giuseppe pennisi

Le banche italiane viste da Washington

Le banche italiane viste da Washington

In settimane in cui il sistema bancario italiano è nell’occhio del ciclone  – un ciclone che ha al suo centro il Monte dei Paschi di Siena – pochi hanno notato un paper redatto congiuntamente da un economista della Banca mondiale (Andreas Jobst) e uno del Fondo monetario internazionale (Anke Weber) sul tema della ‘profittabilità’ delle banche italiane. E’ un documento molto utile per meglio comprendere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le crisi di alcuni istituti di credito italiani, specialmente quella del Monte dei Paschi di Siena, risolta temporaneamente con un massiccio intervento pubblico che ci auguriamo la riporterà entro pochi anni al mercato. Il lavoro si chiama “Profittabilità e riparazione dei conti economici delle banche italiane” (“Profitability and Balance Sheet Repair of Italian Banks”, IMF Working Paper No 16/175) ed è scaricabile gratuitamente dal sito del Fondo Monetario.

L’analisi prende l’avvio dalla constatazione che la ‘profittabilità’ delle banche italiane dipende in gran misura da tre determinanti: a) la robustezza della ripresa dell’economia reale; b) la politica monetaria e c) gli effetti e gli impatti di riforme del settore, segnatamente di quelle mirate a risolvere ostacoli strutturali alla soluzione del problema di crediti inesigibili e incagliati nonché a promuovere il consolidamento del settore. Un miglioramento della ‘profittabilità’ faciliterebbe il reperimento di capitali per migliorare la capitalizzazione e una necessaria operazione di ripulitura dei bilanci. Il documento esamina in termini quantitativi la capacità attuale e futura di realizzare utili. Un’analisi quantitativa delle 15 maggiori banche porta a concludere che in generale il sistema bancario italiano produce profitti solo leggermente inferiori alla media dell’eurozona. Ci sono però differente marcate e una forte eterogeneità nel settore. Numerose banche dovrebbero ampliare il loro margine se l’economia reale migliorasse. Tuttavia, anche in caso di favorevoli ipotesi di crescita dell’economia, numerose banche di piccole dimensioni continueranno ad avere problemi di ‘profittabilità’:  in tal caso è urgente una ripulitura dei loro bilanci, insieme a misure di riduzione dei costi e a un miglioramento della loro efficienza.

In altro lavoro del Fondo monetario Anke Weber, Emanuel A. Kop e José Garrido (IMF Working Paper No 16/135) indicano specificamente quali sono le misure le riforme legali e manageriali per raggiungere questi obiettivi.

Come si trasmettono le crisi finanziarie (e chi ne trae profitto)

Come si trasmettono le crisi finanziarie (e chi ne trae profitto)

Brutte nuvole nere si addensano sul Monte dei Paschi di Siena e quindi su una rete di istituti finanziari a esso associati. Giungono in proposito due interessanti lavori: il primo dal Fondo monetario internazionale (Fmi), il secondo dalle Università dell’Arizona, di Melbourne e della Georgia.

In “Crisis Transmission in the Global Banking Network” (IMF working paper No. 16/91), Galina Hale (Federal Reserve Board of San Francisco), Tümer Kaplan (Fannie Mae, l’Istituto di riassicurazione di mutui edilizi) e Camelia Minoiu (Imf) studiano la trasmissione degli shock bancari internazionali, utilizzando l’andamento dei tassi interbancari su prestiti a lungo termine tra seimila istituti nel periodo 1977-2012 al fine di costruire una rete annuale di quanto e come le banche siano ‘esposte’ alle crisi. Vengono stimati effetti diretti e indiretti rispetto a Paesi alla prese con crisi finanziare sui rendimenti bancari e la disponibilità di effettuare nuovi prestiti. Gli effetti diretti riducono i margini di profitto e quindi i loro rendimenti. Gli effetti indiretti da un lato aggravano queste conseguenze e dall’altro spingono i capitali a ‘migrare’ verso altri Paesi e verso banche non in crisi. I due effetti combinati hanno comunque implicazioni sull’economia reale in quanto riducono l’offerta di credito alle imprese ed ai consumatori. In breve, se ne deduce che sistemi bancari interconnessi facilitano la trasmissione delle crisi.

C’è però chi riesce a guadagnare alla crisi, come dimostrano George Aragoni (Arizona State University), J. Spencer Martini (University of Melbourne) e Zhen Shi (Georgia State University) nel paper “Who benefits in a Crisis? Evidence from Hedge Fund Stock and Ioptions Holding”. È ancora inedito ma il testo può essere richiesto all’indirizzo george.aragon@asu.edu. Il lavoro presenta una caratteristica davvero unica di dati su hedge funds e opzioni su azioni, dimostrando come i manager di fondi bloccati riescano durante le crisi a trattare in modo opportunistico con quelli di fondi non bloccati e ottenerne rendite anche cospicue.

Come far crescere l’economia

Come far crescere l’economia

In questi ultimi giorni sono stati pubblicati due paper che spiegano indirettamente perché il Governo Renzi ha fatto cilecca, soprattutto in materia di crescita economica, e per quali motivi gli italiani hanno respinto a grande maggioranza, le sue proposte di riforma.

Il primo è un lavoro congiunto di Università scandinave ed americane. Ne sono autori Carl Henrik Knutseon (Università di Oslo), John Gerring (Università del Texas ad Austin) e Svend Eruk Skaaning (Università di Aarhus). Il suo titolo è “Local Democracy and Economic Growth” ed è apparso in una rivista politologica piuttosto che economica (V.Dm, Working Paper 2016.39). Il lavoro riprende studi teorici di North e Putnam, che promuovono la democrazia a livello locale con controllo sociale e incentivi ai politici locali in modo che scelgano politiche che favoriscano lo sviluppo economico, tra cui l’offerta di beni pubblici. Applicano i teoremi di North dal 1900 ai giorni nostri e trovano prove robuste che la democrazia locale favorisce la crescita. Il nesso è valido anche tendendo conto di effetti specifici di singoli Paesi o di particolari periodi temporali. Test econometrici aggiuntivi dimostrano che la relazione è ancora più chiara e più forte in contesti in cui il gioco democratico opera meglio e con maggiore efficacia a livello centrale/nazionale e quando le regioni hanno un ruolo più spiccato nella formulazione e attuazione di politiche economiche. Una tesi che contraddice l’ipotesi del referendum renziano di trasferire competenze dalla periferia al centro. Se ci sono state o ci sono disfunzioni, vanno curate senza bloccare sul nascere la democrazie locali.

Il secondo lavoro – apparso su Economic Inquiry (Volo.55 pp. 98-114, 2017) – è quello di Santiago Acosta-Ormaecha (Fondo Monetario) e Atsuyoshi Morozumi (Università di Nottingham) e spiega come riallocare la spesa pubblica in funzione della crescita economica a seconda dei differenti livelli di reddito. Lo studio copre 83 Paesi nel periodo 1970-2011 e conclude che il modo più efficace consiste nel riallocare verso l’istruzione spese destinate al welfare. Una strategia ce va applicata in particolare a Paesi a basso reddito medio.

Come ridurre il debito pubblico

Come ridurre il debito pubblico

Lo Yale Jornal of International Law ha dedicato il suo ultimo numero (disponibile in versione telematica) a come ridurre il fardello del debito pubblico, tema che chiunque sarà al governo in Italia dovrà affrontare con urgenza. In tal senso alcuni saggi sono particolarmente utili e meritano essere segnalati anche a fini operativi.

Il lavoro di Matthias Goldoman del Max Planck Institute for Comparative Public Law alla Goethe Univesitaat di Francofore, nel saggio “Putting Your Faith in Good Faith: A Principled Strategy for Smoother Sovereign Debt Workouts” (Mettere la tua fede in buona fede: una strategia per alleggerire gradualmente il debito sovrano) sottolinea come per portare a termine una trattativa per la riduzione graduale del debito sovrano occorra far perno sulla buona fede delle parti in causa. Questa fa si che gli Stati debitori e i loro creditori riescano a iniziare bene una trattativa nel caso di una crisi e a raggiungere soluzioni ragionevoli senza ricorrere ad arbitrati o a vertenze giudiziarie.

Un altro saggio firmato da numerosi autori è frutto di un lavoro congiunto tra il Yale Journal of International Law e il Segretario dell’UNCTAD (The United Nations Conference on Trade and Development), che ha grande esperienza di soluzione di problemi del debito sovrano specialmente dei Paesi in via di Sviluppo. Il rapporto conclusivo individua un meccanismo e una road map nonché una guida operativa per giungere a una significativa riduzione del  debito sovrano. La proposta consiste un approccio graduale e incrementale utilizzando una vasta gamma di strumenti. La guida operativa è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015. Il fascicolo include i paper tecnici a corredo della guida: una vera e propria miniera di analisi e considerazioni.

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Il Rapporto Cerved PMI è dedicato all’analisi delle piccole e medie imprese italiane (PMI), individuate in base alla classificazione della Commissione Europea (CE). In particolare, il documento analizza il complesso di società di capitale non finanziarie che soddisfano i requisiti di dipendenti, fatturato e attivi definiti dalla Commissione. In base agli ultimi bilanci disponibili soddisfano i requisiti di PMI 137.046 società, tra le quali 113.387 rientrano nella definizione di ‘piccola impresa’ e 23.659 in quella di ‘media impresa’.Queste società, che rappresentano più di un quinto (il 22%) delle imprese che hanno depositato un bilancio valido, hanno occupato 3,9 milioni di addetti, di cui oltre la metà lavorano in aziende piccole o piccolissime.

Le PMI realizzano un volume d’affari pari a 838 miliardi di euro, un valore aggiunto di 189 miliardi di euro (pari al 12% del Pil) e hanno contratto debiti finanziari per 255 miliardi di euro. Rispetto al complesso delle società non finanziarie, pesano per il 36% in termini di fatturato, per il 41% in termini di valore aggiunto e per il 30% in termini di debiti finanziari. Sono, quindi, una realtà importante e dinamica dell’economia italiana.

Come si può estendere il loro potenziale, specialmente in materia di innovazione? Alcune risposte interessanti sono nello studio “Design Contribution to the Competitive Performance od SME: The Role of Innovation Capabilities” appena pubblicato nella rivista Creativity and Innovation Management (Vol. 25 No.4 pp. 484-499) a cura di Claudio Dell’Era, Gregorio Ferraloro, Roberto Verganti (Politecnico di Milano), Paolo Landoni (Politecnico di Torino), Helena Karlsoon (Malerden University) e dell’economista Mattia Peradotto. Il loro lavoro merita di essere letto e studiato per comprendere meglio il ruolo dell’innovazione attraverso lo studio di sei piccole e medie imprese in Lombardia che hanno recentemente ricevuto finanziamenti per l’innovazione, analizzando il nesso tra questa e la loro accresciuta competitività sui mercati.

Crisi e contagi

Crisi e contagi

Venti sempre più forti di nuove grande tensioni sui mercati finanziarie. La grande incertezza non viene, come dicono alcuni, dal piccolo referendum italiano il cui esito influirà sui mercati rionali più che su quelli internazionali ma dall’altra sponda dell’Atlantico dove l’Amministrazione Trump ha in animo tagli al gettito fiscale pari al 4% del Pil e un programma di aumento della spesa pubblica per le infrastrutture americane di ben 550 miliardi di dollari. Anche se il Congresso modererà questi programmi e se lo stimolo di bilancio agevolerà la crescita USA, unitamente all’imminente svolta della Federal Reserve, è facile prevedere un forte aumento dei tassi interesse che attirerà lo scompiglio sui mercati mondiale ed europei anche in quanto i capitali (il flusso è già in atto) voleranno verso la sponda americana dell’Atlantico.

Come potrà contagiare i mercati mondiali ed europei? Krystina Ters e Jörg Urban (Banca dei Regolamenti Internazionali) se lo chiedono nel lavoro”The Transmission of Euro Area Sovereign Risk Contagion: Evidence from Intraday CDS and Bond Markets” (“La trasmissione del contagio del rischio sovrano nell’area dell’euro”), pubblicato nell’ultimo fascicolo del Financial Crisi E-Journal. La loro analisi riguarda i mercati obbligazionari e dei certificati di deposito come canale di trasmissione del contagio del rischio di credito nell’arco di tempo della crisi finanziaria.

L’analisi raffronta le transazioni quotidiane per Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna (Paesi considerati più fragili) con quelle di Francia e Germania. I risultati suggeriscono che, prima della crisi, nei mercati delle obbligazioni e dei certificati di deposito gli effetti erano simili nei due gruppi di Paesi. Durante la crisi, il ruolo dei mercati obbligazionari ha gradualmente perso importanza come canale di trasmissione. Durante la crisi c’è stata una fuga ‘verso la salvezza’, ossia flussi di dismissioni di obbligazioni dai Paesi ritenuti fragili, verso i titoli a reddito fisso tedeschi. Utilizzando nell’analisi uno shock esogeno prodotto da news giornalistiche (ossia informazioni di stampa sulla crisi nei singoli Paesi), il paper dimostra che, nell’arco di tempo della crisi, il rischio di credito sovrano non era correlato all’andamento di fondo dell’economia reale quanto dagli annunci in materia in materia di programmi di aggiustamento. Il rischio percepito diminuiva dopo tali annunci. Dopo la creazione nel 2011 dell’European Financial Stability Facility c’è stato una forte riduzione del contagio e un effetto stabilizzante anche nei mercati dei Paesi fragili.

Trent’anni di mercato unico

Trent’anni di mercato unico

Stefano Micossi, attualmente direttore generale dell’Assonime, ha scritto un’ottima sintesi dei successi e degli insuccessi dei trent’anni di mercato unico. Il Center for European Policy Studies lo ha pubblicato come special report e merita un’ampia divulgazione (chi vuole può chiederne copia a stefano.micossi@assonime.it). Il paper sottolinea come negli ultimi tre decenni il mercato unico sia stato il core business, l’attività principale, dell’Unione Europea. E’ stato fatto un progresso enorme, e superiore alle aspettative, in termini di ampliamento dell’attività economica soggetta tanto a normativa europea quanto a legislazioni nazionali così come nell’approfondire gli acquis communautaires (i risultati già raggiunti in termini d’integrazione dei mercati) per superare punti incerti in aree già regolate a livello europeo.

Tuttavia l’evidenza empirica prova che l’integrazione dei mercati si è arenata su diversi fronti e soprattutto che i benefici economici attesi – in materia di maggiore crescita della produzione, dell’occupazione e dei redditi – è stata inferiore alle aspettative, specialmente nel gruppo dei 15 Stati più a lungo componenti dell’Unione. La situazione non è migliorata dalla introduzione delle moneta unica. Il paper passa in rassegna l’evoluzione delle attività legislative e regolatorie del mercato unico negli ultimi tre decenni e sottolinea le aree in cui i gap dove appaiono più evidenti nonché i problemi recenti prodotti dall’insorgere di crescenti pulsioni anti-europeiste.

La concorrenza ‘temperata’ fa bene al gioco del calcio

La concorrenza ‘temperata’ fa bene al gioco del calcio

Questo sito e il Centro studi di cui è parte integrante hanno il liberalismo nel proprio Dna. Vi ricordate quando negli Anni Ottanta e Novanta la sfrenata concorrenza per accaparrarsi i calciatori più famosi portarono le loro quotazioni a cifre stratosferiche? Allora il libro di Rocco Francesco Scandizzo “L’economia del calcio come sport spettacolo e il mercato internazionale delle star” (che ha vinto un paio di premi e avuto una buona circolazione nel settore), indicò chiaramente che di questo passo le aziende calcistiche si sarebbero rotte il collo.

Più o meno nello stesso periodo (prima parte degli Anni Novanta), uno studio di due Università britanniche – quella di Exeter e quella di Manchester – analizzò sotto il profilo e giuridico e economico-finanziario le normative e i codici di corporate governance emessi in 20 dei 25 Stati dell’Unione Europea. Questo lavoro documentava come nonostante le differenze di partenza in Paesi con tradizioni giuridiche molto differenti (da quelle romano-germaniche al common law britannico), si stesse convergendo verso un grado di corporate governance (e regole ad esso attinenti) di stampo anglosassone imperniato su verifiche contabili indipendenti. Un processo che era in atto nonostante le normative sulle funzioni, sul ruolo, sul carattere vincolante o meno dei pareri dei revisori dei conti variasse in linea con i contesti dei singoli Paesi.

Il dato veniva ribadito in un lavoro di Stefan Szymanski della Business School dell’Imperial College di Londra, apparso “Journal of Economic Literature”, che passava in rassegna oltre 250 studi recenti sull’allestimento economico delle gare sportive. Partiva dall’assunto che «l’economia delle gare sportive ha molto in comune con la teoria economica delle aste» e differenziava marcatamente tra sport “individualistici” (in cui la tifoseria è collegata al campione) e sport “di squadra” (in cui il tifo ha invece un rapporto forte con la squadra del cuore). Per il calcio sviscerava le differenze di regolazione (e di prassi) tra gli Usa ed i maggiori Paesi europei, analizzava gli eccessi conseguenti la sentenza Bosman e i rimedi tentati (quali i tetti agli ingaggi e l’ottimizzazione del numero delle squadre nei vari campionati) e non entrava nei “fattacci” contabili e penali. Lo studio chiudeva con una nota ottimistica: «La relazione tra gli sport di squadra e la teoria dei contesti è ben sviluppata, nonostante ci sia ancora molto da fare per una comprensione economica degli aspetti istituzionali; il lavoro di analisi economica è, però, ben avviato per riformare il gioco del calcio a livello dei 25 Stati».

Queste analisi e gli interventi anche della magistratura hanno portato alla convenzione UEFA del 2009 in cui si regolamentavano gli ingaggi ponendo un tetto ai compensi. A un lustro dalle convenzione un gruppo di economisti, prevalentemente della Università Bocconi (Ariela Caglio, Angelo D’Andrea, Donato Masciandaro e Gianmarco Ottaviano) ne compiono una valutazione ex post nel lavoro “Does Fair Play Matter? UEFA regulation and Financial Sustainability in the European Football industry” nei BAFFI CAREFIN Centre Research Paper No. 2016-38. La conclusione è che i Financial Fair Play Regulations (FFPR) dell’UEFA sono stati criticati principalmente sotto il profilo teorico di limite alla concorrenza. Lo studio analizza l’evidenza empirica sulla base di dati che coprono 156 club calcistici nelle serie A di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna nei campionati 2006-2015 e analizza il comportamento dei club prima e dopo il 2009. I dati mostrano che prima della convenzione c’era una forte tendenza all’indebitamento ad alto rischio, mentre successivamente tale tendenza è fortemente diminuita e la governance migliorata. L’indicazione che ci arriva da questa analisi è chiara: mentre la mano “impicciona e pasticciona” (definizione di Giuliano Amato) è nociva, l’autoregolamentazione può fare bene.

Le conseguenze della deflazione sulla finanza pubblica

Le conseguenze della deflazione sulla finanza pubblica

Pochi intimi prestano attenzione alla letteratura economica portoghese mentre l’IESEG, centro di ricerca ed analisi economica dell’Università di Lisbona, produce lavori di tutto rispetto e di grande spessore. L’ultimo è un paper di Antonio Afonso e Joāo Trovar Jalles sulle “Conseguenze Fiscali della deflazione: evidenza dall’età d’oro della globalizzazione” (The Fiscal Consequences of Deflation: Evidence from the Golden Age of Globalization – ISEG Economics Department Working Paper No. WP 23/2016/DE/UECE).

L’analisi riguarda un gruppo di 17 economie nella prima ondata di globalizzazione tra il 1870 e il 1914 e mostra come in un contesto di marcata integrazione economica internazionale (l’attuale è ancora più forte) una caduta nell’1% nel livello dei prezzi comporti un aumento del rapporto tra stock di debito e Pil di circa 0,23-0,32 punti percentuali. L’apertura agli scambi, la politica monetaria e l’andamento dei cambi aumenta il valore assoluto della deflazione. In aggiunta, il rapporto debito/Pil cresce se e quando la deflazione è associata con recessioni economiche significative e ripetute. Per quanto riguarda in particolare il gettito fiscale, la deflazione ne comporta una contrazione dopo un lasso di tempo, mentre non ha effetti apprezzabili sulla spesa pubblica, soprattutto quella di parte corrente. Sono analisi di cui si dovrebbe tenere conto nell’esame parlamentare di una legge di bilancio che aumenta la spesa in un contesto in cui non si è ancora usciti dalla deflazione e – per le entrate – fa leva su una seria di operazioni una tantum di condono tributario.

La deflazione ha anche effetti sulla ricchezza relativa delle Nazioni. Il tema è esplorato in un lavoro di due economisti del Fondo Monetario Internazionale (Rabah Arezki e Frederik Giancarlo Toscani) e uno dell’Università di Oxford (Ricj van der Ploeg): “Lo spostamento delle frontiere nella ricchezza delle risorse mondiali: il ruolo delle politiche e delle istituzioni (Shifting Frontiers in Global Resource Wealth: The Role of Policies and Institutions – CEPR Discussion Paper No. DP11553). Il parametro di base sono scoperte di idrocarburi e minerali. In breve, se l’America Latina e l’Africa a Sud del Sahara avessero la qualità delle istituzioni degli Stati Uniti, le scoperte aumenterebbero nel mondo intero del 25%.

Il debito dell’Eurozona si può ristrutturare

Il debito dell’Eurozona si può ristrutturare

Il debito pubblico sembra uscito dai temi di grande attenzione anche in questi giorni in cui Roma e Bruxelles discutono di legge di bilancio. Eppure, un aumento anche piccolo dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni o un tasso di crescita dell’economia reale inferiore a quanto previsto dal Governo italiano oppure ancora un incremento dei tassi d’interesse renderebbe estremamente critica la situazione dell’Italia. Il nostro debito supera il 130% del PIL ed è per la metà detenuto da fondi stranieri, pronti a sbarazzarsene al minimo fruscio dei mercati. In effetti, le autorità europee non sono ‘arcigne megere’ ma temono che, passato il referendum, alla prima trimestrale di cassa, il marchingegno su cui è costruita la legge di bilancio salti con implicazioni per il debito e contagi a go-go nel resto dell’Eurozona.

Il Public Economic: National Budget, Deficit and Debt E-Journal ha pubblicato un saggio stimolante di Ernesto Longobardi (Università di Bari) e Antonio Pedone (Università di Roma La Sapienza). È il working paper 06/2016 intitolato On Some Recent Proposals of Public Debt Restructuring in the Eurozone che avrebbe meritato grande attenzione dalla stampa nazionale, dal Governo e dal Parlamento, anche perché redatto in un inglese chiaro e in una forma non tecnica.

Augurandoci che qualcuno se ne accorga e legga il lavoro, meditandolo con attenzione, ne riproduciamo in italiano la sintesi. Il paper prende l’avvio dalla considerazione che, nelle circostanze attuali, di bassa crescita ci sono forte ragioni per ridurre il debito pubblico ed esamina in particolare la situazione dell’Eurozona. Esamina quindi le varie possibili strategie per ridurre il rapporto debito/Pil evitando al tempo una ristrutturazione. Il metodo, spesso adottato in passato, di ridurre il rapporto debito/Pil con una forte ondata di inflazione non è praticabile nell’Eurozona. D’altro canto, le opzioni alternative tramite strumenti di finanza straordinaria (patrimoniali di scopo, privatizzazioni, vendita di beni di proprietà dello Stato) possono dare risultati limitati. Quindi, la strategia attualmente applicata nell’Unione Europea – accumulazione progressiva di avanzi primari (la soluzione ‘dell’austerità’) – pare la sola fattibile.

Le possibilità di ristrutturazione sono state esaminate con crescente attenzione negli ultimi anni. Sono state seguite due prospettive distinte. Da un lato, alcune proposte trattano del debito ereditato dal passato. Altre riguardano la messa in atto di un sistema permanente di riduzione/risoluzione del debito sovrano. Il primo gruppo di proposte vuole evitare il coinvolgimento del settore privato e si basano su meccanismi complessi di cartolarizzazione di gettiti futuri degli Stati (tramite signoraggio e tassazione). Ci sono ragioni per ritenere che non sono sufficientemente differenti dalle strategie in atto e possono portare a maggiori crescita. Le altre intendono rendere efficace il principio di evitare i bail out ma sino ad ora si sono rivelate molto difficili da applicare, in assenza di una vera unione fiscale.