giuliano poletti

Vecchie ricette

Vecchie ricette

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Nonostante l’aggiustatina che droga e mignotte potranno dare al pil, il governo rimane a caccia di 20-25 miliardi. La legge di stabilità puntava sul contenimento della spesa, ma dalla spending review non sono arrivati, né arriveranno, i risparmi desiderati, per cui ecco che dal cilindro di ferragosto escono, more solito, tagli ai salari e alla previdenza per tenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tutto condito con l’ennesima puntata – temo non l’ultima – della fiction intitolata “articolo 18” e il solito balletto di dichiarazioni contrastanti tra diversi esponenti del medesimo governo. Non so se andrà davvero cosi, ma se fosse si tratterebbe di una grande delusione e di un grave errore di politica economica. Delusione perché non c’era bisogno del rottamatore armato di inedito vigore giovanilista per mettere in campo pratiche vecchie e già rese obsolete da chi le ha praticate in precedenza non cavando un ragno dal buco, anzi. Ma, soprattutto, ci troveremmo di fronte al gravissimo errore – economico, sociale, politico, di psicologia collettiva – di tornare a spremere il ceto medio che, come ha notato con efficacia Dario Di Vico sul Corriere, ha invece bisogno di continuare a credere di potercela fare a uscire dal pantano recessivo e deflattivo in cui siamo, pena il ritorno di quella depressione che fin qui si è mangiata i consumi e ha azzerato gli investimenti. E saremmo di fronte a una “spremitura” non solo insensata – non si esce dalla crisi punendo il ceto produttivo, sia esso lavoratore dipendente, professionista o imprenditore – ma anche contraddittoria, perché tutti i proclami della politica negli ultimi mesi sono andati in direzione opposta.

Non è un caso che il governo Renzi, primariamente, abbia voluto caratterizzarsi con la manovra degli “80 euro”. Dunque, e assurdo dare con una mano – senza neppure avere la copertura di spesa – nella speranza, peraltro poco fondata, di rimettere in moto la domanda interna, e poi prendere con l‘altra. E questo vale sia per l’eventuale intervento sugli stipendi della pubblica amministrazione, sia per il cosiddetto prelievo sulle pensioni d’oro. Nel primo caso, il tema non e quello di togliere (0 non dare più) un po’ a tutti – secondo la deleteria logica dei tagli lineari, ancor più devastanti laddove c’e maggior bisogno di meritocrazia – ma di rendere efficienti le amministrazioni riparametrando il numero degli addetti. Questo significa trasferire dipendenti da un’amministrazione a un’altra? Ottima cosa. Questo significa mandare a casa un po’ di persone? Spiacevole, ma necessario. E se poi ciò dovesse avvenire sia trasferendo al privato funzioni non strategiche ora nel pubblico (e ce ne sono tante), restringendo così il perimetro funzionale dello stato centrale e periferico, sia per via di una coraggiosa semplificazione del nostro elefantiaco e fallimentare decentramento amministrativo, ancor meglio.

Quanto alla previdenza, pensare di considerare “ricchi”, e quindi da spremere, i pensionati che stanno sopra i 2 mila euro lordi (ma anche con l’altra cifra che circola, 3.500 euro, sempre lordi, il discorso non cambierebbe), è stupido, prima ancora che profondamente sbagliato. E lo sarebbe, sbagliato, anche se l’asticella che individua l’area di prelievo si alzasse di molto. Non solo perché in quest’ultimo caso si rastrellerebbero risorse infinitesimali, ma perché non è dai redditi, per quanto alti, che si deve provare a ricavare ciò che serve a risistemare – specie se lo si vuole fare una volta per tutte – la baracca dei conti pubblici. No, l’obiettivo deve essere, e senza intenti punitivi, il patrimonio. Prima di tutto quello pubblico, sul quale occorre costruire una modalita di “sfruttamento” – cui chiamare a concorrere quello privato, con l’obbligo di acquisto di nuovi titoli e non con prelievi patrimoniali – con ‘intento di ridurre sotto il cento per cento del pil il debito pubblico (e relativi oneri) e ricavare risorse per investimenti in conto capitale. Bini Smaghi dice che si trattercbbe di una manovra pericolosa? Rispetto molto il suo parere, ma non lo condivido. Intanto perché egli critica allo stesso modo tutte le ipotesi di intervento sul debito, dal consolidamento alla patrimoniale, ma io non propongo né l’una né l’altra. E poi perché pecca di conservatorismo in un fronte che a furia di prudenze ci ha portato ad accumulare 2.168 miliardi di debito, di cui cento solo nel primo semestre di quest’anno. E non è certo con il mestolo degli avanzi primari che si svuota questo enorme pentolone.

Dunque, Renzi – che ha mostrato apprezzabile prudenza verso le ipotesi adombrate da alcuni suoi ministri – nel rimettersi in marcia tralasci questo pericoloso itinerario. Che è anche l’unico modo per uscire vivo dallo scontro sull’articolo 18. Il quale è un tabù che sarebbe meglio cancellare, ma è anche uno strumento, specie dopo la riforma Poletti del contratto a termine, dagli effetti decisamente limitati. Abolirlo sarebbe politicamente efficace, economicamente poco significativo. Ora, delle due l’una: o Renzi ha un piano di rilancio dell’economia vero, e allora può anche fregarsene di toccare l’articolo 18, oppure non ha carte in mano e quello diventa il suo jolly. Io preferisco la prima ipotesi.

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Vittorio Feltri – Il Giornale

Da almeno vent’anni si parla della necessità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma nessuno è mai riuscito a scalfirlo. Perché non è una norma, bensì una divinità e come tale non si discute: si accetta, anzi va adorata.

Matteo Renzi, che non è stato in grado di riformare alcunché tranne le insegne di alcune botteghe istituzionali (Province e Senato), ha però favorito il cambiamento del linguaggio politico, e ha definito il suddetto articolo 18 «un totem».

Giuliano Poletti, comunistone di vecchia data, ministro del governo in carica, si è affrettato a dire che la cancellazione della regola – totem o dogma che sia – non è in programma e che pertanto essa rimarrà in vigore. Per sempre? Probabilmente sì. Abbiamo la tentazione di dare ragione al responsabile del dicastero del Lavoro. Il problema infatti non è l’eliminazione di un articolo dello Statuto dei lavoratori, ma dello statuto stesso, visto che i lavoratori sono già stati eliminati. Una volta si diceva: moriremo democristiani. Oggi abbiamo un’altra certezza: saremo sepolti in base ai criteri fissati dell’articolo 18. Il quale articolo 18 è il paradigma della stupidità italiota. Esso infatti, come ben sanno gli imprenditori, è applicabile soltanto nelle aziende con più di 15 dipendenti. In quelle piccole – con meno di 15 dipendenti – il padrone licenzia a proprio piacimento. In teoria. In pratica non è così.

L’imprenditore fa il proprio interesse, per cui non caccia uno perché gli è antipatico, semmai uno che non rende. Chissà perché le cose ovvie non sono persuasive. È un fatto comunque che il comandamento numero 18 discrimina. Esattamente come discrimina la cassa integrazione, riservata al personale delle grandi imprese e inaccessibile a quello delle piccole. Davanti a questo sistema iniquo non c’è politico o sindacalista che osi fiatare, salvo strillare e stracciarsi le vesti se qualcuno minaccia di cancellare il totem. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello corrente, i radicali proposero un referendum per spazzarlo via. Non passò. Anche perché Silvio Berlusconi, che si accingeva a vincere le elezioni (2001), disse a Marco Pannella che il plebiscito era inutile in quanto, non appena rientrato a Palazzo Chigi, egli avrebbe provveduto a depennare la discussa norma.

Il Cavaliere in effetti ci provò in ogni modo, ma fallì: tutti gli andarono contro con forza e gli impedirono di muovere un dito. Se lo avesse mosso, glielo avrebbero immantinente amputato. Cosicché, Fornero o non Fornero, siamo ancora qui a litigare sull’articolo 18. Che fu elaborato da Giacomo Brodolini, socialista, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, promotore dell’intero Statuto dei lavoratori (varato nel 1970) che, con rispetto parlando, sembra scritto da Stalin dopo essersi scolato una bottiglia di vodka.

Non è un caso che le difficoltà dell’economia italiana siano cominciate con l’approvazione di quella legge dall’acido sapore sovietico. Nonostante ciò, a quasi mezzo secolo dall’introduzione della storica schifezza, mentre la crisi nazionale e internazionale galoppa e la disoccupazione avanza speditamente, c’è ancora chi – la sinistra nostalgica, politica e sindacale – difende il capolavoro di Brodolini, una brava persona morta giovane (50 anni) dopo aver vissuto con la testa nelle nuvole rosse dell’Urss e dintorni.

Se c’era qualcosa da fare con urgenza per modernizzare il Paese, questa era proprio la riforma radicale del pluricitato statuto. Invece non è stato toccato. Ciò dimostra che gli slogan dei riformisti sono frasi vuote, spot elettoralistici e nulla più. La conferma viene dal ministro Poletti, il quale, intervistato un giorno sì e l’altro pure dalla stampa compiacente, ammette che bisogna ridurre al minimo la conflittualità nei rapporti fra impresa e lavoro, tuttavia non intende abrogare né lo statuto né l’articolo 18. Domanda: e allora come si fa a creare collaborazione fra datori di lavoro e prestatori d’opera? Si chiama il parroco affinché benedica gli opifici?

Questo è ancora poco. Poletti aggiunge: per sciogliere la grana degli esodati dobbiamo recuperare risorse. Giusto. Recuperarle dove? Dalle pensioni alte, che vanno tagliate e/o ricalcolate su base contributiva, in barba a un patto sociale pregresso. Lo Stato si rimangerebbe così gli impegni presi a suo tempo con gli attuali pensionati, ignorando che sugli assegni più ricchi (si fa per dire) esiste già un cospicuo prelievo a titolo di obolo di solidarietà.

Pur di non segare le spese superflue, magari quelle identificate da Carlo Cottarelli (all’uopo ben pagato), questo simpatico governo è pronto a recidere ulteriormente le pensioni dopo aver già reciso il medesimo Cottarelli, reo di aver svolto il proprio dovere. Non ce l’abbiamo con Renzi, per carità, ma ci rendiamo conto che, stante la situazione, chiunque al suo posto, anche i predecessori e gli aspiranti successori, potrebbe far peggio ma non meglio di lui. La politica italiana è abilitata a usare le forbici solo per tranciare le palle ai cittadini.

Lasciate in pace il ceto medio

Lasciate in pace il ceto medio

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La parola chiave della politica sociale di metà agosto è «asticella». L’ha usata ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, intervistato sul Corriere da Enrico Marro. Si discuteva di un (non tanto) ipotetico contributo di solidarietà (slittamento lessicale che sostituisce la parola «tassa») a carico delle pensioni alte ed è rispuntato un progetto e un vecchio dilemma dei governi succedutisi in questi tribolati anni. Se il contributo di solidarietà lo si carica sugli assegni mensili veramente d’oro e d’argento le risorse che si rastrellano per questa via alla fine sono poche, assomigliano dal punto di vista del bilancio dello Stato a briciole. Se invece l’asticella ministeriale del prelievo viene collocata più in basso ecco che la platea dei colpiti diventa molto più larga e si raccoglie decisamente di più. Il guaio è che in questo modo non ci si limita a sforbiciare i redditi dei superburocrati che godono di una pensione aurea ma si tassa di nuovo una parte significativa del ceto medio.

Il governo Renzi ha scelto questa strada? La tesi di un prelievo con asticella bassa nel dibattito di politica economica viene in genere attribuita al deputato Yoram Gutgeld, renziano della seconda ora che in passato aveva immaginato un contributo del 10% sulle pensioni superiori a 3.500 euro per un incasso totale di 3,3 miliardi. Dopo essere stato per un lungo lasso di tempo in ombra, Gutgeld dovrebbe essere il perno della squadra di economisti che Matteo Renzi vuole vicino a sé da settembre a Palazzo Chigi e non è un caso, dunque, che i ministri ricomincino a ventilare l’ipotesi del contributo di solidarietà. Gutgeld è un ex manager di punta della società di consulenza McKinsey ed è naturale quindi che nella sua formazione economico-culturale prevalga un’impostazione di tipo illuministico, sorprende caso mai che Renzi, attentissimo al consenso popolare, la faccia propria. Una nuova tassa che colpisca il ceto medio, seppur la sua porzione relativamente più agiata, riporterebbe indietro le lancette dell’orologio del Pd. I democratici sarebbero risospinti nel solco della tradizione della sinistra italiana poco attenta ai mutamenti di opinione del ceto medio tartassato.

Attenzione, però. Già nei giorni scorsi le cronache hanno registrato un repentino cambio di umore a Nord Est con un sondaggio secondo il quale anche gli artigiani veneti – che pure avevano votato e si erano spellati le mani per Renzi – cominciano a nutrire dubbi sull’efficacia della sua azione. Il segnale, per quanto agostano, non va sottovalutato: vuol dire che i disillusi non albergano solo tra le élite. Ma al di là delle considerazioni che attengono al campo dei sondaggi e degli indici di popolarità, aprire uno scontro con il ceto medio proprio ora, alla ripresa delle attività dopo la breve pausa estiva, sarebbe un errore grossolano. Il Paese ha bisogno di un semestre di mobilitazione per la crescita, di sforzi sinergici tra azione di governo e sentimento della società civile. Gli 80 euro in busta paga devono servire a far riprendere i consumi e rianimare la boccheggiante domanda interna. Se invece alla fine a dominare la comunicazione dovesse essere ancora una volta la parola «tasse» saremmo punto e a capo. Saremmo pronti per organizzare il Festival della Depressione.

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Chi il Jobs act lo ha fatto sul serio oggi confida in una crescita del Pil del 4 per cento. L’Italia del Jobs act per ora solo “parlato” fa i conti con i dati in chiaroscuro del mercato del lavoro. E supera di un punto il tasso medio di disoccupazione europeo (siamo al 12,3%) mentre la Germania si ferma al 5%, livello, come avrebbe detto Paolo Sylos Labini, «fisiologico» o addirittura frizionale.

Forse si è fermata l’emorragia di posti di lavoro, ma non c’è ancora una netta inversione di tendenza. Sono una goccia quei 50mila nuovi occupati registrati a giugno a fronte dei 31mila giovani in più che, invece, hanno perso il posto. E, in termini qualitativi, segnala un Paese non ancora in grado di dare risposte agli “azionisti del suo futuro”, i giovani appunto. Né vale la controdeduzione secondo cui il dato può essere in qualche modo “positivo” perché aumenta il numero di persone che si affacciano sul mercato avendo aspettative positive sul l’evoluzione dell’economia. Purtroppo la quota di inattivi tra i 15 e i 64 anni resta invariata, con un tasso monstre del 36,3 per cento (che diventa del 73,2% tra i giovani con un record di 4,3 milioni che non cercano nemmeno un’occupazione).
Ha detto bene ieri il ministro Pier Carlo Padoan. Serve uno sforzo in più per la crescita perché la situazione sta peggiorando. L’inflazione allo 0,1% conferma un’economia stagnante e congelata nella paura del futuro. Lo zerovirgola con cui il Pil chiuderà l’anno è preoccupante. I mercati si sa quanto siano rapidi nel “cambiare verso” e l’autunno potrebbe riservare sorprese. La risposta può venire dal l’Europa, come auspica il Governo italiano, se davvero al prossimo Ecofin verranno programmate azioni di investimento pubbliche e private. Ma non può non venire anche dall’Italia.

Lo sforzo fatto dal buonsenso del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha dato risposte utili sui contratti a termine e sull’apprendistato; ma non si può realisticamente confidare su poche misure spot e di tipo ordinamentale (seppur importantissime) per cambiare verso alla crescita dell’intera economia.
L’aver rinviato la discussione sulla delega-lavoro, già viziata dal peccato d’origine della genericità, non ha giovato all’azione di incisività della politica economica, soprattutto perché è stata travolta (e oscurata) dal dibattito estivo sulle riforme istituzionali, tanto rissoso quanto lontano per i cittadini. Gli sforzi di rilancio dell’azienda Italia passano per ora soltanto dalla tenacia delle imprese impegnate a conquistare mercati nel mondo. Ma non bastano a compensare le migliaia di casi di crisi aziendali finora tamponate con un sistema di ammortizzatori sociali tradizionali o in deroga, insostenibile, alla lunga, rispetto al sistema fiscale.

È come se si faticasse a prendere coscienza che servono azioni vere di politica industriale: non basta l’enunciazione affidata a poco più di un tweet sulla volontà di facilitare la rivoluzione digitale e di immettere forti misure di innovazione del modello produttivo. Servono investimenti mirati, scelte strategiche costose per le quali, tra l’altro, le risorse – come ha detto ancora ieri lo stesso Padoan – non sarebbero di difficile mobilitazione: come del resto è stato fatto negli Usa dove la “obamanomics” ha riscoperto e rilanciato, con dovizia di mezzi, la vocazione manifatturiera di un Paese immenso coniugandola con un colossale disegno di conversione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Puntare sul trasferimento tecnologico dal mondo dell’accademia (o della ricerca astratta) a quello dell’industria è vincente, così come sono stati vincenti provvedimenti settoriali come i bonus per ciò che ruota sul business della casa.

Tentativi, mezze-scelte, azioni contingenti: non si ha la sensazione di un disegno organico, di quella «visione» che invece Matteo Renzi rivendica (lo ha fatto anche ieri) spesso come dato acquisito. Tanto più che anche quei tasselli finiscono per essere sparigliati dalle scelte “vecchio stile” operate dal Parlamento, come è accaduto per il parziale smontaggio della riforma Fornero e per le moltissime micro-norme di spesa che si sono affastellate fino a bruciare il tesoretto dei tagli già realizzati. Carlo Cattarelli ha messo sul tavolo il problema dei problemi: se i tagli, già assai meno di quelli che servirebbero per rendere più efficiente la macchina pubblica e ridurre il perimetro malato dell’economia di Stato, vengono vanificata con nuova politica di spesa, si bruciano le uniche risorse utilizzabili per raggiungere il principale obiettivo di politica economica: ridurre le tasse sul lavoro (sia per l’impresa sia per i lavoratori).
È questa la vera politica per l’occupazione: il ridisegno del carico fiscale sugli onesti che oggi rappresenta un record mondiale e azzera la possibilità di investire nel futuro, di agire sulla domanda interna, di creare quel meccanismo virtuoso tra redditi, spesa, investimenti, occupazione. È questa l’unica “catena del valore sociale” che fa girare correttamente l’economia e crea il lavoro. Quello vero.

La pietra al collo

La pietra al collo

Davide Giacalone – Libero

22 milioni di italiani ne mantengono 60. Fra i 22 ve ne sono che lavorano, ma non producono. Fra i 38 ve ne sono che producono, ma ufficialmente non lavorano. Leggere in questo modo il dato sulla disoccupazione aiuta a capire il problema, che consiste nel far lavorare regolarmente più persone, non nel creare più mantenuti. C’è un altro punto, nella lettura corrente, che appare capovolto: si reclamano soldi per creare lavoro, laddove sarebbe più logico lavorare per creare soldi. La mentalità dei mantenuti s’è così diffusa che il lavoro è interiorizzato non come funzione della produzione di ricchezza, ma come strumento per la sua più equa distribuzione. Da qui parte la catena di errori che si continua ad allungare, supponendo che dalla recessione si esca pompando i consumi, anziché rilanciando la produzione. Accettando che si dia una mano all’Italia che fa da zavorra, i cui costi sono la negazione della produttività, anziché una spinta all’Italia che ancora corre e porta a casa 400 miliardi di esportazioni (siamo uno dei cinque grandi con la bilancia commerciale, relativa a manufatti, attiva).
Quando leggo che nella pubblica amministrazione si suppone di potere ancora usare strumenti come i prepensionamenti e gli scivoli, che hanno precipitato l’Italia nel baratro del debito crescente, mi domando se chi ne parla è solo mancante di fantasia o proprio ignora la realtà. Quando sentiamo dire che si dovrebbe sfondare il parametro del deficit mi chiedo se nella mente di chi lo dice il debito ulteriore possa essere ripagato con balzi produttivi del 4-5% (stupefacente, nel senso della sostanza assunta), o suppongono che si possa tassare qualche altra cosa, così sprecando anche il debito ulteriore. Per portare quei 22 milioni a diventare non 23 ma 30 (chiamando al lavoro moltissime donne e moltissimi giovani che ne sono fuori), occorre togliere dal groppone di chi lavora il peso della spesa improduttiva e delle garanzie di cui i più giovani non godranno mai. Sì, anche rivedendo i “diritti acquisiti”, perché divenuti ingiustizia consolidata. L’elasticità e la permeabilità del mercato del lavoro non sono le porte della negazione delle garanzie, ma l’uscita di sicurezza per non avere garantita la disoccupazione odierna e l’impoverimento perpetuo.
Il decreto sul lavoro a tempo determinato, pur con qualche bozzo, va nella direzione giusta. Ma perché accontentarsi di segnali e direzioni? Perché non varare subito la normalità dei contratti con minori oneri fiscali e previdenziali, in cambio di minore stabilizzazione e immobilità? Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, avrebbe ragione nel rispondere: intanto questo lo abbiamo fatto. È così. Ma perché poi sente il bisogno di aggiungere che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca? Cancellarlo può anche darsi che sia una bandiera ideologica, ma lo è anche immolarvisi. Ed è una presa in giro, perché è come dire: lo conserviamo, ma dimenticatevelo. Non è onesto. Ed è uno strizzare l’occhio all’Italia zavorra, sputando nell’occhio all’Italia che corre.
Il nostro mercato interno è stato gettato in mare con una pietra al collo, ma reagisce stringendosela al petto e non volendola mollare, quasi fosse l’ultimo scoglio sicuro. La reazione è comprensibile, perché dettata dalla paura. Ma l’unica cosa di cui avere paura è di restare con un terzo degli italiani che ne mantiene due terzi. O con l’elasticità relegata nel mercato che degrada dal grigio chiaro al nero notte, così affidandosi all’illegalità quale valvola di sfogo contro l’immobilità. Il riflesso politico di questa paura è il voto indirizzato a chi promette aumenti di reddito cui non corrispondono aumenti di produttività. Come se non fosse chiaro che quella è la via della perdizione. Non si può ragionare in due tempi: intanto dono, poi riformo. Questa formula porta a un doppio tempo diverso: ora regalo, poi me lo riprendo (con le tasse).
C’è in giro gente che cita Keynes, supponendo sia stato il teorico dello stampare denaro per finanziare i consumi. Figuriamoci: la Teoria Generale è del 1936, mentre la Repubblica di Weimar, e il suo stampificio di moneta, era crollata nel 1933! In un suo mirabile scritto ancora precedente (The End of Laissez-Faire, 1926) avverte di un pericolo: lo stato di povertà e bisogno convince tutti della necessità di cambiare, ma quando non se ne hanno più gli strumenti; mentre lo stato di ricchezza e soddisfazione toglie l’incentivo a cambiare, proprio quando sarebbe più facile e opportuno. Noi siamo in un punto di mezzo, convivendo con la ricchezza diffusa e il diffondersi della paura. Il tempo che stiamo perdendo non ce lo ridarà nessuno.