giuseppe pennisi

Le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Un gruppo di economisti della Banca d’Italia (Giacomo Oddo, Maurizio Magnani, Riccardo Settimo e Simonetta Zappa) ha elaborato un paper interessante sulle rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: una stima dei flussi invisibili del canale informale. Viene pubblicato nella serie di economia e finanza No. 332

Il lavoro analizza le determinanti delle rimesse in uscita dall’Italia e presenta una metodologia per quantificare la parte di esse che non transita via intermediari ufficiali (operatori money transfer, banche, poste) ma defluisce tramite canali informali, non rilevabili e quindi non inclusi nelle statistiche ufficiali. La presenza di deflussi di denaro invisibili è desumibile dalla relazione positiva e statisticamente significativa fra distanza del Paese beneficiario e importo medio pro capite della rimessa inviata, dopo aver controllato per tutte le altre variabili esplicative. Tale correlazione dovrebbe essere nulla o non significativa se il flusso fosse rilevato per intero. Sfruttando tale relazione empirica e avvalendosi dell’elevato dettaglio geografico dei dati raccolti dalla Banca d’Italia, la metodologia perviene a una stima del canale informale collocabile tra il 10 e il 30 per cento del flusso totale e attribuibile al gruppo di Paesi più vicini all’Italia. L’analisi indicherebbe inoltre una riduzione dell’incidenza del canale informale sul totale dei flussi osservati: nell’arco del decennio considerato essa si sarebbe ridotta di circa il 20 per cento.

Nelle conclusioni si sottolinea che le rimesse degli emigrati sono una fonte di finanziamento importante per un grande numero di paesi in via di sviluppo. Allo stesso tempo una corretta rilevazione dei flussi di rimesse in uscita è una priorità anche per i Paesi avanzati, sia per una valutazione non distorta di interventi di policy sia per una corretta compilazione della bilancia dei pagamenti nazionale. I lavori che affrontano il tema della quantificazione dei flussi che transitano attraverso i canali informali che non sono rilevati dalle statistiche ufficiali sono relativamente pochi e sono sempre incentrati sulla dimensione della popolazione straniera residente. Partendo dalla constatazione dell’esistenza di una relazione empirica positiva tra rimessa media pro capite inviata dall’Italia e distanza geografica del Paese A questo proposito occorre ricordare che i dati pre 2011di fonte Istat utilizzati in questo studio non sono ricostruiti sulla base del censimento del 2011. Il salto di serie potrebbe influire sulla dinamica delle stime.

II lavoro sviluppa una metodologia nuova per pervenire a una stima dei flussi informali non osservati e analizza i fattori che determinano le rimesse pro capite inviate dal nostro Paese. Queste ultime risultano negativamente correlate con la ripartizione per genere all’interno della comunità del migrante (maggiore il bilanciamento tra i sessi e minori sono le rimesse, verosimilmente per la maggiore incidenza di famiglie complete all’interno della comunità) e con la quota di minori nella popolazione (anche questa grandezza è correlata alla presenza di nuclei familiari completi), mentre appaiono positivamente influenzate dal differenziale di reddito tra l’Italia e il Paese ricevente e dall’indice di imprenditorialità della comunità straniera. La parte di varianza non spiegata da questi fattori ma spiegata invece dalla distanza geografica viene utilizzata, in base alla metodologia proposta, per pervenire a una stima dei flussi di rimesse che transitano attraverso il canale informale; a seconda della specificazione del modello, tali flussi sono tra il 15 e il 45 per cento delle rimesse “visibili”, ovvero tra il 10 e il 30 per cento di quelle complessive.

Secondo il modello più conservativo, circa 700 milioni di euro all’anno sarebbero inviati all’estero dagli stranieri residenti in Italia attraverso canali informali. Secondo lo stesso modello, il peso dei flussi invisibili risulterebbe diminuito di circa il 20 per cento nell’arco dell’ultimo decennio. Ciò è probabilmente dovuto da un lato alle politiche di abbattimento del costo dell’invio di denaro tramite intermediari ufficiali e, dall’altro, al naturale processo di integrazione dei migranti all’interno della comunità economica del Paese ospitante, di cui l’inclusione finanziaria è uno degli aspetti principali.

 

Tutele del lavoro, produttività e accesso al credito in Italia

Tutele del lavoro, produttività e accesso al credito in Italia

Una delle più antiche e autorevoli riviste internazionali di economia, The Economic Journal, ha pubblicato in uno dei suoi ultimi fascicoli (Vol. 126,No: 595, pp. 1798-1822) un saggio che dovrebbe essere letto e meditato da politici e sindacalisti. Riguarda in che modo la normativa generale sul lavoro ha effetti sulla produttività, sugli investimenti e sull’accesso al credito. Ne sono autori economisti al di sopra di ogni sospetto di essere di parte: Federico Gingano della Banca d’Italia, Marco Leonardi dell’Università di Milano. Julian Messina della Banca Mondiale e Giovanni Pica dell’Università di Milano. Il titolo è “Employment Protection Legislation, Capital Investment and Access to Credit: Evidence from Italy”.

Il saggio – che ha aspetti molto tecnici e utilizza una metodologia rigorosamente quantitative – stima l’impatto casuale (ossia la deteminante) dei costi di licenziamento sulla preferenza nei confronti di investimenti a forte contenuto di capitale (capital deepening). Si sofferma anche sulle riforme recenti (quali il Jobs Act) che hanno in effetti tenuto sostanzialmente inalterato il dualismo tra imprese con meno di 15 dipendenti e le altre in termini di costo di licenziamento. L’analisi mostra che l’aumento dei costi di licenziamento (presentissimo anche nei contratti ‘a tutele crescenti’) ha indotto a un aumento nel rapporto capitale-lavoro ed è una delle determinanti di un declino della produttività multifattoriale nelle piccole imprese rispetto alle medie e grandi imprese poiché le seconde hanno miglior accesso al credito delle prime e il credito è essenziale per il capital deepening. A sua volta il capital deepening è più pronunciato ai livelli meno elevati della distribuzione del capitale, dove la riforma ha inciso in modo più pesante, e tra le imprese dotate di una forte liquidità. Inoltre la normativa a protezione dei lavoratori aumenta la percentuale di dipendenti di lungo corso e mediamente più anziani. Il che dimostra la complementarità tra capitale fisico e capitale umano in un contesto dove la normativa lavoristica è moderata.

Il saggio solleva interrogativi inquietanti che meriterebbero di essere discussi dalle parti sociali e portati all’attenzione della politica.

 

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

La vastità dell’economia sommersa in Italia è un interrogativo che si pongono in molti, soprattutto da quando, diversi anni fa, uno studio Ocse stimò l’economia sommersa (e illegale) in Italia pari a circa un terzo del Prodotto interno lordo (Pil). Un contributo utile viene dal Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze con il paper di Cecilia Morvillo “Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane” (NT) No1/2016.

Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nel paper l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il Pil pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano. Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere.

Prendendo spunto da molti studi esistenti sull’economia sommersa, il lavoro si incardina nel filone di approfondimenti con approccio modellistico. L’approccio econometrico ha riscosso negli ultimi anni molto successo in quanto è in grado di studiare l’economia sommersa attraverso le sue cause, non limitandosi solamente all’analisi degli aspetti puramente fiscali, ma individuando anche fattori di carattere sociale ed economico che in misura diversa influenzano il fenomeno. In accordo con l’ipotesi che il lavoro irregolare è “il principale fattore produttivo su cui si basa il funzionamento dell’economia sommersa”, la variabile in esame viene in questo contesto identificata con il tasso di irregolarità del lavoro.

Il presente studio è stato applicato dapprima su un campione di dati costituito da un panel bilanciato relativo alle 20 regioni d’Italia e composto da 6 variabili con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 e il 2012, per un totale di 240 osservazioni. L’analisi è stato successivamente arricchita con ulteriori fattori sociodemografici ed economici. I modelli esaminati, oltre a confermare alcune relazioni già esistenti, hanno fatto emergere due risultati importanti. La relazione tra economia sommersa e intensità della regolamentazione non risulta positiva. Ciò dipende dalla modalità di costruzione dell’indicatore, dal campione di riferimento utilizzato e dalla tecnica di stima applicata. L’interpretazione economica della nuova relazione trovata è perfettamente intuibile considerando la specifica scelta dell’indicatore. E’ infatti agevole ritenere che nelle zone con una maggiore presenza di dipendenti pubblici il sommerso sia meno radicato e ciò a dimostrazione della positiva opera dei pubblici dipendenti di tutte le istituzioni centrali e periferiche. Infine la relazione tra l’economia sommersa e la densità di popolazione mostra un segno negativo, poiché laddove la maggior densità è legata ad una necessità lavorativa, tale variabile può essere correlata negativamente all’economia sommersa.

Perché gli americani lavorano più degli europei

Perché gli americani lavorano più degli europei

Il dibattito è stato innescato da un saggio dell’economista Edward Prescott pubblicato nel 2004, lo stesso anno in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Sulla base di un’elaborata analisi statistica, Prescott documentava che mediamente un americano lavorava il 50 per cento di più di un europeo (in termini di ore effettivamente lavorate in 12 mesi). Se – come hanno sempre ritenuto gli economisti “classici” – c’è un nesso tra lavoro e crescita, è questa una ragione per cui a partire dagli anni Ottanta, l’Europa arranca e l’America galoppa. Alberto Alesina e Bruce Sacerdote hanno ricordato che non è sempre stato così: all’inizio degli anni Settanta le ore effettivamente lavorate degli occupati americani ed europei si equivalevano ma da allora è iniziato uno strisciante divario che ha portato alla situazione documentata da Prescott. Prima che scoppiasse la crisi finanziaria e rallentasse l’economia, un contributo importante è venuto dall’Organizzazione internazione del lavoro (Ilo, International Labor Organization) i cui rapporti periodici sugli indicatori chiave del mercato del lavoro affermano che gli stakanovisti non sono gli americani (con le loro 1.824 ore l’anno effettivamente lavorate, mediamente, da ciascun occupato) ma i coreani del sud (con 2.380 ore, ossia 48 ore la settimana tenendo conto di due settimane di vacanza). In Europa, poi, gli sfaticati (per così dire) non sono gli spagnoli con le loro mediamente 1.799 ore, più delle 1.669 dei britannici, per non parlare delle 1.450 ore circa dei francesi e degli italiani.

Gli Stati Uniti galoppano non solo perché ciascuno di loro lavora più ore degli europei ma perché la loro produttività oraria (output per ora lavorata) è maggiore di quella rilevata nel Vecchio Continente. La produttività oraria dei francesi è quasi pari a quella degli americani (quella degli italiani è il 70 per cento di quella Usa). La determinante principale sono i congedi annuali per ferie, per malattia o altro e le festività ufficiali. Il dibattito ha gradualmente interessato più i sociologici del lavoro che gli economisti. Nello scavare nel differenziale ci si è chiesto sempre di più se gli europei non dessero maggiore valore ad altri aspetti della qualità della vita (il tempo libero, la famiglia, le attività culturali) rispetto al lavoro.

Il tema torna d’attualità ora che dalla crisi si spera di uscire: nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione è pari a poco più del 10 per cento delle forze di lavoro, negli Usa al 5 per cento. Il Pil degli Stati Uniti cresce circa al 3 per cento l’anno, quello dell’area dell’euro ristagna. Dato che una maggiore crescita del Pil è universalmente ritenuta come ingrediente per ridurre il flagello della disoccupazione, non è utile tornare ad indagare sulle differenze di ore di lavoro tra i due lati dell’Atlantico?

Lo hanno fatto in un documento di Linda Bell (Istituto tedesco di Studi sul Lavoro) e Richard Freeman (Università di Harvard) tramite un’indagine empirica rigorosamente economica, ossia amministrando questionari ad un campione di lavoratori tedeschi ed americani. Le differenze in ore lavorate e impegno (quindi, produttività) e il loro cambiamento negli ultimi 30 anni non risalgono a determinanti sociologiche ma a come lo stato sociale (con i relativi ammortizzatori) si è esteso in Germania (e nel resto d’Europa) mentre è rimasto minimo negli Usa. Negli Stati Uniti, in breve, si lavorano più ore che in Europa perché si teme di finire sul lastrico se si resta senza lavoro. Altra determinante è il prestigio sociale che gli americani attribuiscono agli alti redditi da lavoro. Non è il caso di riprendere questi temi nel delineare il futuro della normativa sul lavoro.

Un lavoro freschissimo di Alexander Bick (Arizona State University), Bettina Bruggemann (NcMaster University) e Nicola Fuchs-Schundeln (Goethe Univeistaat di Francoforte) – IZA Discussion Paper No. 10179 – utilizza i dati delle indagini nazionali sulle forze di lavoro dal 1983 al 2011 per esaminare le ore effettivamente lavorate per persona occupata a livello aggregato per 18 Paesi europei e per gli Stati Uniti. In generale, gli europei occupati lavorano su base annua il 19% di meno degli americani. Circa la metà del differenziale deve attribuirsi a livelli d’istruzione ed a normative nazionali su ferie e congedi. Dalla crisi non abbiamo appreso nulla.

Presentazione La Buona Spesa a Tor Vergata

Presentazione La Buona Spesa a Tor Vergata

Presentazione del volume “La Buona Spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa” di G. Pennisi e S. Maiolo

29 settembre 2016 – ore 16:00

Biblioteca “Vilfredo Pareto”
Università di Roma “Tor Vergata” – Macroarea di Economia

Introduce
Simone Bressan (Direttore Centro Studi ImpresaLavoro)

Intervengono
Sergio Cherubini (Università di Roma “Tor Vergata”)
Pierluigi Coppola (Università di Roma “Tor Vergata”, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti)
Mario Sebastiani (Università “Tor Vergata”, Società Italiana di Politica dei Trasporti e della Logistica)
Giovanni Trovato (Università di Roma “Tor Vergata”)
Salvatore Zecchini (Comitato Ocse Piccole e Medie Imprese)

Concludono
Giuseppe Pennisi (CNEL e ImpresaLavoro)
Stefano Maiolo (Nucleo di Valutazione degli Investimenti Pubblici della Regione Lazio)

Il capitale sociale oggi

Il capitale sociale oggi

Circa venticinque anni fa Robert Putnam dell’Università di Harvard pubblicò un saggio (Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy) che venne considerato fondamentale: The Economist lo giudicò importante quanto “La Democrazia in America” di Tocqueville. In Italia ebbe appena un successo di stima, forse a ragione del titolo poco accattivante della traduzione “Le tradizioni civiche delle Regioni italiane”). Putnam, che parla perfettamente italiano, ha studiato per quattro lustri per quale motivo le Regioni italiane, pur con un impianto normativo quasi identico, svolgevano e svolgono le loro funzioni in modo molto differente. Con una poderosa analisi statistica giunse alla conclusione che le differenze dipendevano dal capitale sociale (inteso come fiducia reciproca tra cittadini e tra questi ultimi e i governanti).

E’ appena uscito un nuovo interessante lavoro di Kirk Hamilton (Banca Mondiale), John Helliwell (University of British Columbia) e Michael Woolcock (Banca Mondiale) intitolato “Il capitale sociale, fiducia e benessere nella valutazione della ricchezza” e pubblicato come NBER Working Paper No. 22556. Gli autori uniscono la teoria con i dati provenienti da diversi domini di fornire un’analisi empirica della scala e della variabilità del capitale sociale come ricchezza. Questo è usato per esaminare, dato ciò che si è imparato nella letteratura sul capitale sociale, che i benefici dell’investire in fiducia potrebbero essere sostanziali.

Utilizzando i dati fiducia sociale da 132 nazioni oggetto del sondaggio Gallup mondiale, viene presentata una serie di stime dei valori di ricchezza equivalente di fiducia sociale. Le stime della ricchezza derivante dal capitale sociale sono molto grandi, e con una struttura e distribuzione molto diversi da quelli per il capitale fisico. Queste stime riflettono valori ben oltre quello della fiducia sociale e del suo contributo al reddito di sostegno ai poveri e alla salute. Anche se la fiducia sociale è una componente importante della ricchezza totale in tutte le regioni e gruppi di paesi, ci sono comunque grandi variazioni all’interno e tra le regioni, che vanno da un minimo di 12% della ricchezza totale in America Latina al 28% in sede OCSE. Quindi Putman ha visto giusto ma non basta la fiducia reciproca. Soprattutto se e quando i valori fondamentali ra i vari Paesi divergono profondamente.

Chi c’era e cosa si è detto alla presentazione de “La buona spesa” alla Fondazione Luigi Einaudi

Chi c’era e cosa si è detto alla presentazione de “La buona spesa” alla Fondazione Luigi Einaudi

di Gianluca Zapponini – Formiche.net

La manovra è alle porte (la discussione in Cdm avverrà entro il 20 ottobre) e puntuale come ogni anno si ripresenta l’annoso problema del taglio alla spesa pubblica. Su come cioè ridurre quei 700 miliardi che sottraggono risorse preziose all’economia reale. Un argomento dunque mai fuori moda e anche per questo al centro di un dibattito in occasione della presentazione del libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La buona spesa” (edito da ImpresaLavoro), ieri presso la Fondazione Luigi Einaudi a Roma.

La madre di tutti i problemi è «un’amministrazione che ormai è in crisi perché non è più in grado di progettare ma, soprattutto, di valutare», per dirla con le dure parole di Paolo De Ioanna, consigliere di Stato, già sottosegretario all’Economia e autore di saggi sul debito pubblico e spesa statale: «Questo tipo di opere, sono necessari per ritrovare la cultura della valutazione. Che oggi non appare essere più propria dell’amministrazione. E se non si sa valutare poi non si riesce a risparmiare». Dunque, è l’opinione dell’esperto, inutile parlare a vanvera di spesa, se non si agisce direttamente sul cervello, ossia la Pa. «Avevamo, va detto, un’amministrazione buona, efficiente. E ora l’abbiamo distrutta. Ci siamo solo concentrati sulla finanza, dimenticando settori come la sanità e i trasporti».

Ma perché scrivere un libro sulla revisione della spesa, argomento ben trattato negli ultimi anni? La risposta è arrivata direttamente dallo stesso autore, Giuseppe Pennisi: «Ci sono stati tanti commissari e nessuno ha risolto nulla. In Francia avevano già risolto il problema da tempo. In molti Paesi per esempio sono stati fatti dei corsi per i dirigenti. Addirittura, in Francia, i ministeri debbono argomentare il loro bilancio, anche con i cittadini». Queste azioni, ha spiegato l’economista, non sono state fatte finora in Italia. Di qui l’esigenza di “nuove indicazioni” in materia di spesa pubblica.

Nel corso del convegno, cui ha partecipato anche il sociologo e docente Luiss Luciano Pellicani, è stato affrontato anche il problema del come comunicare a chi poi dovrà decidere, cioè il governo, i suggerimenti. Su questo si è espresso Renato Loiero, dell’Ufficio Bilancio Senato. «E’ necessario riaffermare una spesa efficiente. Uno dei problemi fondamentali è comunicare la valutazione al decisore politico, la valutazione sulla spesa aggredibile. Il problema è rendere il tutto comprensibile a chi poi deve decidere. Renderlo facile, accessibile. Nulla più di uno strumento di valutazione, come l’opera, può essere utile per decidere come tagliare la spesa».

Il lato oscuro dell’autoregolamentazione

Il lato oscuro dell’autoregolamentazione

I liberali hanno sempre guardato con sospetto l’’autoregolamentazione’, ossia la regolamentazione emessa e applicata da corpi sociali intermedi oppure da associazioni di settore. La preoccupazione è che gli interessi degli associati prevalgano sul quello generale, a spese della collettività. Meglio il confronto, anche aspro, tra interessi contrapposti che ergersi, al tempo stesso, a regolatori (e giudici) dei propri associati.

Benjamin P. Edwards della Barry University School of Law esamina in dettaglio Il Lato Oscuro della Deregolamentazione in un lavoro accademico in corso di pubblicazione (ed inviato ad amici e conoscenti per osservazioni. Lo studio analizza in dettaglio il caso della Financial Industry Regulatory Authority (FINRA): un’organizzazione privata senza fini di lucro che opera negli Stati Uniti che elabora e applica regolamenti relativi al funzionamento di una delle Borse più importanti del mondo – il New York Stock Exchange – e che in caso di controversie opera come arbitro tra agenti ed agenzia di Borsa. Nel caso in cui l’arbitrato non porti ad un accordo, le parti (o la parte che si considera danneggiata) può adire alla Securities and Exchange Commission (SEC), la Consob americana. In pratica le medie aziende quotate fanno appello quasi solamente alla FINRA perché le procedure sono più basse e i costi più snelli di una vertenza in cui si fa appello alla SEC.

Per avere un’idea del ruolo della FINRA, nel 2015 (ultimo anno per il quale si hanno dati completi) ha svolto 1.512 azioni disciplinari nei confronti di agenti e agenzie di Borsa del New York Stock Exchange ed esatto multe per 95,1 milioni di dollari nonché ordinato la restituzione per 96,6 milioni di dollari a investitori danneggiati dai loro agenti. Inoltre, si è rivola alla SEC per ottocento casi di frode o di insider trading. Naturalmente il sito della FINRA è colmo di elogi nei confronti dell’organizzazione.

Non la pensa così Benjamin P. Edwards, il cui lavoro sottolinea come la struttura della FINRA presenta «il rischio continuo che i suoi associati plasmino le procedure, o la loro applicazione, in modo da funzionare come un cartello tale da promuovere gli interessi dei loro associati invece che di quelli della collettività e contribuiscano alle rendite eccessive degli intermediari di Borsa». Mentre studi precedenti hanno esaminato contributi positivi e distorsioni relative a organizzazioni di auto-regolamentazione, lo studio di Edwards esamina come il pubblico e la società civile possono incidere sull’operativà della FINRA. Edwards sottolinea che i rappresentanti della società civile negli organi di governo e di gestione della FIRNA siedono spesso nei Consigli d’Amministrazione degli intermediari finanziari, dando luogo a frequenti ove non continui conflitti d’interesse. Nelle conclusioni, Edwards formula una serie di proposte per risolvere o almeno attenuare il problema.

Globalizzazione, competizione tributaria e la crisi fiscale dello Stato sociale

Globalizzazione, competizione tributaria e la crisi fiscale dello Stato sociale

In questi giorni in cui è molto acuta la querelle tra la Commissione Europea, il Governo della Repubblica d’Irlanda e la Apple vale la pena riprendere in mano un lavoro di Reuven S. Avi Yonah (un giurista della Law School della Università del Michighan) inizialmente pubblicato nel lontano maggio del 2000 nella Harvard Law Review ma di recente aggiornato: Globalization, Tax Competition and the Fiscal Crisis of the Welfare State.

Il paper parte dalla constatazione che l’attuale globalizzazione è molto differente dalla precedente – quella tra il 1870 ed il 1914) in quanto caratterizzata da una mobilità molto più elevata del capitale che del lavoro mentre tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, prima che venissero posti limiti all’immigrazione, il lavoro era almeno tanto mobile quanto il capitale. La mobilità del capitale è il risultato del progresso tecnologico (la possibilità di spostare somme enormi in via elettronica) e della fine dei controlli valutari. La mobilità del capitale è strettamente legata alla competizione tributaria, in base alla quale gli Stati sovrani possono ridurre le tasse e le imposte su soggetti (individui, famiglie ed imprese) nei loro confini al fine di attirare investimenti in portafoglio e diretti. La competizione tributaria, a sua volta, rappresenta una minaccia per il gettito da tasse ed imposte su individui ed imprese che tradizionalmente hanno alimentato i moderni stati sociali.

La risposta iniziale dei Paesi avanzati è stata quella di spostare l’onere tributario dal capitale (più mobile) al lavoro (meno mobile). Quando l’aumento della tassazione sul lavoro è apparso non più sostenibile (senza danneggiare seriamente l’occupazione), si è tentato di ridurre tutele lavoristiche e previdenziali. Ma anche questi tentativi si sono scontrati con opposizioni politiche e sociali. Quindi, la globalizzazione e la competizione tributaria causano crisi fiscali a Paesi che vogliono continuare a fornire ai loro cittadini servizi sociali al tempo stesso in cui le tendenze demografiche, le diseguaglianze, il mercato del lavoro rendono tanto più necessaria una rete di tutele. L’esito è l’aumento delle pressione per reintrodurre controlli sui capitali con il rischio di ridurre crescita e benessere a livello mondiale. Se si vuole mantenere l’internazionalizzazione dei mercati e la rete di tutela sociale occorre ‘limitare la competizione tributaria in modo congruo con la capacità di Stati democratici di determinare il perimetro desiderabile dei loro settori pubblici.

Questo è il punto essenziale. Ed è un punto squisitamente politico. Può la Commissione Europea (organo tecnico) diventare al tempo stesso organo politico e magistratura per decidere su quale competizione tributaria è legittima o non legittima sino a quando gli Stati membri non hanno concluso un trattato in materia?

L’apriorismo di Mises

L’apriorismo di Mises

Un paper di Scott Scheall della Arizona State University (il working paper No.2016-23 del Center for Historical Political Economy) fa il punto su un tema molto dibattuto da liberali e liberisti: “Quanto è estremista l’apriorismo di Mises” (“What is Extreme about Mises” )?

Il saggio è breve ma succoso e merita di essere letto in una fase, come l’attuale, in cui anche esponenti (sino a poco tempo fa) del pensiero marxista si autoproclamano liberali. Scheall sottolinea che c’è qualcosa di “estremo nell’apriorismo di Mises”, soprattutto la sua giustificazione epistemologica che basa la teoria economica su alcuni elementi portanti “aprioristici”. I critici di Mises considerano l’epistemologia di Mises come basata su conoscenze ed affermazioni “aprioristiche” . Molti dei suoi sostenitori hanno ignorato o dato poco peso a questa critica. Quindi, la critica è diretta meno verso Mises e piuttosto verso la letteratura secondaria,ignorando che critici di rango hanno considerato estremista l’apriorismo di Mises. Una difesa debole perché l’estremismo apriorista è una virtù dei liberali veramente liberisti. Analogamente, Voltaire si considerava intollerante nei confronti degli intolleranti.

E per sorridere, il caos delle elezioni americane. Se vince Hillary per la prima volta due Presidenti andranno a letto alla Casa Bianca. Se vince Trump per la prima volta un miliardario bianco andrà ad abitare nella casa da cui è stata sfrattata una coppia nera.