grandi opere

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Carlo Lottieri

Il dibattito di questi giorni suscitato dai recenti scandali legati alla gestione delle grandi opere si sono quasi interamente focalizzati sul coinvolgimento più o meno diretto di questo o quel politico, e al massimo hanno indotto taluni a interrogarsi sul tema (ben più vasto) del rapporto tra vita pubblica, imprese e corruzione.
Pochi hanno però focalizzato la loro attenzione sulla questione delle infrastrutture stesse e sul fatto, in particolare, che in Italia continua a dominare l’idea che trafori, ponti, linee ferroviarie e altre cruciali iniziative dette “di interesse generale” debbano essere progettati, costruiti e poi gestiti dallo Stato. Per contro, quanti si oppongono a questa prospettiva interventista quasi sempre sono animati da un furore ideologico di taglio ambientalista che guarda con ostilità ogni innovazione.
In questo senso, la battaglia scatenata in questi anni contro la Tav è la riprova che molte grandi opere di Staro sono bloccate solo in ragione del prevalere di un ecologismo pregiudizialmente avverso alla modernità e alle esigenze dell’economia. E non si tratta certo di un contrasto tra destra e sinistra, dato che la demagogia ecologista ha contagiato esponenti di ogni schieramento.
C’è però anche dell’altro. In fondo, le tensioni riguardanti le grandi opere sono pure la conseguenza di logiche tecnocratiche che fatalmente creano legittime resistenze. Una realizzazione destinata ad avvantaggiare un gran numero di persone dovrebbe anche destinare ingenti risorse a quanti possono essere danneggiati da quell’opera. Non è accettabile che, come avvenne nel caso dell’aeroporto di Malpensa, si arrechino danni patrimoniali tanto rilevanti senza aver avviato una trattativa con i proprietari di case e terreni, che a seguito della realizzazione dello hub in provincia di Varese hanno visto dimezzato il valore delle loro abitazioni.
La logica delle grandi opere, allora, deve cambiare non solo perché fino a ora le infrastrutture maggiori sono state essenzialmente grandi occasioni di corruzione e spreco. Oltre a ciò, è importante che questo ambito sia consegnato ai privati e al diritto. Bisogna insomma che da decisioni assunte unilateralmente si passi a negoziazioni tra privati che rispettino i diritti e le ragioni altrui. Anche per questo è indispensabile che le opere di grande interesse – si tratti di strade, impianti energetici, ponti o metropolitane – siano realizzate da imprese, e non direttamente dallo Stato.
Quest’ultimo, infatti, ha la tendenza a lanciarsi in imprese economicamente irrazionali, senza tenere in considerazione i diritti delle persone interessate. Tutto questo ovviamente esige non soltanto che si metta da parte il pregiudizio secondo il quale solo lo Stato può realizzare opere di particolare rilievo, ma al tempo stesso è importante che si difendano due diritti: la libertà di iniziativa degli imprenditori, che non possono essere bloccati da una troppo fitta rete di regole e burocrazie, e il diritto di proprietà di quanti possono essere penalizzati da questa o quella costruzione di particolare impatto.
La nostra società ha bisogno di essere all’altezza dei tempi e rinnovarsi di continuo, ma è necessario che siano fissate regole a tutela di tutti e che quanti si lanciano in imprese colossali facciano tutto ciò con i loro soldi e, al tempo stesso, senza subire veti infondati o subire ricatti di vario genere.
Oggi parlare di grandi opere significa evocare corruzione, da un lato, e costi davvero alti per i contribuenti, dall’altro. Significa evocare logiche dirigiste e scelte top-down che suscitano tensioni e ledono diritti. È il momento di voltare pagina.
Le figuracce sulle grandi opere ci allontanano dalla ripresa

Le figuracce sulle grandi opere ci allontanano dalla ripresa

Davide Giacalone – Libero

Il rito è sempre lo stesso: condannare alcuni senza processo per non doversi interrogare sulle responsabilità diffuse. Parlare dei funzionari come portentosi ministri ombra, per non doversi domandare come mai i titolari non sono l’ombra di ministri. E mentre si celebra il rito inutile dell’irresponsabilità collettiva si perde di vista il cuore del problema, che non è criminale, ma economico: la ripresa non può essere innescata solo da politiche monetarie e l’Unione europea s’industria a liberare investimenti, pubblici e privati, in quelle che noi chiamiamo «grandi opere».

Da noi ci sono due possibilità: che ad averne la gestione siano costantemente dei lestofanti, o che chiunque le gestisca è passibile di finire in galera, perché è discrezionale e deresponsabilizzante la gestione degli appalti quanto quella delle inchieste. Il che ci mette nelle peggiori condizioni per agguantare la parte strutturale e permanente degli investimenti e della ripresa. Questo è il problema.

Alcuni funzionari, fra i più capaci, diventano potenti e inamovibili perché i ministri sono incapaci  e di passaggio. I secondi creano o accettano meccanismi che non possono funzionare, sicché tocca ai primi trovare il modo di raggiungere comunque il risultato. All’inizio è genialità e arcana furbizia, sì che qualche binario s’imbullona e qualche trave si poggia. Con il tempo diventa abitudine alla deroga e alla scorciatoia, imboccata con una discrezionalità patologica quanto l’irrealistica regolarità.

Vedo che molti di quelli che ne scrivono non hanno idea di come funzioni una gara o un appalto pubblici: un’orgia per amministrativisti, una palestra del ricorso, una fucina ch’emana vapori e clangori, ma non batte un chiodo. E quando s’accorcia pericolosamente la distanza temporale fra il lavoro da farsi realizzare e la procedura che non ha mai cominciato a camminare, ecco che si deve derogare o prorogare. Ma non è finita, perché anche derogando l’ipocrisia vuole che si racconti al volgo l’acuta capacità dell’ottusità ministeriale, capace di risparmiare operando. Così le gare diventano bische e i prezzi fantasie ribassiste. In quelle condizioni si chiude la procedura, ma certo non si realizza il lavoro, E allora ecco che partono le revisioni dei prezzi. Tante lievitazioni dei costi sono, in realtà, conseguenza di progetti irrealistici e preventivi farlocchi. Ma, anche qui, una volta che ci prendi la mano ci metti anche il resto, regali e consulenze compresi.

Anziché rimediare cambiando radicalmente la procedura, che diventerà razionale solo il giorno in cui si accetterà il principio che dal mondo non si bandiscono il vizio e l’interesse, ma se ne attribuisce il merito e la responsabilità a chi ha il potere (da noi alleviamo impotenti  irresponsabili, sicché prodighi nel vizio e proni all’interesse), preferiamo lo spettacolo dell’inchiesta. Sempre uguale e sempre nuovo, conferma ripetitiva di un costume che Manzoni vide con impareggiabile lucidità: «Servo encomio e codardo oltraggio». Ecco, dunque, il pubblico ministero che fa la conferenza stampa ed espone l’accusa sotto l’egida della giustizia, sicché il tribunale, che arriverà dopo anni, si troverà non a curare un malato, ma a farne l’autopsia. Ecco i vignettisti che raffigurano in galera gli arrestati, dimentichi che si tratta d’innocenti e i comici specializzati nel bastonare il cane che affoga. Ecco gli indignati in servizio permanente effettivo. Ed ecco quelli che leggendo queste righe diranno «garantismo peloso», ove spero che comprendano l’aggettivo meglio del sostantivo.

A tutti sfugge un dettaglio: che siano ladri agguantati o vittime in ceppi (senza che una cosa escluda necessariamente l’altra), a noi restano i cocci di una macchina pubblica intrisa di cieca ipocrisia, incapace di gestire quello che in questo momento sarebbe vitale: la ripartenza delle grandi opere. L’esito del derby fra colpevolisti e innocentisti, tifoserie comunemente avverse al diritto, lo conosceremo quando non gliene fregherà più niente a nessuno. Già da oggi conosciamo il risultato nazionale: meno di zero.

Il “miracolo” delle grandi opere

Il “miracolo” delle grandi opere

Valerio Castronovo – Il Sole 24 Ore

Particolari sconti fiscali per le infrastrutture figurano nel decreto legge “Sblocca Italia”, previsto nel Consiglio dei ministri di fine agosto. Le opere pubbliche, insieme all’edilizia, erano le leve su cui faceva affidamento anche lo “Schema” per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione (a cui venne dato poi il nome di “Piano”) che il ministro del Bilancio, Ezio Vanoni, mise a punto insieme a Pasquale Saraceno, 60 anni fa, nell’agosto 1954, durante alcuni giorni di vacanza che essi passarono in Valtellina, a Morbegno e in Val Masino.
Ministro del Commercio estero nel 1947, Vanoni aveva svolto un ruolo di rilievo dal 1948 al 1953, quale titolare delle Finanze (a lui si dovevano, fra l’altro, la riforma tributaria e l’istituzione dell’Eni); Saraceno, un veterano dal 1933 dell’Iri (dove dirigeva il Servizio studi), era stato fra i promotori della Svimez e proprio nell’ambito dell’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno (un cenacolo di autorevoli meridionalisti e giovani studiosi di valore) s’era avviato – in coincidenza con la redazione di un documento presentato in aprile all’Oece sulla struttura dualistica dell’economia italiana – un progetto inteso a individuare e valutare quali avrebbero potuto essere i fattori propulsivi per una crescita dell’economia e del lavoro e per la riduzione del divario fra Nord e Sud.

L’annuncio da parte di De Gasperi, in giugno, al Congresso della Dc a Napoli, che Vanoni stava lavorando a un piano in grado di «assicurare a ciascuno un lavoro, una casa, una sussistenza degna di un uomo libero», suscitò naturalmente molte aspettative. Si era ormai esaurita la spinta impressa all’economia italiana dal recupero nel dopoguerra degli impianti non totalmente utilizzati, dalla ripresa fisiologica dell’agricoltura e dagli aiuti straordinari del Piano Marshall; inoltre s’era manifestato un disavanzo complessivo della bilancia commerciale, che registrava saldi attivi soltanto con la Svizzera e la Germania occidentale.
In pratica, lo “Schema” di sviluppo a cui lavorò, sotto la regìa di Vanoni, un gruppo di esperti della Svimez e di consulenti stranieri (tra i quali Paul Rosenstein Rodan e Jan Timbergen) era una sorta di “manifesto”, di disegno di programmazione, per una politica economica di lungo periodo, che assicurasse un efficace coordinamento dei provvedimenti dello Stato e un buon funzionamento del mercato. In sostanza, nell’arco di un decennio ci si proponeva di conseguire tre obiettivi: la creazione di quattro milioni di posti di lavoro nei settori industriale e terziario, che compensassero la riduzione dell’occupazione agricola (destinata a scendere, stando alle previsioni, dal 41 al 33% del totale); il superamento del divario Nord-Sud attraverso la promozione degli investimenti nel comparto industriale; il raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Affinché tutto ciò si realizzasse, si calcolava che ci sarebbero voluti un tasso di sviluppo medio annuo del 5%, un costante aumento della propensione al risparmio, e un mutamento della ripartizione settoriale e territoriale degli investimenti, sostenuti in particolare dallo Stato e dalle imprese pubbliche.

Approvato alla fine del 1954 dal Governo centrista presieduto da Mario Scelba, questo “Piano” raggiunse, alla fine del decennio, alcuni risultati di rilievo: come, l’aumento di 2,6 milioni di addetti nell’occupazione extra-agricola (sebbene l’esodo dalle campagne fosse stato superiore alle previsioni) e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Inoltre, il varo dello “Schema Vanoni” concorse alla decisione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo di incrementare i suoi prestiti, di cui venne a beneficiare la Cassa del Mezzogiorno.
Tuttavia, furono soprattutto l’aumento della produttività per unità di lavoro e gli effetti dei progressi tecnologici e organizzativi, con le relative economie di scala, nonché l’incipiente espansione della domanda di beni di consumo durevoli, a determinare un salto di qualità, nel giro di pochi anni, rispetto all’idea di un’evoluzione assai più graduale in cui s’imperniava il Piano Vanoni. D’altra parte, agì da acceleratore l’adesione dell’Italia nel marzo 1957 alla Comunità economica europea e, quindi, l’impegno per una progressiva liberalizzazione degli scambi. Sta di fatto che mano pubblica e mano privata posero, ognuna per la propria parte, le basi del “miracolo economico”.