altro il varo dell’ennesimo e ipocrita «contributo di solidarietà», la rimodulazione degli assegni calcolati con il metodo retributivo e la revisione delle pensioni di reversibilità. Scrivemmo tutto, ovviamente, e giovedì 7 agosto mandammo in edicola la copertina di Panorama (numero 33) con Matteo Renzi nelle vesti di un vampiro e il titolo: Il prelievo. Nessun giornalone, nei giorni seguenti, approfondì la notizia. Normale, nel provincialismo editoriale italiano. Fin quando domenica 17 agosto il ministro del Lavoro, Guliano Poletti, ha confermato tutto con un’intervista al Corriere della sera. Il resto lo state leggendo in questi giorni (ben svegliati, colleghi) e continuerete a leggerlo nelle prossime settimane.

Sono circa 300 i miliardi che l’Italia paga ai pensionati ogni anno. Per ogni governo si tratta di una categoria bancomat: non c’è manovra, manovrina o manovrona che li abbia risparmiati. Le storture non mancano, per carità, ed è giusto intervenire anche in profondità. Il problema è che bisogna farlo con raziocinio e non a colpi di rapine indiscriminate. Evitando, soprattutto, azioni demagogiche modello Robin Hood come quella in corso: è profondamente sbagliato dipingere il titolare di una pensione da 3.000 euro come un ricco sfondato e quindi meritevole di essere spennato per cedere parte dei suoi soldi a chi ne ha di meno. Perché il pensionato che perderà soldi si sentirà povero e impaurito e spenderà ancora di meno rispetto a oggi mentre l’altro pensionato (già terrorizzato dalla congiuntura attuale e fresco di fregatura dal mancato arrivo degli 80 euro) che ne prenderà poco di più non si accorgerà neppure dell’incremento.

E mentre lor signori discettano di quanto e a chi rapinare, che cosa c’è da aspettarsi se non l’ennesima gelata sui consumi da parte di coloro che con quei 300 miliardi equivalgono al 20 per cento del prodotto interno lordo? Nella platea dei «ricchi» pensionati chi spenderà un euro in più oltre lo stretto necessario? Non ci vuole un economista di Harvard per enunciare questo banale parallelo, lo sanno perfettamente al ministero dell’Economia e pure a quello del Lavoro e lo ha sottolineato un insospettabile come Stefano «chi?» Fassina.

Alla radice di tutto c’è un problema di cultura di governo. Il ministro Poletti è una degnissima persona, un “tecnico” chiamato da Renzi: ma si è nutrito di pane e comunismo (pochissimo il pane) fin da quando aveva le brache corte. Nel defunto Partito comunista ha ricoperto incarichi importanti, è stato custode di quell’ortodossia maledetta nella rossissima Imola negli Anni 80. Che cosa c’è da aspettarsi da un ministro così se non un prelievo dalle pensioni che lui si ostina a chiamare «d’oro»? Inutilmente s’è atteso il colpo d’ala dal sempre assai loquace Renzi, una frasettina tipo: «Suvvia Giuliano, nun di’ bischerate». Macché, muto è stato. Poi, tanto per tenersi sulle generali, ha scritto un tweet che però non smentisce nulla: dice vagamente che i giornalisti a Ferragosto si inventano cose che il governo non ha neppure pensato. Ma a quali cose si riferisce? Tweet da Sibilla cumana.

Comincio a pensare che Renzi, oltreché muto, sia pure sordo. Al premier, che pure dall’orecchio destro, quello delle riforme, sembra recepire qualche segnale, bisogna sturare al più presto l’orecchio sinistro, quello dell’economia: deve avere un tappo che puntualmente gli impedisce di sentire. E, ahinoi, di cogliere la realtà.