il fatto quotidiano

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Il Fatto Quotidiano – 3 aprile 2016

Dal 2012 l’Inps registra regolarmente una perdita di bilancio di oltre 11 miliardi l’anno che si attende sarà confermata anche per il 2016. Il suo patrimonio netto, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, è ormai diretto verso la completa erosione e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa. Il dato emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro. A fine anno i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

Uno degli aspetti più delicati, rileva Impresa Lavoro, è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo e minore è la probabilità di recuperarlo); il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre). Impresa Lavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione. Impresa Lavoro osserva infatti che le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

In particolare, c’è un costo che l’Inps ha finora sempre regolarmente sottostimato nei suoi bilanci preventivi: quello derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno – si legge nello studio – è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori, si va dal caso di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità a quello di crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (una tendenza ormai consolidata). Il loro ammontare esatto supererebbe quindi i 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Sul fronte dei dati previdenziali, in Italia ci sono oltre 474.000 pensioni liquidate prima del 1980, quindi in vigore da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Per le pensioni di vecchiaia l’età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l’età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne sposate con figli. L’Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico.

Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800.000 persone mentre altri 527.000 assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent’anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L’età media alla decorrenza era molto inferiore all’attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall’essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l’età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l’età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l’età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un’età media alla decorrenza di 73,89 anni.

Oplà, il tesoretto non c’è più

Oplà, il tesoretto non c’è più

Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano

A Roma, si chiama sòla un personaggio poco affidabile, dedito al raggiro e dunque impegnato a sòlare il prossimo. Di queste sòle il renzismo, quotidiano superspot del Renzi­pensiero, ce ne ha rifilate parecchie: grandiosa quella del piano per l’edilizia scolastica cosa fatta, con i soffitti che continuano a crollare sulla testa dei poveri alunni.

L’ultima della serie riguarda il famoso “tesoretto” che se esistessero gli Oscar delle sòle meriterebbe il premio per gli effetti speciali. Tralasciamo per carità di categoria l’enfasi con cui i giornaloni strombazzarono questo prodigio dei conti pubblici: come se il premier avesse scovato con le sue manine, negli anfratti della Banca d’Italia, un colossale carico di lingotti d’oro, misteriosamente ignorato dai suoi predecessori. Si trattava in realtà di un artificio contabile con cui si sgraffignavano 1,6 miliardi di euro aumentando il defìcit: ma così sono buoni tutti. Invano l’eroico ministro Padoan tentò di frapporsi tra i sogni d’oro e la dura realtà: niente da fare, il tesoretto era lì che aspettava solo di essere distribuito, magari con un’altra mancia elettorale tipo 80 euro. Finché ieri il governo, per non ammettere che il “tesoretto” non è mai esistito, ha comunicato che “sarà congelato”, visto che tra tagli e nuove spese i problemi non mancano.

Come diceva Abramo Lincoln, si possono ingannare tutte le persone una volta, si può ingannare una persona tutte le volte, ma non si potranno mai ingannare tutte le persone tutte le volte.

Le imprese non incassano e Renzi si dà del buffone

Le imprese non incassano e Renzi si dà del buffone

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

Alla fine al monte Senario non c`è andato nessuno e ai “Servi di Maria”, nel senso dei frati a cui appartiene il relativo convento, non è restato altro che continuare a pregare, lavorare e distillare il liquore “Gemma d’Abeto” come fanno dal 1865. Può sembrare strano, ma il tema di cui si parla è il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione. Breve antefatto. È il 13 marzo 2014 e Matteo Renzi è comodamente assiso sulle poltroncine di Porta a Porta. Bruno Vespa lo titilla sui soldi che lo Stato deve alle imprese, gli propone un suo contratto con gli italiani. Il premier rifiuta, ma s’abbandona alla promessa circostanziata: “Se entro la fine dell’estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei (nel senso di Vespa, ndr) andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. E se lei perde? Chiede speranzoso il conduttore. “So dove mi mandano gli italiani…”, toscaneggia l’ex sindaco: “Il minimo che mi aspetto è che mi chiamino buffone”.

Ecco, il 21 settembre è arrivato e Vespa e Renzi non sono riusciti a mettersi d’accordo su chi aveva vinto e chi perso. Geniale la soluzione svelata dall’uomo della Rai via Twitter il 22 settembre scorso: “Matteo Renzi ha accettato sportivamente di salire con me e altre persone in data da destinarsi al santuario di Monte Senario. Entrambi siamo infatti convinti di aver vinto la scommessa”. La carovana, però, non è ancora partita: entrambi forse sono convinti di aver già fatto la scampagnata. La vita, nell’anno secondo dell’era renziana, è soprattutto una questione di opinioni e pure i frati dovranno farsene una ragione. Resta una domanda: è lecito per gli italiani, col permesso dell’interessato, definire Renzi “buffone”? Insomma, li ha pagati o no questi debiti della Pubblica amministrazione?

I numeri, si sa, sono un po’ freddi, ma lasciano poco spazio a quel tipo di dibattito in cui ci si mette d’accordo sul fatto di non essere d’accordo. Tradotto: la risposta è no, non li ha pagati tutti. Per affermarlo basta prendere per buoni i numeri presenti sul sito del ministero del Tesoro. La cifra da cui partire è la stima fornita da Banca d’Italia sui debiti di Stato e enti locali: 91 miliardi al 31 dicembre 2012, oltre la metà dei quali considerati un picco anomalo dovuto a enormi ritardi nei pagamenti delle fatture (invece di 30 giorni la P.A. pagava a 170 e a volte non lo faceva proprio). Com’è la situazione oggi? A dati aggiornati al 30 gennaio 2015, i soldi stanziati per pagare il dovuto maturato entro il 2012 – che risalgono quasi tutti ai governi di Monti e Letta – sono complessivamente 56 miliardi. Questa cifra, però, esiste solo sulla carta: le risorse effettivamente messe a disposizione degli enti debitori (ministeri, Asl, regioni, enti locali e chi più ne ha più ne metta) ammontano a 42,81 miliardi, vale a dire il 76% dello stanziamento.

E non è finita. Non tutti i soldi esistenti sono già finiti nelle tasche delle imprese: di quei quasi 43 miliardi sono stati pagati davvero 36,483 miliardi, cioè i1 65% del totale ( a ottobre si era fermi a 32,5 miliardi). Ne mancano insomma almeno una ventina persino rispetto a quanto pianificato dal governo. Nel dettaglio, lo Stato centrale ha pagato 5,7 miliardi su sette totali stanziati; le regioni 21,6 su 33; province e comuni 9 su 16,1 miliardi. I settori più colpiti sono quello della sanità e dell’edilizia: recentemente l’associazione dei costruttori (Ance) ha parlato di 10 miliardi di debiti ancora da pagare alle imprese del settore. Poi c’è l’operazione lanciata dal governo Renzi nell’aprile 2014: la certificazione dei crediti maturati entro il 31 dicembre 2013 con apposito modulo sul sito del Tesoro scontabili in banca grazie a una garanzia statale e, in alcuni casi, all’intervento di Cdp. Anche qui la situazione è in chiaroscuro: a fine 2014 risultano registrate alla piattaforma di certificazione dei crediti 20.945 imprese che hanno presentato 91.423 istanze di certificazione per un valore di quasi 9,8 miliardi di euro. Non tutte le istanze digitali, però, risultano già evase dagli enti debitori: esiste, sempre sul sito del Tesoro, una lista di “istanze senza risposta” che ne elenca a migliaia per cifre superiori al miliardo di euro.

Ecco il riassunto di un report realizzato da Impresalavoro su dati Eurostat: “Meno della metà di quanto dovuto è stato pagato: i debiti commerciali maturati dalla P.A. nel 2013 ammontano a 74,2 miliardi di euro, quindi rimangono fuori dall’intervento del governo altri 37,7 miliardi”. La brutta notizia è questa: “Sbaglia, in ogni caso, chi pensa che questi interventi contribuiscano a ridurre sensibilmente lo stock di debito complessivo che lo Stato ha nei confronti delle imprese private. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza: liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo”. Già nel 2014, dice il report, “stimiamo che nel 2014 siano già stati consegnati alla P. A. beni e servizi per un valore di circa 158 miliardi di euro e che, in forza dei tempi medi di pagamento, lo stock complessivo del debito rimane fermo a circa 75 miliardi”. Insomma, se il pubblico non comincia a rispettare i tempi di pagamento delle fatture, il traffico a Monte Senario – almeno quello mentale – aumenterà esponenzialmente.

L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

Salvatore Cannavò – Il Fatto Quotidiano

La formazione professionale è decisiva. Ma come funziona è un rebus inestricabile, fatto di norme che si sovrappongono, di flussi di denaro che, di fatto, non controlla nessuno, di accordi e complicità tra sindacati e associazioni imprenditoriali. Il controllo su tutta la materia è per lo meno fragile con un ministero, quello del Lavoro, che al di là del responsabile di turno, finora non ha brillato. Quando si parla di formazione professionale può succedere, infatti, che finisca agli arresti un deputato della Repubblica come Francantonio Genovese, coinvolto nell’inchiesta sulle erogazioni pubbliche ai progetti formativi tenuti da numerosi centri di formazione professionale che erano di fatto riconducibili a lui e alla sua famiglia. Materia delicata, scottante, piena di soldi.

Nel caso della formazione interprofessionale, gestita dagli appositi Fondi – sono 21 e vengono mappati dall’Isfol – si tratta di circa 800 milioni di euro l’anno provenienti dalle imprese che li versano all’Inps in ragione dello 0,30% per ogni dipendente. L’Istituto previdenziale, a sua volta, li gira ai Fondi che li gestiscono in forma del tutto privata erogandoli ad Enti formativi di loro stretta competenza. Nonostante il prelievo “pubblico” – cosi almeno stabilì una sentenza del Consiglio di Stato – i Fondi hanno natura giuridica privata come stabilito dal Tar lo scorso dicembre. Questo li mette al riparo da diversi obblighi. Eppure i bilanci sono fondamentali. Secondo il monitoraggio effettuato nel 2012 dal Ministero del Lavoro, dal gennaio 2004 all’agosto 2011 il flusso di trasferimenti operato dall’Inps ai Fondi è stato di 3,59 miliardi di euro. A ottobre-novembre 2012 erano oltre 765 mila le adesioni da parte delle aziende e oltre 8 milioni i lavoratori dipendenti interessati. La torta è amministrata da un patto tra imprese e sindacati. Il Fondo più importante, ad esempio, Fondimpresa, che incamera una quota rilevante dei fondi complessivi – 266 milioni nel solo 2011 – nasce dall’accordo tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Il suo presidente è Giorgio Fossa, già presidente di Confindustria e nel Cda hanno un posto Cgil, Cisl e Uil. Anche il Fondo Banche e Assicurazioni è frutto dell’intesa tra l’Abi, l’associazione delle banche, quella delle assicurazioni Ania e i tre sindacati. Ma ci sono i Fondi che fanno riferimento alla Lega Coop, a Confesercenti, Confcomercio, Federmanager e alle altre sigle sindacali italiane.

Difficile mettere le mani sui bilanci. Walter Rizzetto, deputato M55 – uscito la scorsa settimana dal gruppo dei pentastellati in polemica con Beppe Grillo – oltre a presentare una interrogazione parlamentare, ha fatto un’esplicita richiesta in tal senso all’Ufficio studi della Camera dei deputati. Nemmeno questo è riuscito a mettere le mani sulla contabilità dei Fondi tranne nel caso del bilancio di FonCoop, l’importante Fondo del mondo cooperativo. Le cifre si riferiscono al 2012, anno in cui gli stanziamenti di provenienza dall’Inps sono stati pari a 28 milioni. Di questi, poco più di 23 sono stati stanziati per i “piani formativi” mentre 825mila euro se ne sono andati per “spese propedeutiche” di cui oltre 200mila euro per promozione e pubblicità varie. Oltre l milione, invece, per spese gestionali tra cui 120mila euro di compensi al direttore, circa 500mila euro di stipendi e 70mila euro per “compensi al Cda”. L’incidenza delle spese di manutenzione (6,7%) supera, seppur di poco, i limiti previsti dal decreto ministeriale che ha stabilito un`incidenza dell’8% per Fondi fino a 250mila aderenti, del 6% per Fondi con aderenti compresi tra 250mila e un milione (Fon.Coop è tra questi) e del 4% per quei Fondi con più di un milione di aderenti.

Il problema dell’opacità dei bilanci è ancora più rilevante una volta che si passa al piano inferiore. I Fondi, infatti, non costruiscono direttamente l’offerta formativa. Questa, come ricorda anche il monitoraggio ministeriale, vive con due approcci: “Per alcuni Fondi la scelta viene lasciata al mercato purché erogata da parte di organismi accredidati”. In altri casi l’ente formativo risponde a un avviso “presentando la propria offerta che una volta validata dal Fondo viene inserita in un catalogo accessibile alle imprese aderenti”. Gli enti formativi devono essere accreditati presso le Regioni e presso il Fondo interprofessionale. Ma questo, visti i casi di cronaca richiamati all’inizio, non è indice di garanzia. In realtà, per esperienza diretta di molti operatori, siamo in presenza di una zona poco controllata, in cui contano le relazioni dirette e personali. La dottoressa Patrizia Del Prete, responsabile dell’ente Consophia, che lavora in prevalenza con Fon.Ar.Com ha inviato lettera di denuncia e di segnalazione della situazione a tutti gli enti possibili, dal Ministero all’Inps: “Il problema che cerco di sollevare – dice al Fatto – è che noi siamo schiavi dei Fondi. Non abbiamo un contratto tutelato, siamo completamente ricattabili e non abbiamo mai chiarezza su chi siano realmente i nostri competitor”. Del Prete solleva anche un altro problema. Le imprese non hanno diretto accesso alla consultazione dei dati finanziari. “Tramite l’accesso informatico all’Inps si possono consultare migliaia di dati ma non quelli della gestione del bilancio per i Fondi interprofessionale, il Fondi Reports”. Il quale, come confermato da una lettera inviatele dal Ministero del lavoro, è di esclusiva pertinenza dei Fondi. Cosa succeda a quelle risorse, dunque, è poco comprensibile soprattutto alla luce di alcune decisioni governative. Il Fondo amministrato dall’Inps, infatti, èstato già “saccheggiato” dal governo Letta, prima, e dal governo Renzi, poi, per finanziare la Cassa integrazione in deroga. Nel 2013 sono stati prelevati 246 milioni che si sono ridotti a 92 nel 2014. Con la legge di Stabilità 2015, inoltre, è stato previsto un ulteriore prelievo di 20 milioni per l’anno in corso e di 120 per il 2016. Nemmeno si trattasse di un Bancomat.

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Franco Mostacci – Il Fatto Quotidiano

Molto si è detto sull’opportunità di fissare un valore massimo di indebitamento rispetto al Pil. Se l’Italia sfora il tetto del 3 per cento, la Commissione europea avvia la procedura per deficit eccessivi e si rischia di perdere i possibili benefici derivanti dalle nuove regole sulla flessibilità negli investimenti. Nella Nota di aggiornamento al Def il governo ha previsto per il 2014 un indebitamento netto della pubblica amministrazione di 49,212 miliardi di euro e un Pil nominale di 1.626,516 miliardi di euro (+0,5% sul 2013). Il rapporto tra le due grandezze è 3,03%, arrotondato a 3%. Con questi numeri il vincolo imposto dal Patto di stabilità e crescita sarebbe rispettato. La stima del Pil nominale appare, però, troppo ottimistica. Alla luce di una flessione del Pil reale (-0,4%) e di un’inflazione al consumo di 0,2%, è plausibile ritenere che il Pil nominale rimanga sugli stessi livelli dello scorso anno e non superi i 1.620 miliardi. Il rapporto deficit/Pil ne risentirebbe ben poco: perfino una leggera diminuzione non sarebbe comunque sufficiente a far scattare il fatidico decimale in più.

Diverso è il discorso se è l’indebitamento ad essere peggiore del previsto. Il margine a numeratore è, infatti, di appena 200 milioni. Le entrate per il 2014 dovrebbero essere di 786,1 miliardi (+0,5% rispetto al 2013), per il 90% dovute a imposte e contributi. I dati disponibili, aggiornati a novembre, evidenziano 600 milioni in meno di tasse e 900 milioni in meno di contributi rispetto all’obiettivo. A meno di un recupero nel mese di dicembre, mancheranno all’appello 1,5 miliardi di gettito. Le uscite, invece, ammonterebbero a 835,3 miliardi (+1% rispetto al 2013),di cui quasi il 7O% senza margini di manovra: 163 miliardi di stipendi dei pubblici dipendenti, 332 miliardi per il pagamento di prestazioni sociali e 76,7 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico. Se le entrate dovessero essere inferiori al previsto, sarà necessario conseguire una corrispondente contrazione delle spese, per non peggiorare il saldo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha garantito che il deficit del 2014 non supererà il 3% del Pil e – anche se i margini sono ristretti – non ci sono motivi per mettere in dubbio le sue affermazioni. Non resta che attendere il verdetto finale dell’Istat il 2 marzo.

Il miracolo Coop: la grande banca all’insaputa della vigilanza

Il miracolo Coop: la grande banca all’insaputa della vigilanza

Giorgio Meletti – Il Fatto Quotidiano

Alla Banca d’Italia devono essere un po’ distratti. Ci sono circa 11 miliardi di risparmi degli italiani depositati presso i supermercati a marchio Coop e gli occhiuti vigilantes del governatore Ignazio Visco nemmeno lo sanno. O fingono di non saperlo. La storia della banca sommersa di nome Coop è una utile chiave di lettura per lo scandalo Mafia Capitale. L’ormai celebre foto dell’attuale ministro del Lavoro e allora presidente di Legacoop Giuliano Poletti con il ras della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi non segnala indicibili complicità o silenzi ma una realtà alla luce del sole: alle cooperative, bianche, rosse o nere, tutto è permesso. E secondo una retorica ben rodata chi le critica è un nemico del popolo, anche quando al popolo fanno sparire i risparmi.

Il problema della banca clandestina è stato sollevato dal Fatto un anno fa. Se uno porta i suoi soldi in banca, in caso di crac dell’istituto prescelto il suo deposito è garantito dal Fondo interbancario di garanzia. Se uno porta i soldi alla Coop, invece, non c`è nessuna garanzia. Enrico Migliavacca, vicepresidente dell’Associazione delle cooperative di consumo, scrisse al Fatto: falso affermare che siano a rischio 10 miliardi di risparmi delle famiglie”. I fatti hanno smentito tanto ottimismo. A Trieste la Cooperative Operaie ha fatto crac al termine di un’acrobatica agonia su cui sta facendo luce la magistratura, e si sono volatilizzati 103 milioni di risparmi di 17 mila risparmiatori. Subito dopo, in Friuli, è saltata la CoopCa, la cooperativa della Carnia. Altri 30 milioni di risparmi. È un mondo a due velocità. I clienti della Tercas, la Cassa di risparmio di Teramo commissariata dalla Banca d’Italia e il cui direttore generale, accusato del crac, è imputato di associazione a delinquere, non hanno perso un euro. I clienti delle Coop, invece, con il crac rischiano di perdere tutto.

Basta chiamarsi cooperativa, come insegna il maestro Buzzi. Nella citata missiva Migliavacca affermava con nettezza: “Coop non è una banca”. Infatti la raccolta del risparmio che organizza in ogni suo punto vendita (11 miliardi di euro, circa dieci volte la raccolta della Tercas) si chiama “prestito soci”. Il Fatto ha posto alla Banca d’Italia la seguente domanda: “Esiste una forma di vigilanza sul cosiddetto “prestito soci” delle cooperative?”. La risposta è stata: “No. In base alla legge, la Banca d’Italia è competente per la vigilanza sulle banche”. Una seconda, più stringente, domanda (“Un’attività definita di “gestione della liquidità dei soci” puo essere svolta da una cooperativa?”), ha ricevuto una risposta più stupefacente della prima: “In assenza di dettagli sulle specifiche caratteristiche dell’attività di ‘gestione della liquidità dei soci’ non è possibile affermare se essa rientri o meno tra le attività riservate agli intermediari finanziari”. Per aprire una banca serve l’autorizzazione della Banca d’Italia e bisogna sottoporsi alla sua vigilanza. Ma se uno apre una banca seguendo due accortezze (non scriverlo nell’insegna e non fornire dettagli alla Banca d’Italia) può fare quel che gli pare.

La questione è quasi teologica. Che cos’è una banca? Nelle “Istruzioni di vigilanza” della Banca d’Italia si trova la definizione: “La raccolta del risparmio tra il pubblico è vietata ai soggetti diversi dalle banche, fatte salve le deroghe previste dall’art. 11, comma 4, del T.U.”. La deroga riguarda il prestito con cui il socio finanzia l’attività della sua cooperativa. Poi si legge: “Sono comunque precluse ai soggetti non bancari la raccolta di fondi a vista e ogni forma di raccolta collegata all’emissione o alla gestione di mezzi di pagamento”. Quindi chi fa raccolta “a vista” o è una banca o delinque. Che cos`è la raccolta a vista? “La raccolta che può essere rimborsata su richiesta del depositante in qualsiasi momento con un preavviso inferiore a 24 ore”. Adesso vediamo le cose che i distratti della Banca d’Italia – dopo aver scritto le stringenti regole – potrebbero vedere con una sia pure superficiale ricerca su Internet. Lo stesso Migliavacca di “la Coop non è una banca” scrive nel “Decimo rapporto delle cooperative dei consumatori”: “Il prestito sociale è una forma di deposito a vista immediatamente liquidabile”. A vista. E continua: “I soci prestatori possono utilizzare la carta SocioCoop per prelevare contante dal proprio libretto di risparmio e trasferire denaro sul proprio conto corrente bancario. Inoltre i soci prestatori possono utilizzare la carta SocioCoop come strumento di pagamento della spesa e per il prelievo di contante alle casse dei punti di vendita”.

Un milione 218 mila italiani hanno portato i loro risparmi alla Coop, cui hanno consegnato mediamente 9 mila euro a testa, per un totale di 10,86 miliardi che hanno fruttato interessi totali per 139 milioni di euro. Funziona così: si va alla Coop, si diventa soci, si chiede di aderire al prestito soci, si ottiene un libretto tipo quelli della Posta, si portano i soldi da depositare. Ci sono vantaggi notevoli rispetto alla banca, per esempio nessun costo e, soprattutto, nessuna tracciabilità. Comunque nessun vincolo. Il preavviso delle 48 ore previsto dal regolamento è una formalità dettata da qualche avvocato per far vedere che si sta sopra le 24 ore previste dai regolamenti Bankitalia. Ma quando uno ottiene una tessera magnetica con cui può pagare la spesa al supermercato o addirittura prelevare il contante dal Bancomat, sempre con addebito sul suo prestito sociale, che cosa può più giustificare la finzione di non chiamare tutto questo una grande banca? Alla Banca d`Italia però si ostinano a far finta di niente. L’avvocato Stefano Alunni Barbarossa, a nome dei soci della cooperativa di Trieste che hanno perso i loro risparmi, ha posto un quesito interpretativo su una circolare Bankitalia sulla raccolta del risparmio tra i soci da parte delle cooperative. Il direttore della sede di Trieste ha cosi risposto: “Si fa presente che la Banca d’Italia fornisce riscontro diretto alle banche e agli altri soggetti vigilati mentre, di regola, non dà risposta diretta ai quesiti formulati da altri soggetti”. È la linea dura di sempre: finché non arrestano qualcuno alla Banca d’Italia piace far finta di niente.

ImpresaLavoro: «Spesa sociale a 23,6 miliardi nel 2013. Triplicata in sette anni»

ImpresaLavoro: «Spesa sociale a 23,6 miliardi nel 2013. Triplicata in sette anni»

Il Fatto Quotidiano

La spesa per gli ammortizzatori sociali in Italia è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro, triplicando quella del 2007 che ammontava a 7,9 miliardi. Lo rivela un paper del centro studi ImpresaLavoro. Nel solo triennio 2011-2013 la spesa dello Stato è arrivata a 38,1 miliardi di euro. Ma è tutto il sistema che non funziona. Come già rilevato nel 2010 dal ministero delle Finanze, il sistema della spesa sociale, oltre essere pesante per le casse dello Stato, è poco universale, iniquo per quanto riguarda l’organizzazione dei finanziamenti e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo. Da quanto si legge nel rapporto che disegna un quadro impietoso del Paese, il sistema viene finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso, mentre le categorie di imprese e lavoratori che ne beneficiano rappresentano solo un insieme circoscritto di soggetti.

Inoltre non vi è una diretta corrispondenza tra i flussi di entrata e quelli in uscita, nemmeno a livello di misure singole. Ad esempio, le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa Integrazione Guadagni Ordinaria, che tutela i lavoratori cui è stato temporaneamente sospeso o ridotto lo stipendio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità, a sostegno dei dipendenti che hanno perso il posto a causa di crisi o riorganizzazioni aziendali. In sostanza, la prima voce di contributo a carico delle imprese copre anche le spese per la seconda.

Tutto ciò fa sì che, sempre secondo lo studio, il sistema degli ammortizzatori sociali risulti eccessivamente oneroso per le imprese, che si fanno carico di circa 9 miliardi della spesa complessiva annuale, contribuendo diversamente a seconda del tipo di intervento cui è riservata la copertura. Di questi 9 miliardi, poco meno di 4 sono destinati alla copertura della Cassa Integrazione Guadagni, 600 milioni vanno invece alla copertura per l’indennità di mobilità, mentre la restante parte viene impiegata per l’ASPI, la nuova indennità di disoccupazione.

Carta vince, carta perde

Carta vince, carta perde

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Evviva, evviva: Matteo Renzi sfascia l’austerità, taglia le tasse di 18 miliardi, regala soldi alle imprese, infila la liquidazione in busta paga ai dipendenti, conferma gli 80 euro, favorisce le assunzioni, c’è perfino qualcosa per le partita Iva. Tutti felici e tutti grati al premier e al Pd: un utile consenso, casomai arrivassero presto le elezioni.

Qualche obiezione però dovrebbe essere lecita. Primo: le coperture sono, come sempre, all’italiana. Oltre 11 miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è. Ma visto che ormai siamo tutti keynesiani, chiudiamo un occhio. Però ci sono i tagli: non ai tanto odiati “sprechi”, visto che il commissario alla revisione Carlo Cottarelli è stato licenziato e il suo lavoro sepolto negli archivi. No, si taglia (poco) sui ministeri e (molto, 6,2 miliardi) su Regioni ed enti locali: solo chi è in malafede può sostenere che ci sia ancora grasso da asportare. Dopo quattro anni in cui lo Stato centrale ha sottratto oltre 40 miliardi a Regioni e Comuni, ogni ulteriore stretta ridurrà i servizi, visto che le tasse non si possono più alzare senza rivolte di piazza (anche se il ministro Padoan è favorevole a un aggravio delle imposte locali).

L’austerità è ottusa, non c’è dubbio. E va ridiscussa perché non sta funzionando. Ma ancora una volta l’Italia viola i suoi impegni, oggi su debito e domani sul deficit, e non per finanziare investimenti che creino la base della crescita dei prossimi anni, ma per una versione rinforzata della deludente “operazione 80 euro”. Legittimo, ma il crollo delle Borse di ieri sulle voci di elezioni anticipate e di rigetto del rigore in Grecia dimostra quanto fragile è la tregua concessa dallo spread. Spendere in deficit e sbertucciare Bruxelles è facile. La parte difficile è affrontare le sanzioni europee – ormai certe – e l’eventuale furia dei mercati. Oltre a quella dei cittadini, se dovessero scoprire che i regali della politica sono prestiti con tasso di interesse da usura.

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Lorenzo Vendemiale – Il Fatto Quotidiano

“Non siamo partiti dall’edilizia, ma dall’annoso problema dei lavoratori socialmente utili e della gara per i servizi di pulizia”. A svelare il bluff dell’operazione “Scuole belle” sono gli stessi vertici del ministero dell’Istruzione. L’obiettivo non erano le scuole: i soldi, 450 milioni di euro in totale, sono stati in realtà stanziati per risolvere il problema degli ‘ex Lsu’, migliaia di lavoratori che svolgono le opere di pulizia nelle strutture scolastiche del Paese, messi in difficoltà dal ribasso dell’ultima convenzione Consip. Il progetto di manutenzione è solo il modo di garantire a questi dipendenti la continuità occupazionale perduta. Così gli istituti scivolano in secondo piano: fondi distribuiti a pioggia, senza considerare gli interventi realmente necessari; importi, in alcuni casi di decine di migliaia di euro, spesi per operazioni marginali, perché solo queste rientravano nelle competenze dei lavoratori da occupare.

“Scuole Belle” insomma si trasforma, diventa la storia un’iniziativa che riguarda sì la scuola italiana, ma non è stata calibrata sulle esigenze della scuola italiana. Non più il grande progetto annunciato in pompa magna dal presidente del Consiglio, ma i classici due piccioni con una fava. Anche i presidi ne sono consapevoli. “Il progetto non è come l’hanno presentato: pensavamo di poter gestire quelle risorse, con certe cifre avremmo potuto fare cose importanti. In realtà c’è solo da scegliere tra alcune opzioni di lavori possibili. È tutto incanalato perché quei soldi servono a dare da mangiare ai lavoratori socialmente utili, le scuole vengono dopo”, spiega Fernando Iurlaro, dirigente dell’Istituto comprensivo Copertino, in provincia di Lecce.

I soldi dove ci sono più lavoratori

La riprova sta proprio nel processo con cui l’esecutivo ha elaborato la graduatoria e quantificato gli importi. I 150 milioni per il 2014, che diventeranno 450 milioni fino ai primi mesi del 2016, sono esattamente quanto serve a colmare il gap aperto dall’ultimo bandoConsip. E i fondi sono stati distribuiti tra le varie province del Paese non sulla base delle richieste delle scuole ma sul numero dei lavoratori. Tanto che su 450 milioni totali 330 finiscono al Meridione – la Campania da sola ne prende 171, la Puglia 68 – solo perché la maggior parte degli Lsu si trova in queste regioni. Non certo perché le strutture del Sud siano messe peggio di quelle del Nord.

A ricostruire l’iter è Sabrina Bono, capo dipartimento Miur per le risorse finanziarie: “Quella dei lavoratori socialmente utili è un’emergenza che nasce dalla gara per i servizi di pulizia: l’esternalizzazione, se da un lato ha razionalizzato i costi, dall’altro ha generato una pressante questione sociale. Per affrontarla, il nuovo governo ha pensato ad una soluzione che non fosse il solito ricorso agli ammortizzatori sociali. E visto che sul tavolo c’era già il tema dell’edilizia scolastica, si è deciso di inaugurare un filone riguardante la piccola manutenzione”. Questo genere di lavori, infatti, ricade proprio all’interno della convenzione Consip che riguarda gli “ex Lsu”. Così sono stati messi in cantiere un tot di opere in base al fabbisogno di questi lavoratori, non delle scuole. Legittimo. Anche lodevole, a sentire alcuni protagonisti come i sindacati o i vertici del ministero, soddisfatti di aver raggiunto un duplice obiettivo: “Per noi è una bella iniziativa, fino all’anno scorso in alcune scuole si facevano collette fra i genitori per riverniciare le aule. Abbiamo ricevuto tante lettere di ringraziamento”, afferma la Bono. Sicuramente, però, non è quello che aveva raccontato il premier Renzi, che negli ultimi mesi aveva più volte sbandierato l’intenzione di mettere la scuola al centro dei piani del governo. Mentre le cose sono andate diversamente.

Gli effetti negativi sui lavori

La particolare genesi del progetto, infatti, ha comportato alcune storture nella destinazione dei fondi alle scuole e nel loro impiego. La prima, la più macroscopica, è che il principale criterio di ripartizione è stato il numero di lavoratori presenti nella provincia: i soldi, insomma, non sono andati alle scuole che ne avevano più bisogno. Del resto, non c’è stato alcun bando a cui gli istituti potevano partecipare, nessun censimento specifico per monitorare gli interventi da effettuare (se non la consueta comunicazione che all’inizio di ogni anno i presidi fanno ai Comuni di appartenenza). Così nelle province più “munificate” dal progetto (come ad esempio Napoli con 37 milioni di euro, o Lecce con 10 milioni) è capitato che alcune scuole, le più grandi, si vedessero assegnati fino 200mila euro. Cifre ben lontane dai 7mila euro fissati come importo minimo dal Miur, o dalla media di 20mila euroscarsi per plesso. Sempre, però, per fare interventi “di cacciavite”. La lista delle operazioni possibili, poi, è abbastanza ristretta: verniciatura delle pareti e cancellazioni di scritte; riparazioni degli infissi; rimozione e riallocazione delle strutture didattiche (praticamente montare o spostare mensole, armadi, lavagne); piccoli interventi all’impianto idrico-sanitario (caldaie escluse, però); rifacimento e manutenzione del giardino.

È possibile spendere decine, a volte centinaia di migliaia di euro solo in questo tipo di lavori? Evidentemente sì. Si doveva farlo, del resto. Al massimo è stata concessa la possibilità di destinare fondi avanzati per pagare a canone servizi di pulizia e giardinaggio per i prossimi mesi. E pazienza che in alcuni casi gli stessi presidi abbiano avanzato dei dubbi. “A me alcuni costi sono sembrati spropositati. Ad esempio, il 15% secco solo per pulizie di fine cantiere (altra voce della circolare, ndr) mi è sembrato esagerato”, spiega Tonino Bacca, dirigente scolastico del circolo “Livio Tempesta” a Lecce. La sua direzione didattica si è vista assegnare 166mila euro, di cui 25mila circa se ne andranno solo per smontare i cantieri. “A casa mia non avrei mai fatto quei lavori a quelle cifre”, conclude. “Se avessi potuto decidere, avrei speso solo una parte dei fondi in manutenzione e il resto li avrei destinati a migliore la qualità delle attrezzature e dell’offerta formativa”. Discorso simile in un’altra scuola della provincia: qui la preside (che ha preferito rimanere anonima) ha speso circa 50mila euro per riverniciare 16 aule; ma pochi mesi prima la ritinteggiatura di 10 aule, a spese del Comune, era costata solo 17mila euro; in proporzione, meno della metà. È il genere di inconvenienti che si verifica con i finanziamenti a pioggia. Il risultato, alla fine della giostra, è una “mano di fresco” ai 7.751 plessi interessati, che ha lasciato parzialmente soddisfatti i presidi: da una parte felici di aver migliorato le condizioni delle loro strutture, dall’altra convinti che con le stesse cifre si sarebbe potuto fare di più e di meglio. Tutti contenti, invece, i lavoratori impiegati dal progetto, i veri beneficiari dell’iniziativa.

Lsu: chi e quanti sono

Per capire di chi si tratta e da dove nasce questa esigenza bisogna fare un passo indietro. In totale parliamo di circa 21mila uomini e donne in tutta Italia, concentrati per oltre il 50% nelle regioni del Sud. Alcuni provengono dai cosiddetti “appalti storici”, impiegati in questo settore sin dagli anni Ottanta. Altri, la maggior parte, sono appunto gli ex “lavoratori socialmente utili” (Lsu): disoccupati o cassaintegrati che nel 2001 il governo Prodi decise di stabilizzare all’interno delle scuole per i lavori di pulizia, impegnandosi a stanziare ogni anno le risorse necessarie per mantenerli. La loro situazione si è però complicata nel corso degli anni: le opere di pulizia sono state prima sottratte agli enti locali nel 2007, poi esternalizzate. E l’ultima gara Consip del 2011 ha visto dei ribassi tali (in alcuni casi anche del 30-50%) da indurre le ditte a presentare un piano di riduzione consistente dell’orario di lavoro. Si tratta della Dussmann in Puglia e Toscana; della Manutencoop in Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia e Trentino Alto-Adige; e del consorzio Rti in Sardegna, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo Molise, Valle D’Aosta, Piemonte e Liguria (nelle altre regioni la gara non è stata completata).

Già negli scorsi anni erano state varate delle operazioni straordinarie di pulizia, per far fronte all’emergenza. Quindi, nel febbraio 2014, il lancio di “Scuole belle”, per dare una svolta alla questione. Con i soldi del progetto, infatti, i lavoratori dovrebbero essere a posto almeno per due anni. Poi alcuni di loro dovrebbero andare in pensione, il bacino cominciare a svuotarsi. E il “bubbone” sgonfiarsi. Con piena soddisfazione del governo. Un po’ meno delle scuole, che per essere pulite meglio dovrebbero sperare in una disoccupazione maggiore.

Tfr, 80 euro, gratta e vinci: è tutto un talk show

Tfr, 80 euro, gratta e vinci: è tutto un talk show

Pino Corrias – Il Fatto Quotidiano

Domandona: ma se uno riceve gli 80 euro perché sta sotto i 1.500 euro mensili e poi riceve anche l’anticipo sul Tfr, diciamo di 30 euro, coi quali però supererà i 1.500 euro mensili, le signorine cuorinfranti addette alla contabilità renziana, toglieranno gli 80 euro? Faranno finta di niente? Oppure aumenteranno di un punto la Tasi, di mezza aliquota l’Imu, per poi andare in pari con un gratta e vinci? Si dovrà ammettere che il labirinto di proposte, invenzioni, rettifiche e altri rumori di distrazione di massa nel quale siamo precipitati è sempre più appassionante. Ogni svolta contiene la sua suspense: condurrà a Bruxelles o al baratro?

Abbiamo passato l’estate a giocare con le Province e il Senato facendo finta di abolirli. Passeremo l’autunno sull’articolo 18, che non contando nulla conta moltissimo, è un simbolo, no un tabù, anzi un’icona fatta di pura ideologia anche se poi presidia un trascurabile dettaglio che passa tra un lavoratore e un licenziato. Negli intervalli pubblicitari seguiamo il torneo a ostacoli sulla Corte costituzionale. Piovono giudici dal Csm. Ignoriamo Ebola che avanza: ci siamo rotti le palle dei talk show perché finalmente li facciamo direttamente noi.