giuseppe turani

L’asta può attendere

L’asta può attendere

Giuseppe Turani – La Nazione

Il cavallo non beve? Ci sono i soldi ma le imprese li lasciano nelle banche? Probabilmente sì. La Bce ha messo a disposizione delle banche una prima tranche dei 400 miliardi stanziati da qui a dicembre. Ci si aspettava che in questa prima asta le richieste fossero almeno di 100 miliardi. Invece ci si è fermati poco sotto quota 83 miliardi. Mario Draghi, cioè ha messo sul tavolo 100 miliardi, ma non sono stati ritirati nemmeno tutti dalle banche (che avrebbero dovuto rigirarli alle imprese). Ma non c’era l’intera Europa affamata di soldi da investire? La vicenda è un po’ più complessa.

Intanto, questa prima assegnazione di fondi è caduta proprio nel giorno del referendum scozzese. Le banche, non sapendo quale sarà la situazione dell’euro il giorno dopo, hanno preferito muoversi con i piedi di piombo. Inutile rischiare quando si potrà partecipare alle altre aste. La seconda ragione della prudenza è molto tecnica. A ottobre scattano per le banche europee gli stress-test. Si faranno prove per vedere come i bilanci degli istituti reagiscono di fronte a una serie di difficoltà. Le banche lo sanno e si sono preparate (come hanno potuto). In pratica dovrebbero avere tutte i bilanci a posto, in grado di superare gli stress-test. In queste condizioni hanno preferito non complicarsi troppo la vita imbastendo operazioni finanziarie nuove a pochi giorni dall’avvio dei test.

Anche perché i soldi della Bce si potevano ritirare solo a fronte di reali prestiti alle aziende o alle famiglie. In sostanza, bisognava impostare delle operazioni di credito che invece si è ritenuto più prudente rinviare al fine di non “sporcare bilanci che, almeno in teoria, così come sono dovrebbero essere in grado di superare le prove previste. Ma quasi certamente c’è anche il fatto che le banche europee non hanno davanti ai loro sportelli la fila di aziende che chiedono soldi per nuovi e vantaggiosi investimenti. E la cosa è abbastanza comprensibile.

L’economia europea è quasi ferma (quella italiana va addirittura indietro). In queste condizioni anche l’imprenditore più avventuroso si guarda bene dall’investire visto che poi non saprebbe a chi vendere i suoi prodotti. Sembra di capire (ma bisognerà attendere le prossime aste) che mettere soldi sul tavolo non basta: bisogna anche che esista un mercato, cioè gente che abbia la voglia di fare acquisti e di spendere soldi. Oggi non è così.

Come Ue comanda

Come Ue comanda

Giuseppe Turani – La Nazione

La fretta e il piglio più deciso con cui Renzi sta affrontando la questione delle riforme ha una sola possibile spiegazione. Fra Bruxelles e Roma, senza che siano stati firmati protocolli o carte, è entrato in funzione quello che potremmo chiamare crono-programma. Il vertice dell’Ue ha spiegato molto chiaramente che, senza riforme, non ci sarà nessuna attenzione speciale per l’Italia. E, inoltre, ha anche fatto capire che non si può tirare tanto per le lunghe. Da qui il crono-programma: mano a mano che le riforme diventano reali da Bruxelles arriverà qualche attenzione (e qualche soldo) in più. Non è come avere la Troika in casa, ma la differenza non è moltissima: lasciano all’Italia la libertà di fare quello che va fatto. Altrimenti: applicazione severa delle norme comunitarie. In questi ultimi tempi gli appelli da Bruxelles sono stati ripetuti e molto chiari. E anche Draghi ne ha fatti almeno tre di appelli, sia pure nei modi felpati e nebbiosi propri dello stile di un banchiere centrale. Le tensioni delle ultime ore nascono proprio da questo: ci sono alcune cose che la Bce e la Ue considerano non più rinviabili. Il primo caso che viene in mente è quello del mercato del lavoro.

Sono mesi che cercano di farci capire che con l’attuale organizzazione del lavoro non si va da nessuna parte. Il professor Giulio Sapelli, che peraltro è critico verso Ue e Bce, da tempo va sostenendo che la nostra legislazione sul lavoro va rasa al suolo e sostituita con qualcosa di più semplice e di più moderno. E il senatore Ichino a questo sta lavorando da anni. Nessuno ci ha dettato i particolari, ma le richieste europee si possono sintetizzare in una semplice frase: più flessibilità in entrata e più flessibilità in uscita. Questo significa che l’articolo 18 ha i giorni contati. E la stessa cosa si può dire di altre norme che ingessano il lavoro.

Di fronte a questo clima cambiato, la Cgil è già insorta e minaccia grandi mobilitazioni di massa, sostiene (non a torto) che la soppressione (totale o parziale) dell’articolo 18 è lo scalpo che l’Italia si appresta a offrire ai falchi europei. Rimane da capire quanto l’attuale organizzazione del lavoro abbia ancora senso in una società immersa nella competizione globale. E anche la resistenza della Cgil non sembra avere molte possibilità di vittoria: le pretese dei falchi, infatti, sono quelle del mondo moderno mentre la Cgil è un po’ ferma agli anni Cinquanta. Ma c’è di più. La vera grana per la Cgil è un’altra.- se l’articolo 18 può già considerarsi defunto, adesso la partita vera riguarderà la contrattazione aziendale e locale. In sostanza, la futura organizzazione del lavoro punterà a rendere meno importanti i contratti nazionali per dare più spazio alla contrattazione in sede locale o aziendale. Si vuole andare verso una maggiore aderenza al mercato. I dipendenti di aziende che vanno bene potranno chiedere salari più alti, quelli di aziende che vanno male dovranno accontentarsi di buste paga più esili. È facile capire come questa linea finisca per rendere più sfumato il ruolo delle grandi confederazioni sindacali nazionali, destinate a perdere di peso e di importanza. Il sindacato non accetterà tutti questi cambiamenti di buon grado. Ci sarà quindi una tensione crescente. Ma nemmeno la Cgil potrà andare contro la storia. Ormai il mondo va in questa direzione: più flessibilità e più spazio alle realtà aziendali. I contratti buoni dal Trentino alla Sicilia stanno per andare in pensione, assieme all’articolo 18.

Italia in coda a un’Europa depressa

Italia in coda a un’Europa depressa

Giuseppe Turani – La Nazione

Stiamo viaggiando dentro un convoglio che ha il freno a mano tirato e, naturalmente, siamo il vagone di coda, quello che si sta perdendo per strada. Questo è il senso del ‘ultimo rapporto Ocse sull’economia europea. È quasi inutile persino guardare le cifre, tanto sono deludenti.

La crescita europea, nel suo complesso, quest’anno sarà grosso modo quella che in America si ha in un trimestre. Se poi dall’insieme del Vecchio Continente passiamo ai singoli Paesi più grandi le cose cambiano di poco. La Germania ha un po’ più di sprint rispetto alla media, ma siamo sempre in una zona di bassa crescita. La Francia fa un po’ peggio della Germania e l’Italia rischia addirittura di farsi, oltre ai due che ha già fatto, altri due anni di recessione: il 2014 e il prossimo. Perché accade questo? La risposta non è difficile: l’Europa è un Paese chiuso dentro una doppia ingessatura.

La prima riguarda il suo assetto istituzionale e le sue regole di convivenza. È un’area lenta, dove nulla si cambia se non dopo lunghi dibattiti e lunghi scontri con delle burocrazie molto potenti, che hanno il solo obiettivo di rendere tutto ancora più labirintico e complicato. Inoltre, non si può nemmeno escludere che l’Europa tenti di difendere un welfare diventato ormai molto costoso. La cura delle persone (il welfare) è la cosa che distingue l’Europa dall’America, ma forse il suo peso comincia a essere eccessivo.

Il secondo tipo di ingessatura che frena l’economia del Vecchio Continente è quella che si potrebbe definire come “avarizia monetaria”. Negli Stati Uniti, allo scoppio della crisi hanno deciso di non badare a spese e le rotative della Federal Reserve hanno lavorato anche di notte per stampare dollari. È probabile che abbiano anche esagerato, ma alla fine il gigante si è mosso e adesso cresce abbastanza bene. In Europa, come tutti sanno, si è seguita la strada inversa. I tedeschi si sono opposti a usare l’euro (magari stampato in quantità industriali) come medicina per la crisi. Poiché molti Paesi (Italia compresa) avevano già esagerato con i debiti, hanno preteso (e pretendono) che prima si faccia un po’ di ordine: i famosi ‘compiti a casa ‘. Abbiamo cominciato con Monti e stiamo ancora andando avanti, tre governi dopo. Gli altri Paesi non stanno molto meglio però. La Germania respira appena, rispetto alle sue potenzialità, e la Francia se ne sta li con l’acqua alla gola.

La conclusione è molto semplice: i tedeschi volevano un Continente serio e ordinato, con governi molto attenti e responsabili, a loro immagine e somiglianza, ma finora non hanno ottenuto quasi niente di tutto questo. Sono solo riusciti a trasformare un’area in cui vivono più di 400 milioni di persone in una zona depressa del pianeta.

Mille giorni all’alba

Mille giorni all’alba

Giuseppe Turani – La Nazione

Mille giorni per cambiare l’Italia a molti sono sembrati un’abile fuga in avanti. Un modo per non prendere impegni troppo ‘vicini ‘ e quindi facilmente verificabili. Mille giorni, però, sono probabilmente pochi. Due soli dati per capire come siamo messi male: oggi il sistema Italia, invece di produrre ricchezza, produce mille disoccupati al giorno. È un po’ come se avessimo inventato un’economia che gira all’incontrario Il secondo dato è che nella classifica mondiale dell’alta velocita su Internet (la modernità) siamo al 98esimo posto: siamo dietro alla Grecia e, se può consolarci, davanti al Kenya.

A questo si può aggiungere il fatto che sono almeno 10-15 anni che l’Italia non cresce. E questo nonostante si sia fatto larghissimo ricorso ai debiti. Gli esperti di Oxford Economics, e questa è una buona notizia, collocano il punto di svolta, dove cesseremo di andare indietro, in un momento che si colloca qualche settimana fa. Se hanno ragione, dovremmo già avere imboccato la strada buona. Ma gli stessi economisti ci dicono che nel periodo 2014-2018 la crescita media annuale dell’Italia sarà solo dello 0,9 per cento. Nel periodo successivo (2019-2023) la nostra crescita media annua dovrebbe essere dell’1,1 per cento. E prevedono, nel 2023, una disoccupazione ancora del 9,3 per cento: cioè quasi un italiano su dieci senza lavoro.

Quali siano le cose da cambiare lo si sa da sempre: meno burocrazia, meno spese folli della pubblica amministrazione, sindacati piccoli e grandi meno corporativi, una giustizia ‘umana ‘ nel senso che interviene in tempi ragionevoli). Per fare tutti questi cambiamenti bastano mille giorni? Io dico di no. Allora Renzi mente? No. Penso che speri di farci vedere qualcosa, qualche cambiamento in questi mille giorni, che ci faccia venire voglia di andare avanti davvero, smantellando l’Italia delle caste, dei ceti protetti, delle tonnellate di carta che vagano da un ufficio all’altro. Sono ottimista? Forse. Però se nessuno cambia questa Italia, questa Italia continuerà a essere una piccola cenerentola, mal sopportata dagli altri e che non garantirà niente ai giovani di oggi.

Tagliare le tasse

Tagliare le tasse

Giuseppe Turani – La Nazione

Matteo Renzi si aspettava un risultato un po’ scadente, ma non così tanto: meno 0,2 per cento nel secondo trimestre dell’anno rispetto al primo (che aveva già fatto segnare un arretramento dello 0,1 per cento) è un risultato che non si presta a equivoci. E ha un solo significato, chiarissimo: tutto quello che si è fatto (o non si è fatto) finora per agevolare la ripresa in realtà si è rivoltato contro di noi e ci ha rimandati indietro.

I politici hanno la memoria corta, ma nell’ultimo trimestre del 2013 la ripresa c’era stata, l’abbiamo vista, l’Istat l’ha certificata. Una ripresa piccola (solo lo 0,1 per cento sul trimestre precedente), ma comunque ripresa. Fine del Pil che va indietro invece di andare davanti. E si pensava che da quello 0,1 per cento si sarebbe proseguito verso valori più interessanti e importanti. Lo stesso premier Renzi deve aver ritenuto che fosse una cosa naturale, molto semplice. Ma non è stato così. Il segnale d’allarme (forte e chiaro) è arrivato subito, nel primo trimestre di quest’anno, che ha fatto segnare un arretramento dello 0,1 per cento. La ripresina, cioè, si era bruscamente interrotta e bisognava immediatamente mettere in campo qualcosa per riacchiappare un Pil che stava andando indietro e non avanti come era nei sogni di tutti e nelle aspirazioni del governo. Si è fatto tutto quello che era necessario e che sarebbe stato utile? La risposta è: no, evidentemente. Il governo ha continuato a tessere la trama delle sue riforme nella convinzione, probabilmente, che ormai la crescita fosse come una pianta di fagioli che vien su da sola. Ma in economia (soprattutto di questi tempi) non c’è niente che mette radici e punta verso l’alto in modo spontaneo. Anche l’allarme del primo trimestre è stato ignorato.

Che cosa è mancato? Molte cose. Intanto una vera riforma del mercato del lavoro. Qualcuno dice che la nosra legislazione in materia andrebbe semplicemente buttata via e rifatta ex novo (professor Giulio Sapelli). Ed è difficile non concordare: più di 2mila articoli di legge regolano il lavoro in Italia. E solo specialisti di alto livello ci capiscono qualcosa. Figurarsi gli investitori stranieri, abituati a cose molto più semplici. Poi c’era l’eterna promessa di tagli alla spesa pubblica. Promessa ribadita in modo solenne da tutti quelli che sono passati per Palazzo Chigi negli ultimi vent’anni (e quindi anche da Renzi). Ma, salvo qualche limatura, non si è visto niente. Non avendo tagliato la spesa pubblica (in Italia quasi un milione e mezzo di persone vive alle spalle della politica e quindi delle casse pubbliche), non si è riusciti a far scendere la pressione fiscale. Pressione che ormai raggiunge, in termini reali, il 53 per cento. Questo è il nodo vero: può essere che veda decollare un Paese con una simile pressione fiscale, ma non ci credo. Con questo livello di tassazione la gente è assai poco motivata e vive nel terrore di non riuscire a pagare le imposte.

Ma adesso cosa si può fare? Per il 2014 è ormai un po’ tardi. Qualunque misura avrà effetto solo nel giro di mesi e siamo già vicinissimi alla pausa estiva. Inoltre, in questa seconda parte dell’anno, la congiuntura internazionale è meno favorevole. Quindi non rimane che puntare sul 2015. Ma stavolta facendo davvero qualcosa di significativo: vendere qualche auto blu non basta. E nemmeno distribuire 80 euro. Per ripartire sul serio l’economia vuole vedere la pressione fiscale che scende, decisamente e regolarmente. In misura consistente.