guido gentili

Amore a prima vista

Amore a prima vista

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Al fattore “G”, G come Grecia, l’Italia dovrebbe sempre prestare attenzione. Per ragioni geografiche e storiche, ma oggi soprattutto perché il ciclone Tsipras investe di nuovo l’Europa e preme anche alla nostra porta. Il problema è che tipo di attenzione: quella fondata sul dato emozionale, ad esempio, può rivelarsi controproducente. Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra radicale Syriza e neo capo di un governo frutto dell’alleanza con il partito (destra nazionalista) dei Greci Indipendenti, è un pragmatico quarantenne che con un programma aggressivo all’insegna della “fine dell’austerità e della Troika” (Bce, Commissione Ue e Fondo Monetario) vuole riportare Atene fuori da una crisi drammatica in gestazione già in passato da molti anni e poi deflagrata nel 2010. E dove l’Europa e la sua governance a trazione tedesca, va detto con chiarezza, hanno compiuto una serie di vistosi e colpevoli errori.

Vedremo a cosa porterà, in concreto, questo innesto a presa rapida tra un partito di sinistra-sinistra ed uno di destra-destra cementati dalla richiesta di rinegoziare alla radice i piani d’aiuto concordati dalla Grecia (la sola eurozona si è esposta direttamente per 194,7 miliardi) in “cambio” delle riforme. Quello che è certo è che l’Italia non può non occuparsi di un caso che la riguarda da vicino. In tutti i sensi. Perché è la terza economia dell’eurozona. Perché è creditrice come Stato, alle spalle di Germania (55,3) e Francia (42), per 36,8 miliardi (50,2 se consideriamo l’esposizione indiretta via Bce e Fmi) nei confronti della Grecia. Perché, dopo la sola Grecia, è detentrice in Europa del più alto debito pubblico in rapporto al Pil. Perché ad inizio febbraio la Commissione europea presenterà le sue previsioni economiche che faranno da sfondo al negoziato sulla flessibilità (a colpi da zero-virgola ma non per questo, date le regole del gioco, meno impegnativo) per passare gli esami di bilancio. Tutti ottimi motivi per ragionare, a Roma come a Bruxelles, e con lo stesso Tsipras, sui modi migliori per disinnescare strappi sui mercati e insieme per trovare nuove strade per la crescita.

Fatto è che la prima ondata dell’effetto-Tsipras si è distinta per un’indistinta reazione della classe politica italiana. Destra, sinistra, centro, uomini di governo: tutti o quasi erano Tsipras o suoi potenziali e stretti alleati per un assalto alla fortezza-Europa. Con risultati paradossali. Come quello per il quale il capogruppo dei socialisti in Europa, il Pd Gianni Pittella, ancora a scrutini aperti twittava: «Da Atene un messaggio chiaro all’Europa: basta austerità e Troika». O come quello per cui, dalle file del Pd, è emersa una nuova convinzione identitaria: «Noi il nostro Tsipras già ce l’abbiamo e si chiama Renzi». Naturalmente nessuno sembra aver nemmeno dato un’occhiata al programma con il quale Syriza ha stravinto le elezioni. Nazionalizzazioni a tappe forzate, patrimoniali e molto altro, compresa una politica estera che farà molto discutere. Ma tutti Tsipras, per fare cosa ancora non è dato sapere.

Soltanto investire fa rima con ripartire

Soltanto investire fa rima con ripartire

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Un grande sistema economico che abbia subìto i danni di una lunga guerra e che abbia ritrovato occupazione e reddito rapidamente, senza aver fatto leva sugli investimenti, pubblici e privati, non si è mai visto. Il discorso può valere in generale per l’Europa, che al suo interno presenta casi diversi, diverse velocità di uscita dalla crisi e profondi divari innovativi, ma che comunque si ritrova nel complesso più che un passo indietro rispetto agli Stati Uniti. Di sicuro il problema investe l’Italia, che dentro di sé – nel Mezzogiorno – rintraccia i numeri di una catastrofe demografica e sociale e un orizzonte di abbandono non solo industriale.

Senza investimenti può esistere un presente che compra un po’ di tempo per la sopravvivenza giorno per giorno, ma non c’è futuro. Così la fiducia dei cittadini e delle imprese, entrambi contribuenti super tartassati, non corre e non si propaga. E se poi a tutto questo aggiungiamo (si veda l’inchiesta su Mafia Capitale) il carico delle evidenze che emergono in tema di corruzione e di pubblica amministrazione, nessuno può meravigliarsi se il Paese non dà segni visibili di ripresa.

È probabilmente questo il quadro che ha fatto (e fa) da sfondo al tentativo del governo Renzi di alzare la domanda interna con i famosi 80 euro in busta paga (rinnovati anche per il 2015), il taglio del fisco sul lavoro e la riforma del mercato del lavoro prevista dal Jobs Act. Una scommessa difficile mentre procede, sempre sul filo del rasoio, il confronto con l’Europa e in un’Europa dove rispuntano gli incubi del caso Grecia, e mentre la carta del “piano Juncker” da oltre 300 miliardi di investimenti (ma solo sulla carta, come sappiamo) a tutto fa pensare meno che a un jolly vincente. Certo il nuovo, possibile corso della politica monetaria espansiva della Bce firmata da Mario Draghi può darci una mano. Ma sarebbe un errore molto grave pensare che la svolta di Francoforte possa sostituirsi a una politica riformista e innovativa. Dove gli investimenti sono a questo punto una componente decisiva e non incidentale.

L’economista Jeffrey Sachs ha parlato di recente di «sciopero degli investimenti» (in particolare nel settore dell’energia sostenibile) negli Usa e in Europa e di come questa paralisi è stata interpretata dai neo-keynesiani e dai sostenitori dell’offerta. I primi finiscono per promuovere “espedienti” (tassi d’interesse zero e incentivi) invece di incoraggiare l’adozione di politiche ben definite e “liberare” gli investimenti pubblici e privati intelligenti. I secondi sono indifferenti alla dipendenza degli investimenti privati dagli investimenti pubblici complementari e auspicano una riduzione della spesa pubblica «pensando, ingenuamente, che il settore privato possa magicamente colmare le lacune, ma riducendo gli investimenti pubblici non fanno altro che ostacolare gli investimenti privati».

Dibattito intenso. Nella pratica l’Italia, oggi anche in nome di un pareggio di bilancio costituzionale che non prevede però tetti né per l’aumento delle tasse né per quello delle spese, ha fatto per anni e anni la scelta peggiore e più miope: giù gli investimenti pubblici strategici per il futuro del Paese, su le spese correnti e la pressione fiscale. E quanto alla “ricaduta” sugli investimenti privati, che questi, i privati, si arrangino (ma loro fanno anche assai di più, come dimostra il progetto per la Grande Milano degli industriali lombardi). In un quadro dove l’aumento dei costi burocratici e amministrativi si accompagna, nel rapporto con lo Stato e i suoi bracci operativi, a un assetto giuridico incerto, mobile e improntato alla più ampia discrezionalità anche sul terreno dei diritti proprietari.

Investimenti: una parola abusata, ricorrente all’infinito, che fatica però a ritrovarsi nei numeri che servono e soprattutto nei fatti. Non è una sorpresa, ma deve essere chiaro che senza questi non si esce dall’economia di guerra.

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa non tradirà «i figli e i nipoti firmando assegni che finiranno per pagare loro». Il Presidente della Commissione Jean Claude Juncker, presentando il suo piano per la crescita da 315 miliardi di investimenti, si preoccupa del futuro dei più giovani. E dedica un pensiero politicamente corretto anche al «bambino greco di Salonicco che deve poter entrare in una scuola moderna con il computer». Dunque, niente denari freschi. Ma tante speranze sì. Quella per cui 21 miliardi di capitale iniziale si moltiplicano al pari della fiducia degli investitori privati e ne mobilitano 315, in particolare a favore dei Paesi più sofferenti. O quella per la quale «piacerebbe» a Juncker che siano i Paesi con «più ampi margini di manovra di bilancio» (leggasi Germania) a contribuire di più al costruendo fondo per gli investimenti capace di strappare l’Europa alla stagnazione.

La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) deve mantenere il suo rating da “tripla A” e non può assumersi rischi, ha precisato il vicepresidente della Commissione Jyrki Katainen. D’altra parte, la Cancelliera tedesca Angela Merkel approva «in linea di principio» il piano ma si riserva già una verifica appuntita dei progetti. E non è ancora certo che l’eventuale contributo dei singoli stati nazionali sia escluso dal calcolo del deficit e del debito ai fine del rispetto del Patto di stabilità. Insomma la vecchia «nonna Europa», per stare alla tagliente definizione di Papa Francesco, fa il passo che può. Quello corto, e ancora tutto da scrivere prima nei regolamenti e poi nell’economia reale, ma che consente di dire è «il primo» della svolta dopo l’austerity. Alle sue spalle, in tema di azioni pro-crescita, il fallimento dei piani del 2008 e del 2012. Ci si augura che non finisca così. Cosa può fare l’Italia? Primo: battersi a Bruxelles per riempire quanto più possibile i buchi del progetto le cui incognite sono pari alle sue ambizioni. Secondo: far scattare i piani relativi ai 40 miliardi subito “bancabili” co-finanziabili con la Bei di cui ha parlato il ministro Pier Carlo Padoan. Sarebbe già questo un gran risultato.

L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa potrebbe dirci “no, cara Italia, così non ci siamo, stai deviando troppo dal percorso di rientro dal debito pubblico, correggi la rotta e insisti nel consolidamento fiscale…”. Oppure i mercati, sempre in fiduciosa attesa della svolta della Bce a trazione Mario Draghi, potrebbero improvvisamente svegliarsi facendo un paio di conti: “l’Italia continua a non crescere, l’inflazione è troppo bassa, il debito non si riduce…”. In entrambi i casi potrebbero aprirsi scenari da incubo. Per non dire della terza ipotesi, quella che vedrebbe perfettamente allineati il giudizio negativo di Bruxelles (dal lato del debito crescente) con quello dei mercati (dal lato della mancata crescita).

Quanto prima l’Italia deve uscire da questa spirale, ma non basterà dire “stop alle lezioni di Bruxelles, le vostre valutazioni non ci preoccupano, siamo in linea”. Il Rapporto sui (persistenti) squilibri macroeconomici – alto debito e competitività esterna debole – suona come un primo allarme ancorché basato sui numeri del Def (Documento di economia e finanza) presentato dal Governo Renzi a settembre. Numeri poi corretti dallo stesso esecutivo con il programma di Stabilità per il 2015 e per gli anni a venire. Tra il 24 ed il 25 novembre è attesa (dopo le nuove stime su Pil, deficit e debito di qualche giorno fa) la prima valutazione della Commissione europea sulla Legge di Stabilità e a inizio 2015 scatterà una nuova missione per aggiornare il report sugli squilibri macroeconomici. In primavera ci sarà infine il “verdetto” finale.

Anche il calendario assomiglia insomma ad un “closed loop”, ad un anello chiuso che lascia pochi e sorvegliatissimi varchi. Il Governo squadernerà a Bruxelles le riforme messe in cantiere e cercherà di ottenere la massima flessibilità nel quadro delle regole esistenti riconfermando di stare sotto la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil. Ma potrebbe non essere sufficiente: per l’Europa e per l’esecutivo stesso “a caccia” di crescita per abbassare il debito e rassicurare i mercati. Che Renzi, messo alle strette da dosi crescenti di rigorismo unilaterale, possa trovarsi nelle condizioni di uscire dalla morsa tra mancata crescita e alto debito con un “cambiaverso” sul deficit? Nulla è da escludere.

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Non varcare la soglia del 3% di deficit in rapporto al Pil, ma sottolineando che quel limite è anacronistico e andrebbe rivisto. Convincere l’Europa (a partire inevitabilmente dai «tecnocrati») che il rinvio al 2017 del pareggio di bilancio «strutturale» (cioè corretto per il ciclo) è fisiologico, guadagnandosi – nell’ambito delle regole date, ma contestando i metodi di calcolo del prodotto «potenziale»- la maggiore flessibilità possibile. Evitare l’apertura di una procedura d’infrazione e scommettere che la tregua fin qui accordata dai mercati tenga e che i piani espansivi di Mario Draghi alla BCE non vengano stoppati.

Tutto si può dire, meno che la sfida del Governo Renzi, un mix di temerarietà innovativa e di sottile prudenza negoziale impersonate, rispettivamente, dal premier stesso e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non sia difficile e impegnativa. Una sorta di «terza via» tra strappi e continuità per forza di cose sotto continuo esame, come si conviene del resto per un grande Paese, terza economia e seconda potenza manifatturiera alla spalle della Germania nell’Eurozona, ma anche terzo Paese – questa volta nel mondo dietro Stati Uniti e Giappone- per volume di debito pubblico accumulato.

L’Italia ha un disperato bisogno di crescere. Non lo fa praticamente da vent’anni e porta sulla sua devastata economia reale, dopo la crisi scoppiata nel 2008, i segni di una stagione di guerra. Senza crescita non può ridurre nemmeno il suo debito, che infatti ha continuato a lievitare nonostante gli straordinari risultati (ma anche a prezzo di una caduta verticale della spesa per gli investimenti) ottenuti negli anni sul fronte del disavanzo primario, al netto cioè degli interessi pagati (95 miliardi nel solo 2013) dallo Stato per finanziare il debito.

D’altra parte, se non corregge la traiettoria del debito, l’Italia non rischia solo a Bruxelles (che al momento plaude all’Irlanda e alla Grecia e bolla come «creativa» e inaccettabile anche l’ipotesi avanzata da Renzi di scorporare dal Patto di stabilità le spese per l’innovazione) ma sui mercati. Sulla sostenibilità del debito non c’è un numero-soglia esatto (140% in rapporto al Pil? 150%?) ma una valutazione di credibilità del sistema-paese che si misura, appunto, sui mercati. E l’Italia resta sotto questo profilo vulnerabile e molto sensibile all’evoluzione, incerta, dei tassi d’interesse. Quando l’Ocse prevede che la crescita sarà dello 0,2% nel 2015 e segnala il nostro Paese – con un debito al 133,8% secondo la Commissione europea in ascesa anche l’anno prossimo, in recessione e insieme, di fatto, in deflazione – alla penultima posizione nella classifica del G20, accende un faro su una prospettiva non tranquillizzante.

La stessa lettura si ricava dall’ultimo sondaggio-Eurobarometro della Ue tra i 18 paesi della moneta unica: l’Italia, per la prima volta nella sua storia, con il 47% degli italiani che ritengono l’euro una “cosa cattiva” è oggi il paese più euroscettico. A ben vedere, anche questo un risultato della persistente mancata crescita che peggiora il rapporto debito/Pil e, riattivandosi pressoché in automatico la richiesta europea di un più vigoroso consolidamento fiscale, stronca ogni possibilità di ripresa e la fiducia in un futuro prossimo migliore. Facendo ripartire la spirale infernale: non è possibile per il governo alzare l’orizzonte della politica economica espansiva ma quanto fatto e messo in cantiere può non bastare, la ripresa continuerebbe a latitare e il debito a salire.

Naturalmente sarebbe facile addossare ogni responsabilità all’Europa e all’euro, tralasciando il particolare che l’Italia non cresce da vent’anni e che il terzo debito pubblico del mondo non l’ha creato la moneta unica ma ce lo siamo costruiti (e accumulato) in casa nel corso di decenni. La “terza via” in Europa del Governo Renzi, tra strappi e continuità, è molto stretta e vedremo quali risultati porterà, fermo restando che quest’Europa incompiuta e prigioniera di regole auto-soffocanti necessiterebbe di una revisione radicale.

Invece, è più larga in Italia l’unica strada percorribile, quella dell’attuazione delle riforme: qui, dietro e davanti la Legge di stabilità su cui a fine mese si pronuncerà Bruxelles, ci sono per il governo grandi spazi da riempire, a cominciare dal Jobs Act, dal cantiere fiscale, dalla riduzione della spesa e dalla creazione di un ambiente favorevole all’attività d’impresa e all’attrazione di investimenti esteri. Il tempo è poco, sui mercati la sostenibilità dell’Italia e del suo debito si gioca su questi terreni e misurando i fatti.

Perché serve la manovra espansiva

Perché serve la manovra espansiva

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Nel lessico della minuziosa governance europea, dove le virgole possono prevalere sulle buone idee, nulla è casuale. Dunque, c’è poco da interrogarsi sul significato delle due parole (“deviazione significativa”) che sintetizzano l’analisi con cui la Commissione chiede spiegazioni al Governo italiano sulla sua strategia di bilancio. Nelle “Raccomandazioni” del Consiglio europeo del luglio scorso, quelle che richiedevano “sforzi aggiuntivi” per il rispetto del Patto di stabilità, c’era scritto che “nel 2014 è prevista una deviazione dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine che, se si ripetesse l’anno successivo, potrebbe essere valutata come significativa, anche in base al parametro di riferimento per la spesa”.

Ecco, il piano del Governo Renzi per il 2015 è arrivato e la “deviazione” è diventata “significativa”. Il che, tradotto in chiaro, vuol dire che la partita tra Bruxelles (dove siamo al passaggio di consegne tra Manuel Barroso e Jean Claude Juncker alla guida della Commissione) e Roma si è appena aperta e che Matteo Renzi ha deciso di giocarla in attacco. Puntando, in Italia e in Europa, su una politica economica di rottura in chiave pro-crescita, impostazione oggi sostenuta con forza anche dalla Banca d’Italia. La posta in gioco è questa e la mossa del premier italiano, fino al 31 dicembre alla guida anche del semestre di presidenza europea, è politicamente significativa al pari della deviazione di bilancio che prospetta. Naturalmente, a patto di trarne tutte le conseguenze e mettendo in conto che non sarà una schermaglia verbale a far “cambiare verso” all’Europa, atteso che anche il nuovo presidente della Commissione Juncker (che promette a sua volta il piano europeo da 300 miliardi di investimenti entro Natale ma non ha specificato con quali risorse) sostiene che le regole non si cambiano e che flessibilità è quella prevista dai trattati. In questo, allineato con la posizione della Cancelliera tedesca Angela Merkel, che l’ha voluto al vertice del governo europeo.

L’Italia, terza economia dell’eurozona ma col nervo scoperto di un debito pubblico fin qui dimostratosi incomprimibile anche per la cronica assenza della crescita (ieri Eurostat ha segnalato che è appannaggio dell’Italia il più alto incremento del secondo trimestre 2014, +3,1% al 133,8%) ha assoluta necessità di una scossa. La stessa Commissione europea, nelle sue raccomandazioni del luglio scorso, metteva l’accento sulla necessità di ridurre il carico fiscale sul lavoro, “creare un ambiente più favorevole per le imprese”, riformare il mercato del lavoro. Oggi, la Banca d’Italia scrive nero su bianco che la scelte del Governo di far salire l’indebitamento netto del 2015 dello 0,7% del prodotto, facendo arrivare il rapporto deficit/Pil al 2,9%, appena sotto la fatidica soglia del 3%, “appaiono motivate”. “Un più graduale processo di riequilibrio può aiutare ad evitare – osserva la Banca centrale – una spirale recessiva della domanda e si giustifica se i margini di manovra che ne derivano saranno utilizzati efficacemente per rilanciare la crescita dell’economia e innalzare il potenziale di sviluppo nel medio e lungo termine”. Come dire che la legge di stabilità, ieri controfirmata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano schierato contro la “paralisi” e che non si stanca di chiedere “cambiamenti veri”, va nella direzione auspicata.

Ma se da un lato Renzi può mettere oggi all’attivo la spinta in positivo di Bankitalia e Quirinale, dall’altro non può che essere consapevole fino in fondo della partita che ha aperto e che non potrà essere affrontata, a meno che non si punti ad un compromesso di piccolo cabotaggio dopo aver alzato la voce, a colpi di “uno o due miliardi li troviamo subito, anche domattina”. Né è immaginabile che l’atteso cambio di rotta della politica economica possa camminare sulle sabbie mobili di testi legislativi improvvisati e che si compongono nel tempo, riempiendo di volta in volta i buchi che emergono qua e là e che ri-attualizzano la retroattività come metodo di governo fiscale. Piuttosto, a partire dal Jobs Act e dall’attuazione puntuale delle riforme, sono le scelte chiare e lineari quelle che devono imporsi come fatti. Quanto pesa sui mercati, proprio perché l’Italia si misura qui ogni giorno sulla sostenibilità del suo debito, il fattore credibilità? È questa la domanda cui il Governo deve dare una risposta adeguata.

Una scossa da realizzare con serietà

Una scossa da realizzare con serietà

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Fosse solo una partita di poker, tra lanci e rilanci, sarebbe divertente. Ma non lo è. La posta in gioco è tremendamente più seria e cruciale: la ripresa di un Paese stremato e il suo rapporto con l’Europa e con i mercati. Dietro e davanti l’annuncio del premier Matteo Renzi di una legge di stabilità da 30 miliardi senza aumenti fiscali; la spending review per 16 miliardi; l’abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi; il taglio per 3 anni dei contributi per chi assume a tempo indeterminato; la possibilità di ricevere il Tfr in busta paga ci sono questi numeri e questa impostazione. Mix che se confermato in modo chiaro nel testo di legge può segnare la svolta attesa. Oppure, in caso contrario, aprire una finestra sul burrone.

Renzi ha messo sul piatto la credibilità sua e della terza economia dell’Eurozona. Lo ha fatto tirando dritto su una strada dove non mancano le curve pericolose (a partire dall’esame non scontato dell’Europa sulla deviazione dal pareggio di bilancio) e che può essere attraversata da molte incognite. Le preoccupazioni formulate da Bankitalia hanno un loro spessore di veridicità e sarebbe un errore non tenerne in debito conto. Sarebbe sbagliato sottovalutare anche le contestazioni. Infine, ieri come oggi, non è possibile trattare il tema delle coperture finanziarie con un’alzata di spalle. D’altra parte gli impegni assunti dal premier suonano con toni diversi da quelli di uno spot di giornata. Al contrario. La strategia d’attacco prospettata indica una scelta di politica economica e non un compromesso dove tutto “si tiene”. Di queste mezze soluzioni inservibili ne abbiamo collezionate a bizzeffe e l’Italia ha pagato un prezzo altissimo. Se ne ricordi, domani, il Governo.

Il piccone di Renzi e la verità dei fatti

Il piccone di Renzi e la verità dei fatti

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Il premier Matteo Renzi, vicino alla volata finale del semestre europeo a timone italiano che oggi ospita a Milano il vertice sul lavoro, s’affaccia sul curvone decisivo. Dove non può fare errori di guida sulla strada promessa del cambiamento. Riforma del lavoro, Legge di stabilità, confronto in Europa. Sono le tre emergenze che si incrociano sullo sfondo di una congiuntura europea in peggioramento, Germania compresa. E lo scontro tra la Bundesbank, contraria alle politiche innovative della Bce, e il Fondo Monetario, che sollecita la Bce in senso inverso, alimenta tensioni e incertezze. In ogni caso, l’Italia non può contare sulla sola ciambella monetaria per tirarsi fuori dai guai.

Renzi porta a Milano l’elenco delle riforme messe in campo in questi mesi, la ripresa del confronto con sindacati e imprese, l’approvazione in un ramo del Parlamento della delega per la riforma del mercato del lavoro. È un passaggio importante, che buca un muro di conservatorismi diffusi ed è possibile che la Cancelliera Angela Merkel metta sul piatto un incoraggiamento usando una parola che le è cara in questi frangenti: “impressionante”. Ma “impressionante” lo sarà davvero, nei fatti, se al momento-chiave della stesura dei decreti non ci saranno compromessi al ribasso, articolo 18 compreso. “Impressionante” sarà la manovra del governo se la Legge di stabilità abbasserà le tasse sul lavoro in modo percepibile e comprimerà le spese. “Impressionante” sarà il risultato se l’oggetto del desiderio dei governi, il Tfr, entrerà nelle tasche dei lavoratori senza procurare danni alle imprese medio-piccole.

Un muro bucato non è un muro crollato. Se usato bene, il piccone di Renzi, in Italia come in Europa, può molto. Ma non tutto. Perché i cambiamenti si misurano con i fatti e con i numeri, molti dei quali mancano oggi all’appello della ripresa. E perché l’economia reale si muoverà se ne saranno convinti i protagonisti, a partire da famiglie e imprese. Il loro sostegno è decisivo, e non c’entra la “concertazione”. Qui si tratta anzi di nuotare in mare aperto, ciascuno con le sue braccia e le sue idee, ma nella stessa direzione.

Per l’Europa il tempo di una svolta è adesso

Per l’Europa il tempo di una svolta è adesso

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Dire che l’Europa è sull’orlo del collasso è dire poco. Più realisticamente si potrebbe notare che nel collasso si è già auto-catapultata da anni, a cominciare dagli errori di gestione sul caso-Grecia. O, forse, bisognerebbe ammettere che la scommessa di partire da un’unione monetaria per arrivare a quella politica, cioè il contrario esatto di quello che storia, economia e logica suggerivano, è perdente e presenta il suo conto tremendo.

Fatto è che dopo lo “strappo” sul bilancio della seconda economia dell’eurozona, la Francia, hanno parlato la terza (cioè l’Italia) e la prima (la Germania). «Io sto con Hollande, noi rispetteremo il vincolo del 3% ma Parigi ha ragione», ha detto il premier Renzi in trasferta a Londra dove ha saldato un nuovo asse anti-austerity con la Gran Bretagna di David Cameron, paese che è fuori dall’eurozona. «Dovete fare i compiti e rispettare gli impegni», ha tagliato corto la Cancelliera tedesca Angela Merkel rivolta a Parigi e Roma. «Non ci tratti da scolari», ha risposto Renzi. Ecco, questa è oggi l’Europa. Non bastasse, da Napoli è arrivata la conferma, via Bce, che la politica monetaria, nell’eurozona dei maestri e degli studenti discoli, non può fare da supplente e risolvere problemi che non sono alla sua portata, come più volte ricordato da Mario Draghi. I mercati hanno preso atto, Milano è caduta a picco.

Delle due l’una. O l’Europa, Berlino in testa, mette in campo una nuova politica economica che a partire dagli investimenti necessari e da una riconsiderazione delle regole di governance sia capace di ribaltare le prospettive dell’economia reale o collassa definitivamente. Mercoledì 8 ottobre si terrà a Milano il vertice europeo sul lavoro. Siamo nel semestre di presidenza europea a guida italiana, cioè della coppia Renzi-Padoan, sul quale erano state costruite, sbagliando, aspettative di successo enormi. Il minimo che si possa fare ora è lavorare per una sterzata, chiara nei modi, nei tempi e nelle risorse, a favore della crescita. Il minimo, che è poi la vera enormità, per non condannarsi al crac, nell’interesse dell’Europa e anche del nostro.

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Per l’Italia decisivi 120 giorni non mille

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Quanto, e in che tempi, l’Italia deve cambiare per far sì che il disperato sindaco di Locri, in Calabria, non debba raccomandarsi e denunciare a Gesù Cristo – dopo aver inutilmente percorso le strade legali terrene – l’assenteismo cronico dei dipendenti del Comune, sulla carta 125 ma in servizio mai più di 20-25?

Il surreale fatto di cronaca si commenta da solo e dimostra di quale svolta – politica, economica, culturale – necessiti la terza economia d’Europa, oggi un sistema bloccato e prigioniero di sé stesso. Per cui quando il premier Matteo Renzi, presentando il sito istituzionale «passodopopasso» per scandire il conto alla rovescia del programma dei prossimi 1000 giorni di governo, dice che l’Italia e la sua «classe dirigente intesa in senso ampio» è vissuta «spesso» di rendita, afferma una verità amara ma elementare. Inevitabile la conclusione: questa lunga stagione è finita, le riforme vanno fatte, questa è l’unica possibilità per l’Italia, il Governo «è nato per fare quello che per troppo tempo è stato solo discusso o rinviato».

Oggi siamo al giorno 2 del «passodopopasso» e ne restano, salvo complicazioni, 998 fino a maggio 2017. Troppo pochi per immaginare che Locri, dove nel 2014 non si cambiano le lampadine dell’illuminazione pubblica, diventi un’isola felice. Ma tanti, troppi, se l’orizzonte della verifica delle riforme che servono a strappare il Paese ad un destino di stagnazione, se non di caduta verticale, è posto al 2017.

Intendiamoci. Le riforme cosiddette “strutturali” (a partire da lavoro, fisco, burocrazia, per non dire di quelle politico-costituzionali) per rendere l’Italia più semplice e competitiva necessitano di tempo per dispiegare a pieno i loro effetti. Il problema è che il tempo è esaurito e che se è vero che il Governo è nato per fare ciò che è stato rinviato, Renzi non ha altra strada che accelerare la sua corsa attuativa. A cominciare dai 51 decreti da rendere operativi entro la fine dell’anno. Per poi proseguire con il pacchetto “riformista” che attende Governo (il quale dovrà a metà ottobre approvare e trasmettere a Bruxelles la legge di Stabilità), Parlamento, imprese e famiglie nei prossimi quattro mesi, come evidenziato dal Sole 24 Ore del Lunedì. Parliamo di decreti legge nuovi di zecca (su giustizia civile e Sblocca Italia), di disegni di legge già all’esame delle Camere (mercato del lavoro, riforma della Pa e del Senato, fisco, legge elettorale) e di due altri ddl-chiave, quelli su scuola e giustizia, che dovrebbero sbarcare presto in Parlamento.

Il programma dei “mille giorni” sarà oggetto di un passaggio parlamentare, ma non è questo il punto. Il problema, per il Governo, è dare una scossa ad un sistema paralizzato e al tempo stesso rendere visibile, in Europa e sui mercati, la progressione dei passaggi attuativi. È questo l’unico cantiere che conta, tanto più a Bruxelles nel confronto serrato sullo “scambio” tra decreti e riforme in corso d’opera da una parte e margini di maggiore flessibilità dall’altra. La presentazione del piano “passodopopasso” è stata l’occasione per ribadire la «scommessa politica» degli 80 euro («non torniamo indietro, cercheremo di allargarla», ha specificato Renzi) e indicare la Germania come modello per il mercato del lavoro, la cui riforma dovrebbe vedere la luce entro il 2014 (verrà riscritto lo Statuto dei lavoratori, il problema non è l’articolo 18, si punterà ad un contratto a tutele crescenti, alla fine dei mille giorni il diritto del lavoro sarà totalmente trasformato, ha spiegato il premier).

Resta da capire quale scossa, sui terreni decisivi del fisco e del lavoro, arriverà in concreto da qui ai prossimi quattro mesi. La manovra degli 80 euro non ha dato i risultati sperati, del taglio ulteriore dell’Irap non si parla più, la spending review è tuttora un oggetto misterioso. “Mille giorni” suona bene, ma ricorda dannatamente anche il “Mille proroghe”, testo legislativo-bandiera, con cadenza annuale, della politica del rinvio. Cosa che, con tutta evidenza, un «Governo nato per fare quello che è stato rinviato» non può permettersi.