giuseppe pennisi

Il caso Grecia

Il caso Grecia

Un ritorno frequente, sulla stampa italiana, è che ove fossimo costretti a chiedere all’Unione Europea e al Fondo Monetario Internazionale di venire in nostro soccorso, le condizioni sarebbero così drastiche che «finiremmo come la Grecia». Della Repubblica ellenica non si parla da tempo sui media italiani. Abbiamo però ancora in mente le immagini e i resoconti strappalacrime di due anni or sono di un Paese drammaticamente impoverito.

Pablo Triana giovane docente all’ESADE, la Business School di Barcellona (una delle migliori del continente), si è preso la briga di fare i conti con attenzione e di scrivere due paper ancora non pubblicati. Il primo è intitolato Eurozone Bailouts: Greece’s Least Austere Period in Modern Times (Salvataggi Europei: il meno austero periodo della Grecia in tempi moderni), il secondo The AAA-zation of Greece Debt (Come il debito greco diventa tripla A).

Nel primo lavoro, utilizzando statistiche ufficiali greche dal 1980 al 2015, Triana mostra che la spesa e il disavanzo pubblico non sono diminuiti nel periodo del “salvataggio” rispetto ad altri periodi della Grecia moderna, successivamente al governo della giunta militare. In effetti sono aumentati in misura significativi in rapporto al Pil con l’unica eccezione del 2009, anno in cui raggiunsero un picco tale da innescare il processo che portò al primo salvataggio. L’austerità immediatamente dopo il 2009, in effetti, salvò il Paese dal tracollò finanziario e provocò, per un breve periodo, una drastica contrazione della spesa con implicazioni molto forti sul settore bancario che era alimentato, indirettamente e direttamente, dall’intervento pubblico.

I “salvataggi” , in effetti, prevennero e non causarono una politica di austerità “brutale”. Le casse dello Stato erano vuote, il mal gestito sistema bancario era al collasso e nessuno era disposto a fare credito alla Grecia. Milioni di greci continuarono a ricevere i loro stipendi e le loro pensioni, ebbero i loro risparmi protetti grazie a garanzie pubbliche (anche internazionali) e il Paese continuò a vivere al di sopra dei suoi mezzi anche in modo esagerato. I 260 miliardi di euro prestati sino a ora (a condizioni molto favorevoli) sono serviti a pagare disavanzi di finanza pubblica per circa 106 miliardi di euro. I dati mostrano che il periodo 2010 al 2015 è stato caratterizzato da una spesa pubblica molto elevata. Mai la Grecia ha avuto sei anni così poco “austeri”.

Coloro che accusano UE e FMI di infliggere pene insopportabili sbagliano di grosso. Lo dimostrano indirettamente i dati sulla finanza internazionale della Repubblica ellenica: nel 2015 in Grecia il rapporto tra pagamenti per interessi e debito pubblico lordo era dell’1,94%, il più basso della media di un gruppo di undici Paesi il cui debito sovrano è soggetto a rating. Ad esempio, la Germania, spesso accusata di essere particolarmente severa con la Grecia, aveva un rapporto del 2,19%.

I cattivi maestri della sinistra

I cattivi maestri della sinistra

È uscito in queste settimane Cattivi Maestri della Sinistra: Gramsci, Togliatti, Lukàcs, Sarte e Marcuse di Luciano Pellicani (Rubbettino editore, pagg. 130, 12 euro). L’autore, professore emerito alla LUISS Guido Carli e componente del board scientifico del Centro studi ImpresaLavoro, è uno dei sociologi più noti non solo in Italia ma anche all’estero (numerosi suoi saggi sono stati tradotti in varie lingue e adottati in Università straniere). Quest’opera costituisce la summa del pensiero liberal-socialista di Pellicani. In un’epoca in cui numerosi lettori chiedono testi snelli, collegare le analisi a nomi di personaggi noti e che hanno fatto la storia del pensiero di una certa sinistra è anche il modo più efficace per trasmettere il messaggio.

Il saggio inizia con una premessa in cui si richiama quella “guerra tra le sinistre” che ha caratterizzato la civiltà europea per oltre due secoli e che muove dal conflitto filosofico prima che militare tra i “partigiani di Sparta” e i “partigiani di Atene”: collettivisti i primi (Rousseau, Deschamps, Morelly, Mabby), individualisti i secondi (Montesquieu, Voltaire, Diderot, Condorcet, D’Alambert). Ancora più radicale è stato il contrasto all’interno della sinistra russa. Al bolscevico Lenin – che stigmatizzava il liberismo come «grave malattia» a motivo del fatto che intendeva europeizzare la Russia – il menscevico Yulij Martov oppose l’idea che «il socialismo dovesse essere la più alta incarnazione dell’individualismo». Nonostante quella che Pellicani correttamente definisce «la bancarotta planetaria del comunismo», tale conflitto non è terminato. «Accade così che oggi, nella civiltà nella quale e della quale  viviamo, si oppongono due modelli di società: quello liberista e quello liberal-socialista». Si annidano però sempre i “cattivi maestri della sinistra”, nostalgici di un mondo privo di libertà.

Da queste considerazioni di contesto prende avvio il libro che è composto di cinque ‘autoritratti’, perché ciascuno di essi è costruito partendo dai testi e dagli scritti del ‘cattivo maestro’ a cui si riferisce: Gramsci ossia il Partito Comunista come divinità; Togliatti ossia la via italiana al totalitarismo; Lukàcs ossia il gesuita della rivoluzione; Sartre ossia l’ultrabolscevico senza fede; Marcuse ossia la rivoluzione del nulla. Non mi soffermo, in questa sede, sui singoli ritratti perché è bene che li scoprano, e li gustino, i lettori. Soprattutto quelli più giovani, nati e cresciuti dopo il crollo del Muro di Berlino, che non devono dimenticare come il pensiero dei ‘cattivi maestri’ si aggiri ancora tra noi. Tale e quale a un fantasma shakespeariano.

I socialismi, la distribuzione del reddito e l’efficienza

I socialismi, la distribuzione del reddito e l’efficienza

Il saggio è stato scritto prima che Trump entrasse alla Casa Bianca e pubblicato sull’ultimo numero della serie dei Working Papers (No. 6278) di uno dei maggiori istituti di ricerca economica e sociologica europea, il CESifo di Monaca di Baviera. E’ di estrema attualità non solo negli Usa ma in tutti i Paesi europei. Ne sono autori tre professori dell’Istituto di Ricerche Economiche norvegese, Ingvild Almás, Alexander W. Capellen e Bertil Tungoddon. Il titolo è accattivante: “Cutthroat Capitalism versus Cuddly Socialism: Are Americans More Meritocratic and Efficiency-Seeking than Scandinavians?” (“Capitalismo con il coltello tra i denti e socialismo che fa le coccole: sono gli americani più meritocratici e alla ricerca dell’efficienza degli scandinavi?”).

Come è noto, c’è una differenza abissale tra ineguaglianza di reddito e politiche redistributive tra gli Stati Uniti e la Scandinavia. Per individuare se c’è una corrispondente differenza in preferenze della società, i tre studiosi hanno condotto il primo esperimento quantitativo , utilizzando campioni rappresentativi degli Stati Uniti e della Norvegia. L’esperimento utilizza le infrastrutture di un vasto mercato internazionale telematico e quelle di una delle maggiori agenzie di raccolta dati a livello mondiale. Inoltre, nell’esperimento (quattro differenti casi) gli americani ed i norvegesi effettuano scelte distributive in situazioni in cui hanno informazioni complete sulle determinanti delle diseguaglianze e il costo delle ridistribuzione. Il risultato è che americani e norvegesi hanno differenze significative in materia di giustizia sociale, ma non in tema di efficienza. Inoltre in ambedue i Paesi, le considerazioni di equità sociali sono più importanti di quelle di efficienza nell’accettare l’ineguaglianza.

I prezzi in Italia

I prezzi in Italia

La Banca centrale europea ha pubblicato a gennaio un utile saggio sull’andamento dei prezzi in Italia (“Changing Prices….Changing Times; Evidence for Italy”, Working Paper n. 2002 ) di Mario Porqueddo e Silvia Fabiani. Distribuito dalla Bce, è anche scaricabile dal sito dell’Istituto. Lo studio parte dall’assunto che il meccanismo della formazione dei prezzi e del loro aggiustamento ha importanti implicazioni macro-economiche specialmente per le fluttuazioni cicliche, i tassi di cambio reali e la politica monetaria.

La letteratura empirica è peraltro diventata molto vasta. Una particolare importanza ha lo studio condotto dal Sistema europeo di banche centrali “Inflation Persistent Network” e che esamina il grado di rigidità dei prezzi misurato in termini di frequenza, ampiezza e direzione degli aggiustamenti. Nell’area dell’euro, la flessibilità dei prezzi è risultata molto eterogenea a seconda dei prodotti: la frequenza degli aggiustamenti è stata dal 28% per i generi alimentari sino al 78% per i prodotti dell’energia. Nel quadro europeo, l’Italia è stato uno dei Paesi dell’area dell’euro più rigidi: solo il 10% dei prezzi dei prodotti cambiavano ogni mesi mentre nell’eurozona l’indicatore si poneva al 15%

Il lavoro analizza se in Italia i meccanismi di formazione e di aggiustamento dei prezzi sono mutati nel corso del periodo preso in considerazione. In particolare, se in un contesto di protratta stagnazione economica e una doppia recessione che ha depresso i consumi, c’è stata o meno una maggiore flessibilità dei prezzi nominali, anche al ribasso. Nel lavoro, la flessibilità viene misurata dal durata del periodo in cui i prezzi tendono a restare stabili o, di converso, la frequenza e la direzione del cambiamenti. L’accento è sulla natura (e la direzione) degli aggiustamenti durante le due recessioni del 2008-09 e del 2011-20113. Il campione riguarda 960.000 prezzi per 49 categorie di beni e servizi. Tralasciando la parte metodologia, le principali conclusioni sono le seguenti:

a) tra il 2006 ed il 2013 la durata media di prezzi stabili è stata tra i 4 ed i 6 mesi, circa 3 mesi meno che nel periodo 1996-2001. Circa il 15% dei prodotti è cambiato ogni mese in media, mentre i prezzi dei servizi sono rimasti stabili per circa un anno;

b) Esiste una differenza in flessibilità nominale a seconda della categoria dei prodotti. I prezzi dei prodotti energetici e circa un terzo di quelli degli alimentari non trattati cambiano in pratica ogni mese, a differenza dell’11% degli alimentari trattati e del 6% di quelli dei servizi.

Europa a due velocità

Europa a due velocità

Dopo lo sdoganamento da parte del Cancelliere Merkel della possibilità di un’Europa a due o più velocità ci si interroga se tale ipotesi sia desiderale e, soprattutto, fattibile. La lettura in materia è sterminata. Un utile e coinciso lavoro è stata pubblicato nel settembre 2015 da tre giovani studiosi del “Centro Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia: Paola Berolini, Francesco Pagliacci e Antonio Pisciotta.

Il lavoro prende l’avvio dalla “Strategia Europa 2020” e sottolinea come l’Unione europea si presenti come un insieme tutt’altro che omogeneo. Già nel 2006 Jacques Sapir, analizzando i principali modelli sociali europei, aveva individuato «quattro diversi modelli sociali europei, ciascuno con la propria performance in termini di efficienza ed equità». Tali modelli erano di fatto riconducibili a quattro diverse aree geografiche all’interno dell’Ue a 15: i Paesi nordici (Danimarca, Finlandia e Svezia oltre che i Paesi Bassi) si caratterizzavano per alta efficienza ed alta equità; i Paesi anglosassoni (Irlanda e Regno Unito) apparivano efficienti ma non equi; i Paesi continentali (Austria, Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo) erano equi ma non efficienti; infine, i Paesi mediterranei (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) presentavano tratti tali da non assicurare né equità né efficienza. Sapir osservava quindi la sostanziale inadeguatezza della “Strategia” di fronte a sistemi sociali così difformi e che avevano bisogno di essere riformati in vista delle sfide poste dalla globalizzazione e dalle dinamiche demografiche dell’UE.

Pochi Stati membri hanno raggiunto l’obiettivo comunitario del 75% di occupati sulla popolazione in età da lavoro. Rispetto alle aggregazioni per modelli sociali, è possibile vedere il netto distacco del Nord Europa, che nel complesso ha già raggiunto (e superato) l’obiettivo comunitario, sebbene il confronto temporale segnali un peggioramento per quasi tutti i Paesi (a eccezione della Svezia). All’opposto, il modello mediterraneo mantiene la peggiore performance, con un ulteriore peggioramento prodotto dalla crisi: anche il Portogallo, infatti, che si stava avvicinando al modello anglosassone (Sapir, 2006), vede peggiorare nettamente la propria posizione. La situazione dell’Est Europa appare invece alquanto eterogena. Inoltre va segnalato che gli obiettivi nazionali definiti dai singoli Paesi, in queste due aree, appaiono in molti casi irrealistici, alla luce dei dati e della performance perseguita nel periodo.

In posizione particolarmente arretrata si notano Grecia, Spagna, Ungheria, Bulgaria, Portogallo e Italia; per tutti questi Paesi, è difficile ipotizzare il raggiungimento dei rispettivi obiettivi entro il 2020. Infine va notato che l’area continentale – pur mantenendo una distanza, anche se relativamente contenuta, sia rispetto all’obiettivo europeo sia rispetto all’area nordica – mostra la migliore resilienza in termini occupazionali rispetto alla crisi, dato che l’occupazione nel periodo è cresciuta o non ha subito rilevanti flessioni.

Passando alla spesa interna lorda in Ricerca e Sviluppo, anche in questo caso si nota una grande eterogeneità negli obiettivi fissati dai singoli Stati membri, essendo diverse le possibilità degli stessi. Ad esempio nel 2013 i Paesi nordici erano già al di sopra dell’obiettivo europeo del 3% e non sorprende di vedere obiettivi nazionali al 4%. La periferia sud-orientale dell’Europa, invece, presenta la peggiore performance (meno dell’1% del Pil): in particolare, i Paesi mediterranei, oltre ad avere in media una performance peggiore rispetto all’area orientale, presentano incrementi della spesa per R&D inferiori a quest’ultima area, dove alcuni Paesi hanno visto crescere in modo significativo il valore dell’indicatore (ad esempio Repubblica Ceca, Estonia e Slovenia). I Paesi dell’Europa centrale migliorano nettamente gli investimenti in R&D nell’arco del periodo considerato, mentre l’area anglosassone presenta difformità tra Irlanda e UK e un investimento medio comunque ben inferiore all’indicatore della Strategia

L’analisi delle differenze esistenti tra Stati membri nel perseguimento degli obiettivi previsti dalla “Strategia Europa 2020” restituisce un’immagine nitida circa il gap tra i territori centrali del continente e le sue periferie. Tali differenze sono il risultato di processi di portata storica: non è pensabile che essi possano essere colmati nell’arco di pochi anni (o di qualche decennio).

Su tali differenze è lecito attendersi che la crisi economica abbia avuto un impatto molto diverso, data la difformità delle economie e dei modelli sociali sviluppati. Con riferimento al tasso di occupazione, la crisi economica ha certamente determinato un allargamento dello scarto esistente tra le aree considerate. La spesa percentuale in R&S è invece aumentata ovunque nel Continente, anche se in modo non particolarmente significativo, probabilmente per gli effetti del perdurare della crisi economica. I maggiori progressi sono stati compiuti dai Paesi dell’Europa orientale (+0,3%) ma anche da quelli dell’Europa centrale (+0,12%), mentre nell’area meridionale non si registrano miglioramenti significativi. I Paesi nordici, che partivano già da livelli molto elevati nel 2008, hanno continuato ad accrescere tali investimenti. La quota di energia prodotta da fonti rinnovabili è aumentata in modo sensibile, vedendo in questo caso accomunati i Paesi della periferia sud-orientale con quelli nordici (nonostante livelli di partenza molto difformi). I Paesi anglosassoni, caratterizzati da un ridotto utilizzo di energie prodotta da fonti rinnovabili, hanno registrato i minori progressi in termini percentuali. È evidente che, nonostante la Strategia abbia stimolato i Paesi a migliorare la loro performance, neppure in questo caso è possibile parlare di processo di convergenza a livello europeo.

Rispetto al livello di educazione terziaria, invece, si registrano ottime performance per quasi tutti i Paesi dell’Est Europa (che al 2013 hanno superato, in media, quelli dell’Europa mediterranea) e dei Paesi anglosassoni. I risultati peggiori, invece, riguardano proprio la dimensione inclusiva della crescita. In nessuna delle cinque aree considerate si registra una diminuzione della percentuale di popolazione a rischio di povertà. Tuttavia, proprio i modelli sociali caratterizzati, secondo Sapir (2006), da maggiore equità (ovvero il modello nordico e quello centrale) si sono dimostrati maggiormente capaci di limitare tale aumento (rispettivamente +0,9% e + 0,3%). Al contrario, nei Paesi anglosassoni e in quelli mediterranei la popolazione a rischio di povertà è aumentata in misura molto sensibile (di quasi il 4%). I Paesi dell’Europa orientale, nonostante una decisa caduta dei tassi occupazionali nel periodo 2008-2013, hanno avuto un incremento contenuto del rischio di povertà, anche se l’analisi per Stati evidenzia differenze significative.

L’analisi evidenzia performance molto difformi anche all’interno delle macro-aree individuate. Adesempio colpisce la distanza tra Irlanda e Regno Unito nel modello anglosassone, il progressivo allontanamento dell’Olanda dal modello nordico e la relativa difformità che sta emergendo in questo gruppo di paesi; ciò potrebbe segnalare il cambiamento di impostazione nella politica sociale di tali aree. Significativa è anche la profonda differenza di performance nell’area orientale, che potrebbe indicare una difformità di modelli sociali anche in quest’area. Di conseguenza, sarebbe interessante una nuova e più approfondita riflessione sui modelli sociali europei alla luce dei cambiamenti indotti sia dall’allargamento che dalla crisi.

Certamente, a dieci anni dal Rapporto Sapir, molto poco è stato fatto in concreto per rendere l’Unione europea un’area più omogenea e coesa rispetto agli obiettivi di “Europa 2020”. D’altro canto la Strategia non si è dimostrata efficace a tale scopo: date le perduranti difformità, a metà del suo ciclo di vita, il raggiungimento di molti dei suoi obiettivi sembra ormai compromesso. Soprattutto, ad oggi appare sempre più urgente un efficace contrasto alle tendenze centrifughe che stanno interessando l’Ue e in particolare le sue aree più periferiche.

Perché divergono i giudizi delle agenzie di rating

Perché divergono i giudizi delle agenzie di rating

Le agenzie di rating e i voti che attribuiscono sono croce e delizia di Governi e investitori. Domani scadono i termini della risposta dell’Italia alla lettera dell’Unione Europea con cui si chiede al nostro Paese di modificare il deficit di bilancio previsto per l’anno in corso: la correzione richiesta è di 3,4 miliardi di euro. Se le autorità europee non vengono soddisfatte scatterebbe una procedura d’infrazione. «Una procedura d’infrazione sarebbe un grosso problema in termini di reputazione che l’Italia ha costruito, sarebbe un’inversione a U rispetto a quello che è stato costruito fino ad adesso»: così ha risposto alla stampa il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, a Bruxelles per l’Ecofin. Per l’Italia sarebbe un «grande problema» se la Commissione europea dovesse bocciare il bilancio 2017. In effetti a Via XX Settembre e dintorni, si temono in particolare le reazioni delle agenzie di rating. Un eventuale ulteriore ribasso del nostro rating potrebbe fare scattare una vera fuga dai titoli di Stato italiani, con effetti gravissimi sul nostro debito pubblici e sul suo rifinanziamento alle scadenze. Già oggi non siamo messi particolarmente bene tra i Paesi industrializzati a economia di mercato, come indica la tabella:

Nazione

S&Poor’s

Moody’s

Fitch

Dagong

Italia BBB- Baa2 BBB+ BBB-
Germania AAA Aaa AAA AA+
Francia AA Aa2 AA A+
Spagna BBB+ Baa2 BBB+ BBB+
Portogallo BB Ba1 BB+ BB
Stati Uniti d’America AA+ Aaa AAA A-
Regno Unito AA Aa1 AA A+
Giappone A+ A1 A A+
Svizzera AAA Aaa AAA AAA
Federazione Russa BB+ Ba1 BBB- A
Canada AAA Aaa AAA AA+
Australia AAA Aaa AAA AA+

Sono piuttosto noti i criteri micro-economici e finanziari che le agenzie di rating utilizzano quando valutano un’azienda: tasso di rendimento, flusso di cassa, margine operativo lordo, tasso di indebitamento e via discorrendo. In breve, gli attrezzi del mestiere del’analisi finanziaria e della matematico attuariale. Meno conosciuti i criteri impiegati per valutare lo stato attuale e le prospettive future di un Paese nonché la loro evoluzione negli ultimi anni. Risponde questa domanda un utile paper di Antonio Afonso e di André Massena Alburqueque, ambedue dell’Università di Lisbona: “I cattivi abbinamenti nella valutazione dei crediti sovrani” (“Sovereign Credit Rating Mismatches“, ISEG Economics Department Working Paper No. WP 02/2017/DE/UECE).

Il lavoro esamina le differenze di valutazione da parte delle quattro maggiori agenzie di rating nel periodo 1980-2015. Viene impiegato un sistema statistico abbastanza sofisticato. Il primo risultato è che, contrariamente alle aspettative, negli ultimi dieci anni gli squilibri strutturali e la insolvenze hanno contato relativamente poco nel giudizio complessivo. Al contrario negli ultimi cinque anni le variabili che più hanno pesato sul ‘rating’ di un Paese sono stati il livello del debito netto, il Pil procapite e un’insolvenza. Ciascuna agenzia attribuisce un peso differente a questi principali indicatori; da qui ‘i cattivi abbinamenti’ e le discordanze. Un’insolvenza nei tre- cinque anni precedenti diminuisce la differenze di ‘rating’ tra S&P e Fitch. Una differenza nel debito estero, invece, riduce le divergenze tra S&P e Moody’s.

Istituzioni e debito pubblico ritardano l’Italia

Istituzioni e debito pubblico ritardano l’Italia

La Banca centrale europea si è dotata di un servizio studi da fare invidia anche a quello della Federal Reserve Usa, formato tramite sia concorsi pubblici a livello di tutta l’eurozona sia tramite una accurata politica di distacchi e comandi dalle banche centrali nazionali. Purtroppo la stampa italiana pare non averne contezza (a differenza di quelle inglesi, francesi e tedesca) e non fruga in un cassettone pieno di vere e proprie gemme. I suoi working paper, spesso di una qualità superiore di quelli prodotti dalle banche centrali nazionali, sono scaricabili dal sito della Bce e i loro abstract vengono inviati via mail ogni settimana a chiunque li richieda.

Un lavoro interessante e molto pertinente ai dibattiti anche politici di queste settimane riguarda ad esempio il ruolo che le istituzioni e il debito pubblico rivestono nei differenziali di crescita in Europa ed in particolare nei Paesi dell’eurozona. Si tratta de “Institutions, Public Debt and Growth in Europe” (ECB Working Paper No. 1963) curato da Klaus Masuch e Beatrice Pierluigi (ambedue nello staff della Bce) e da Edmund Moshammer (componente del Meccanismo europeo di Stabilità, il cosiddetto “Fondo Salva Stati”).

Il lavoro utilizza un modello econometrico sofisticato e – dopo avere controllato per reddito pro-capite e rapporti debito pubblico/Pil le differenze iniziali tra i vari Paesi membri in termine di assetto, efficacia ed efficienza istituzionale – spiega in modo significativo le differenze del loro andamento economico a partire dal 1995. Viene provato anche che un miglioramento della qualità delle istituzioni può portare ad aumenti significativi del Pil pro-capite. Dimostra inoltre come un livello iniziale di debito pubblico superiore al 60-70% del Pil, unitamente a una qualità delle istituzioni inferiore alla media dell’Unione Europea, tende a essere associato con una crescita reale dell’economia più debole. E’ interessante notare che gli effetti negativi di un alto debito pubblico tendono a essere mitigati da un buon assetto istituzionale. Questo potrebbe essere determinato in vari modi: ‘buone’ istituzioni possono facilitare un efficace consolidamento della finanza pubblica nel lungo termine, un miglior uso della spesa pubblica, una maggiore attenzione alla crescita economica, una migliore equità sociale e un’amministrazione tributaria di livello. Questi risultati vengono confermati se il campione viene esteso all’OCSE (che include anche Paesi extra europei).

I risultati empirici dell’importanza della qualità delle istituzioni sono statisticamente ‘robusti’ rispetto a varie misure di crescita dell’output, differenti indicatori istituzionali, diversi campioni, vari raggruppamenti di Paesi e l’inclusione di più variabili di controllo. Complessivamente, i risultati dimostrano che le riforme strutturali che più aiutano la crescita sono quelle che promuovono l’efficienza della pubblica amministrazione e del settore giudiziario nonché la lotta contro le rendite e la corruzione.

La politica tributaria di Donald Trump

La politica tributaria di Donald Trump

Sulla stampa italiana si sono letti numerosi accenni, confusi e contraddittori, sulla politica tributaria che il nuovo Presidente degli Stati Uniti e il nuovo Congresso Usa intendono attuare. A tal riguardo è bene scaricarsi online e leggere con attenzione il lavoro appena pubblicato da David A. Weisbach: “A Guide to the GOP Tax Plan. The Way to a Better Way” (University of Chicago, Coase Sandor Institute for Law and Economics Research, Paper No. 788).

Si apprende infatti come la riforma tributaria (A Better Way) presentata dal Presidente della Commissione Finanze e Tesoro della Camera dei Rappresentati Ken Brady e dal Presidente della Camera Paul Rayan sarebbe, se attuata, la più completa dal varo dell’imposta sul reddito nel 1913. Riguarda in gran misura le imposte sulle aziende con l’abolizione delle imposte sui nuovi investimenti e delle detrazioni per spese al netto degli interessi, con eliminazione di imposte e tasse del reddito da vendite all’estero (ma tassando le importazioni a valore di mercato). I redditi da capitale verrebbero tassati ad aliquote pari alla metà dei redditi delle persone fisiche. Verrebbero poi abolite le tasse di successione sulla proprietà immobiliare trasmesse ad alcune categorie di eredi diretti come i figli ed i nipoti. La tassazione e l’imposizione si sposteranno infine gradualmente verso l’introduzione di un’imposta sul valore aggiunto analoga all’Iva europea.

Il documento riassume il lungo percorso per giungere alla formulazione ora completa e che riprende il programma di riforma tributaria allestito nel 2005 dalla Commissione di Esperti nominata da Bush (Growth and Investment Tax), il cui punto centrale era la riduzione dei redditi delle persone fisiche e giuridiche così come l’introduzione dell’Iva.

Restano ancora aperti diversi problemi: a) il disegno complesso dell’imposizione sulle imprese; b) le aliquote relative per imprese, partnerships, reddito da lavoro e imposte sul reddito da lavoro e da capitale delle persone fisiche; c) la tassazione internazionale ; d) l’imposizione su istituzioni e strumenti finanziari; e) la tassazione di fusioni ed incorporazioni aziendali; f) il differimento delle imposte sul reddito da capitale delle persone fisiche; g) i problemi collegati alla base tributaria delle persone fisiche come la deduzione sui mutui edilizi; f) la transizione dal sistema attuale al nuovo. Alcuni di questi possono essere facilmente risolti, altri sono più complessi e richiederanno mediazioni e compromessi. Tuttavia, il tracciato è chiaro.

 

 

Von Mises e gli ordoliberali

Von Mises e gli ordoliberali

La letteratura economica recente, di cui diamo conto in questa rubrica, raramente tratta del pensiero liberale. E’ invece incentrata su analisi quantitative di temi e problemi contemporanei. Particolarmente interessante, quindi, si presenta per i liberali un saggio di Stevan Kolev dell’Istituto di Economia internazionale di Amburgo, pubblicato a fine 2016 nei Working Papers del Center for History of Political Economy e intitolato “Ludwig von Mises and the ‘Ordo-Interventionists’ – More than Just Aggression and Contempt?”  (Ludwig von Mises e gli Ordo-Interventisti- Non fu solo questione di aggressività e disprezzo). E’ liberamente scaricabile dal sito del centro studi di Amburgo.

Il lavoro è un’attenta ricostruzione, in parte su materiale inedito, dei quaranta anni di relazioni intellettuali tra il leader della scuola austriaca di economia liberale Ludwig von Mises (1881-1973) e due tra gli economisti più rappresentativi dell’ordoliberalismo tedesco: Walter Eucken (1891-1950) e Wilhelm Röpke (1899-1966). Il lasso di tempo studiato va dall’inizio degli anni Venti fino alla morte di Röpke, avvenuta nel 1966. In questo lungo periodo ci sono state cinque fasi distinte in cui l’interazione scientifica e professionale si è intersecata  con una rete complessa di simpatie e antipatie interpersonali.

Nella prima fase la scuola austriaca e la scuola tedesca (in gran misura basata sullo studio della storia economica più che su quello della teoria) si confrontarono per conoscersi meglio, affilando le rispettive lame. Nella seconda fase il dibattito si incentrò sullo studio del ciclo economico. Nella terza si passò dalle differenze sull’analisi del ciclo economico a veri e propri scontri, al Colloquio Walter Lippmann nel 1938 e ai primi vent’anni di incontri della Mont Pélerin Society, nata nel 1947. La quarta fase segnò la ‘coesistenza pacifica’ nel periodo del miracolo economico tedesco. L’ultima è stata quella dell’avvicinamento e viene studiata anche sulla base di materiale storiografico inedito relativo all’unica laurea onoraria in economia che von Mises ricevette nel 1964 dall’Università di Friburgo.

Sulla base di questa ricostruzione storica il lavoro presenta congetture sulle ragioni per cui i protagonisti, pur lavorando sui medesimi temi, non sono mai riusciti ad impegnarsi in veri e produttivi dibattiti scientifici che in quegli anni avrebbero potuto controbattere al crescente intervento pubblico di marca keynesiana. Kolev formula diverse ipotesi, in gran misura meta economiche e aventi a che fare con le personalità dei protagonisti. Il lavoro ha anche un’ampia sezione che, mettendo a confronto le due scuole, può essere di grande utilità al pensiero neo-liberale di questi anni.

L’economia sommersa in Italia

L’economia sommersa in Italia

di Giuseppe Pennisi

Ci sono due ragioni per iniziare l’anno 2017 con una riflessione sull’economia sommersa:

a) da un canto, anche se i dati Istat segnano solo una leggera, ma flebile, ripresina, il solito “coretto a cappella” sostiene che comunque sarà il sommerso a tirarci d’impaccio;

b) da un altro, la Direzione Generale preposta alle ricerche del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato, alla fine del 2016, un eccellente lavoro su dove sta andando l’economia sommersa in Italia. Ne è autrice Cecilia Morvillo. Lo studio è intitolato “Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane”. Si può scaricare liberamente dal sito del dicastero.

Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nella presente nota l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il PIL pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano.

Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere. Il lavoro si incardina nel filone di approfondimenti con approccio modellistico. L’approccio econometrico ha riscosso negli ultimi anni molto successo in quanto è in grado di studiare l’economia sommersa attraverso le sue cause, non limitandosi solamente all’analisi degli aspetti puramente fiscali, ma individuando anche fattori di carattere sociale ed economico che in misura diversa influenzano il fenomeno.

In accordo con l’ipotesi che il lavoro irregolare è “il principale fattore produttivo su cui si basa il funzionamento dell’economia sommersa”, la variabile in esame viene in questo contesto identificata con il tasso di irregolarità del lavoro. Lo studio è stato applicato dapprima su un campione di dati costituito da un panel bilanciato relativo alle 20 regioni d’Italia e composto da 6 variabili con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 e il 2012, per un totale di 240 osservazioni. L’analisi è stata successivamente arricchita con ulteriori fattori sociodemografici ed economici.

I modelli esaminati, oltre a confermare alcune relazioni già esistenti, hanno fatto emergere due risultati importanti. La relazione tra economia sommersa e intensità della regolamentazione non risulta positiva. Ciò dipende dalla modalità di costruzione dell’indicatore, dal campione di riferimento utilizzato e dalla tecnica di stima applicata. L’interpretazione economica della nuova relazione trovata è perfettamente intuibile considerando la specifica scelta dell’indicatore. E’ infatti agevole ritenere che nelle zone con una maggiore presenza di dipendenti pubblici il sommerso sia meno radicato e ciò a dimostrazione della positiva opera dei pubblici dipendenti di tutte le istituzioni centrali e periferiche. Infine la relazione tra l’economia sommersa e la densità di popolazione mostra un segno negativo, poiché dove la maggior densità è legata ad una necessità lavorativa, tale variabile può essere correlata negativamente all’economia sommersa.

In breve un lavoro da leggere e meditare.