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Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Il Foglio – di Massimo Blasoni

I risultati ottenuti nell’ultimo biennio in tema lavoro nel nostro Paese sono positivi? Non è semplice rispondere atteso il balletto mensile di cifre che ci viene proposto e che si presta a diverse e talvolta capziose letture. Oggettivamente il numero degli occupati è salito anche se bisogna dire che restiamo al di sotto del 2007, ultimo anno pre crisi. Va riconosciuto tuttavia che al di là del dato strettamente congiunturale alcune previsioni del Jobs Act, quali il superamento dell’articolo 18, sono significative e cambiano in parte il nostro modo di concepire il lavoro. Superare l’idea di job property è fondamentale per un Paese dove risulta ancora difficile premiare il merito, assumere e licenziare e le relazioni sindacali sono troppo rigide e complesse. Il World Economic Forum ci classifica 126esimi su 144 Paesi per efficienza del mercato del lavoro. Dunque che fare? Occorre innanzitutto comprendere le profonde evoluzioni che si profilano.

Punto numero uno: una volta i tempi del lavoro li dava sostanzialmente la catena di montaggio: la prestazione dei singoli operai era tutto sommato resa omogenea. Oggi non è così. In una società, improntata ai servizi più che alla manifattura, il fatto che l’operatore del call center ovvero l’assicuratore ci dedichino maggiore o minore attenzione e siano più o meno competenti sortisce effetti estremamente diversi. I nostri contratti di lavoro, troppo rigidi, considerano la quantità di tempo impiegata dal lavoratore e non il numero e l’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo.

Secondo: per il nostro sindacato il tema delle garanzie resta prioritario, quasi totalizzante. Tuttavia per un enorme numero di disoccupati – soprattutto giovani – il dato dirimente è lavorare o non avere un lavoro. Questo non vuol dire che dobbiamo puntare a una flessibilità selvaggia ma serve a comprendere perché in tema di occupazione gli effetti della decontribuzione sulle nuove assunzioni non sono stati esaltanti. Insomma, l’impresa non assume (malgrado gli incentivi) se ritiene che i costi siano troppo alti e che gli impegni presi siano indeterminati nel tempo.

Terzo: secondo uno studio del Labour Department degli Stati Uniti il 65% dei bambini che oggi vanno alle elementari faranno in età adulta un lavoro che oggi nemmeno esiste. Aggiungiamo: il lavoro del futuro per molti non verrà svolto in ufficio, non solo perché esiste Skype, ma soprattutto perché la connettività superveloce garantisce una sorta di ubiquità. Le prestazioni diventano “on demand” ed è possibile lavorare da casa per committenti fisicamente lontani e senza il vincolo di un orario prefissato. Non solo: l’attuale rivoluzione tecnologica incrementa produzione e innovazione ma ha bisogno di meno posti di lavoro.

Uno studio del World Economic Forum sostiene che entro cinque anni cinque milioni di persone rischiano di essere sostituite da automazione e automi e per il centro studi di Ubs nei prossimi vent’anni la tecnologia soppianterà metà delle attuali professioni. Peraltro l’aver studiato non basterà. Questo perché chi frequenta oggi un qualsiasi corso di informatica sa da principio che sta incamerando informazioni che saranno già superate entro la fine del suo percorso di studi. Negli ultimi tre anni sono state introdotte decine di applicazioni per i nostri iPhone o tablet che certo gli studenti non hanno trovato sui libri di studio. Se si parla di qualcosa che nemmeno esiste si deve avere anche l’umiltà di ammettere che non basta una trasmissione di nozioni statica e in ogni caso incompleta. Occorre piuttosto formazione permanente e che l’apprendimento non sia più una fase circoscritta della vita. Infine siamo di nuovo a chiederci: siamo preparati a queste evoluzioni del mercato? Come detto, pare di no.

Il nostro Paese è agli ultimi posti per numero di laureati, ricerca e innovazione; la velocità media di un download in Italia è di 8 mega per secondo, contro i 29 del Regno Unito. Secondo l’indice Desi siamo 25esimi su 28 Paesi in Europa per capacità digitale. Uscire da questa situazione non è impossibile ma occorre promuovere ancor di più un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa, e sindacato e potenti investimenti in conoscenza e innovazione. I giovani che se ne vanno all’estero nel 2005 erano 25mila, nel 2014 sfioravano i 52mila. Un’emorragia che non possiamo permetterci.

Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Salvatore Zecchini * – Il Foglio

Il populismo di proposte quali il reddito di cittadinanza di cui ha parlato il Foglio ieri e la recente pubblicazione del volume di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La Buona spesa – Guida operativa alla spending review” (edito dal Centro studi ImpresaLavoro) riaccendono l’attenzione sulla spesa pubblica. Questa ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso, con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha oscillato tra il 49,1 per cento del Pil nel 2011 e il 51,2 per cento nel 2014 (50,5 nel 2015), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota serve a remunerare il debito pubblico (4,2 per cento del Pil nel 2015), un’altra a migliorare il potenziale economico attraverso investimenti in capitale fisso (2,3 per cento nel 2015) e capitale umano (8 per cento per istruzione e ricerca), e un 2 per cento circa alla difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile attorno al 42 per cento del Pil. Ad eccezione della spesa per interessi, che è guidata dalla Banca centrale europea e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa quella sociale, si presta logicamente a una revisione, anche quella definita come “non aggredibile”. Infatti, ben poco rileva che gran parte abbia carattere obbligatorio, perché nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Dal 2011 i governi hanno dovuto intraprendere la strada della revisione sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’Ue e della Bce, il rischio di insostenibilità del debito in presenza di stagnazione o recessione economica, e l’acuta intolleranza di imprese e famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale. Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 per cento del Pil dal 2012 al 2015 (43,5 per cento nel 2015), mentre la spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente. Le quattro esigenze, pur essendo distinte, sono collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Tuttavia, ridurre la spesa pubblica in una fase in cui famiglie ed imprese tendono a spendere meno può apparire come una mossa azzardata e controproducente per la crescita. Nondimeno, questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più efficaci per la crescita di medio periodo, ovvero per la competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse delle nuove generazioni. Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia: una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce, delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è percorribile e in quali tempi? Se una riforma costituzionale della politica, delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente, i tempi indubbiamente sarebbero lunghi. Occorre, pertanto, iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito assume un ruolo fondamentale la valutazione economica, benché sia resa molto ardua dalle carenze di informazione e di competenze tecniche nella Pa. Non si sa ancora abbastanza per valutare la gestione degli enti decentrati, dei servizi pubblici locali, società partecipate, meccanismi delle commesse pubbliche, performance delle scuole, gestione di ospedali, Asl, università, etc.. La capacità di valutare della Pa, inoltre, è limitata dalla scarsa conoscenza delle metodologie, mentre l’impiego di esperti indipendenti è visto con timore.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 miliardi nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 miliardi del 2016 ai 28,7 miliardi del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale più che su Regioni e Comuni e, in particolare, su consumi intermedi e personale, toccando sia le retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del Def si desume anche che parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello presente della spesa ma sulla sua espansione futura.

A parte i dubbi sulla fattibilità, i tagli si accompagnano a nuove spese, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, Regioni e Comuni sono toccati meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina accumulando debiti occulti, con ritardi nei pagamenti ai fornitori o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni di ogni singola voce di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali, sulla riorganizzazione della Pa, al centro come in periferia, sulla sua responsabilizzazione e sulle sanzioni. La valutazione non può, d’altronde, esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento. Diversi altri strumenti potrebbero essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla determinazione della leadership nel ridurre sostanzialmente spesa e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa che è carente nella nostra particolare democrazia.

* Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico di ImpresaLavoro

In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

Luciano Capone – Il Foglio.it

Nei giorni di SwissLeaks e della diffusione dei dati bancari della sede ginevrina della Hsbc sottratti dal dipendente infedele Hervé Falciani, si ha la sensazione che la Svizzera sia un “paradiso fiscale”, il più grande paradiso fiscale d’Europa. L’idea trova conferma nell’“Indice della libertà fiscale in Europa” realizzato dal centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro, che verrà diffuso nei prossimi giorni e che il Foglio ha potuto vedere in anteprima. L’indice analizza i sistemi fiscali di 10 paesi europei (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera) che vengono valutati su una scala in centesimi sulla base di quattro parametri utilizzando i dati confrontabili di Eurostat e della Banca mondiale: struttura e peso della tassazione rispetto al pil, Implicit tax rate sul reddito da lavoro, capitale e consumo, complessità fiscale e livello di decentramento fiscale. Se nella classifica che va da 0 a 100 è la Svizzera ad essere il “paradiso fiscale” europeo con un punteggio di 76 (forte di una pressione fiscale al 28 per cento, di un sistema semplificato e decentralizzato), l’”inferno fiscale” dista pochi chilometri, ci si arriva con l’autostrada del San Gottardo, è proprio l’Italia che ha un punteggio di 42, uno in meno della Francia.

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A Landini non resta che lo share

A Landini non resta che lo share

Il Foglio

Cinque adesioni su 1.478 dipendenti. È il risultato dello sciopero indetto per il 14 febbraio e per i prossimi due altri sabati, dalla Fiom-Cgil nello stabilimento Fiat Chrysler Automobiles di Pomigliano d’Arco, dove si produce la Panda per la quale c’è un boom di richieste. Il sindacato di Maurizio Landini era stato l’unico a prendere le distanze da quanti – compreso il segretario generale della Cgil Susanna Camusso – avevano salutato come assolutamente, e diremmo ovviamente, positivo l’annuncio di Sergio Marchionne di 1.500 nuove assunzioni all’altra fabbrica di Melfi, oltre alla fine della cassa integrazione. Da Melfi escono la Jeep Renegade, che ha avuto in Italia ed Europa un grande successo e che ora verrà esportata negli Usa, e la nuova 500X, sulla quale sono riposte altrettante attese.

In generale è tutto il settore auto – in pratica FCA – ad aver già registrato un record di produzione a dicembre, più 30,4 per cento rispetto allo stesso mese 2013, e oltre il nove per cento nell’intero anno: una buona spinta alla fine della recessione. A poche ore dalla diffusione di questi dati la Fiom ha invece proclamato i tre sabati di sciopero presentandoli come “non ideologici ma sull’organizzazione dei turni”. Landini, che ha portato Marchionne in tribunale e davanti alla Corte costituzionale (che gli ha dato ragione) proprio per il referendum di Pomigliano che aveva visto sconfitta la Fiom, furoreggia sui media e nei talk-show, dove già minimizza il flop: “Non sono pentito, sapevo che sarebbe andata così”. Non gli resta che lo share. Quello televisivo però, perché in fabbrica è un po’ bassino: cinque su 1.478 equivalgono allo 0,33 per cento.

Contro i disfattisti

Contro i disfattisti

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non è un bazooka. Ma un colpo di fucile nella direzione giusta, sì. E nell’Europa dei piccoli passi, spesso anche indietro, non è cosa da poco quella che Draghi è riuscito a far passare alla Bce. Certo, condividere solo il 20 per cento dei rischi relativi ai 1,080 miliardi di titoli che la Bce comprerà di qui Fino a settembre 2016 può far storcere la bocca. Ma intanto sono meglio di zero, e poi questa forma di mutualizzazione rappresenta la fine di un tabù che apre la strada, sul piano culturale prima ancora che pratico, a una vera federalizzazione del debito europeo. Tuttavia, è presto per dire se questo Quantitative easing sarà o meno sufficiente a riassorbire la caduta dei prezzi e riportare l’inflazione alla soglia del 2 per cento, così come se spingerà in modo strutturale il cambio dell’euro verso la parità con il dollaro e se sarà capace di bagnare in modo irreversibile le polveri da sparo della speculazione nei confronti della moneta unica e dell’eurosistema. Anche perché rimane il fatto che, come Draghi ha ripetuto fino alla noia, ogni manovra monetaria, per quanto straordinaria, non potrà che restare un palliativo se i governi non si impegneranno nelle riforme nazionali e nell’integrazione delle sovranità. Veri fronti da cui passa, o meno, la possibilità di mettere fine alla più grande crisi economica dell’ultimo secolo anche per 1’Europa, dopo che Obama l’ha dichiarata archiviata per l’America.

Con buona pace degli arruffapopoli che nel Vecchio continente stanno facendo credere alla gente, stremata psicologicamente prima ancora che praticamente da sette anni di crisi, che la fine dell’incubo risiede nel tornare ciascuno sotto il proprio campanile. Gli stessi che ieri, subito dopo 1’annuncio della Bce, hanno tirato le pietre a Draghi per aver tardato. Prendete tale Claudio Borghi, sedicente economista che presta il suo pensiero (sic) a Salvini -“il Qe è la più grande speculazione della storia” – e vedrete chi avremmo dovuto mettere a trattare con l’arcigna Merkel. Questo tizio capeggia un gruppo di “haters”, gente che passa la giornata a intingere il pennino nell’odio. Parlo per esperienza, perché ne ho fatto le spese. “Infame collaborazionista”, “cialtrone”, “#nonseiumano”, “nemico dell’Italia vergognati”, sono solo alcuni degli insulti (tra quelli riferibili) che ho collezionato in poche ore su Twitter dagli infoiati antieuro per aver sostenuto che a oggi, nonostante tutto, credo ancora nell’Unione europea.

Nessun modello econometrico può stabilire con esattezza cosa accadrebbe in caso di fine della moneta unica, ma con fervore integralista gli antieuro sostengono di poter prevedere ogni cosa, insultando chiunque la pensi diversamente (#jesuiseuropeista). Pensate, poi, che pur di tornare alla liretta tra gli ideologi antieuro c’e chi propone di chiudere le banche e congelare i risparmi per settimane, Ma poi, tutta questa ambizione solo per tornare a svalutare? A parte che durante la crisi e con l’euro forte (eccessivamente) il nostro export è cresciuto anche più di quello tedesco, è da rilevare che, nonostante il deprezzamento sul dollaro, a novembre c’è stato un calo congiunturale delle vendite extra Ue dell’1,7 per cento. E poi, non è certo con le svalutazioni competitive che innescano competizione al ribasso che ci risolleviamo. Si tratta di accuse ridicole per me, in quanto i professionisti dell’insulto ignorano (loro, d`altra parte, ignorano per definizione) che mi sono beccato dell’euroscettico e dell’euro-disfattista perché ero contrario a introdurre l’euro senza una preventiva o quantomeno contemporanea integrazione politico-istituzionale (ma avevo anche detto che se si fosse fatto, comunque per l’Italia sarebbe stato un suicidio rimanerne fuori, e lo ribadisco). Ma pazienza. Il fatto è che si tratta di parole d’ordine pericolose per il paese, perché finiscono con l’azzerare le nostre responsabilità – da noi il declino è iniziato ben prima del 2008 – e far credere che sia l’euro la causa di tutti i mali.

L’operazione è semplice: sbatti il mostro in prima pagina, approfitti di ansie e paure (legittime) e gli adepti si moltiplicano. E domani anche i voti. È la strategia dell’ormai ex Lega nord, che fino a ieri voleva creare una moneta sovrana dal Po alle Alpi e ora si è intestata la battaglia contro l’euro con gli slogan di qualche improvvisato ideologo, tipo un “si stava meglio quando il caffè costava mille lire”. Semplificazioni che impediscono di spingere l’opinione pubblica nell’unica direzione possibile, quella di mettere rimedio ai difetti genetici dell’euro, capendo che il difetto non è nella moneta, ma nell’Europa come progetto politico. La sfida è proprio qui: o andare avanti verso gli Stati Uniti d”Europa, o il ritorno al passato, l’illusione di poter restaurare un sistema che in realtà è la globalizzazione e non 1’euro ad aver cancellato per sempre. Meno male che c’è Draghi.

Old economy

Old economy

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Correggendo un errore si limitano i danni, non si risolvono certo i problemi. Matteo Renzi, facendo apprezzabilmente autocritica, ha più volte ripetuto di voler modificare l’inasprimento fiscale introdotto per le partite Iva con la legge di stabilità e Giuliano Poletti ne ha annunciato, di conseguenza, la riscrittura. Bene, ma non basta. Perché l’errore deriva dal perpetuarsi di vetusti schemi ideologici che a parole si vorrebbero superare. Il legislatore, invece, resta ancorato alla vecchia cultura del Novecento imperniata sulla diarchia imprenditori-dipendenti – figlia della separazione marxista tra capitale e lavoro, tra padroni e sfruttati, che privilegia solo il dipendente a tempo indeterminato – che dipinge i liberi professionisti e chi si è fatto imprenditore di se stesso, nel migliore dei casi come un limone da spremere fiscalmente, e nel peggiore come un popolo di evasori, quando invece la società moderna, che cammina assai più velocemente, ha già costruito nuovi modelli.

Il Jobs Act, per esempio: lungi da me sottovalutare le discontinuità che produce, ma ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. E gli 80 euro? Una misura da 10 miliardi a favore di chi ha già un lavoro dipendente, stabile e una retribuzione “media”: l’idealtipo dell’elettore di sinistra, insomma, Anche i 5 miliardi di sgravi Irap per i neo assunti, più che generare nuova occupazione, saranno utilizzati dalle imprese per sostituire chi è in uscita, con effetti benefici limitati al turn-over, Stesso discorso per gli under 35 che hanno una partita Iva: dopo aver constatato che nella legge di stabilità (chissà poi perche non è stata utilizzata la delega fiscale) l’aliquota nel regime agevolato dei minimi è stata triplicata (il 15 per cento, contro il 5 per cento deciso dal governo dei tecnici) e aver scoperto che all’innalzamento da 30 a 40 mila euro della soglia di fatturato per l’applicazione del regime fiscale agevolato per artigiani e commercianti, si contrappone l’abbassamento da 30 a 20 mila per lavoratori della conoscenza (addirittura 15 mila nella prima stesura governativa), e dopo aver amaramente visto che i costi saranno definiti in base a coefficienti presuntivi di redditività e non, come sarebbe logico, sulla base delle spese effettivamente sostenute, c’è il rischio che rimpiangano il vecchio Monti.

Perché, in un sol colpo, l’esecutivo dei quarantenni ha ridotto la platea e triplicato le tasse a trentenni che iniziano un’attività da freelance della conoscenza. Senza contare che, mentre si prova a rivoluzionare il sistema degli ammortizzatori sociali, il welfare pubblico per i lavoratori autonomi rimane un tabù e l’aliquota contributiva Inps è appena salita al 29 per cento (e continuerà a farlo fino ad arrivare al 33 per cento nel 2018), mentre per i dipendenti si ferma al 25 per cento. In sintesi, con misure che riducono i contributi previdenziali e ampliano la soglia di applicazione del regime dei minimi, si è dato sostegno al lavoro autonomo più tradizionale (artigiani e commercianti), ma non si è neppure provato a distinguere dentro il variegato mondo del lavoro autonomo, magari premiando chi è completamente rintracciabile nei pagamenti rispetto a chi evade.

Ora bisogna rimediare. L’idea migliore, che era circolata ma è poi stata accantonata, sarebbe quella di varare un veicolo legislativo ad hoc per le partite Iva, completo e soprattutto stabilizzante rispetto alle aspettative future visto che nell’ultima parte del 2014 tanti freelance, consigliati dai commercialisti, hanno deciso che fosse meglio giocare d’anticipo e aprire subito la partita Iva per poter usufruire del “forfettone” (5 per cento di tassazione fino a 30 mila euro) per sfuggire dai nuovi minimi. Meglio arrivare a un regime fiscale e previdenziale più severo ma garantito nel tempo e senza tetti anagrafici, piuttosto che offrire vantaggi spot che velocemente evaporano. Nello specifico, è evidente che diventa difficile per il governo far fare un passo indietro ad artigiani e commercianti dopo aver assicurato loro la gran parte degli 800 milioni stanziati per gli autonomi, Ma proprio per questo, bisogna arrivare a un provvedimento specifico, dove e più facile articolare il dare e l`avere e dove lo spirito liberalizzatore di Renzi (almeno a parole) può essere maggiormente valorizzato.

Nella litania del “largo ai giovani” e dei “millennials pronti a raccogliere le sfide della globalizzazione” non c’e spazio per provvedimenti che spingono i freelance a diventare imprese artigiane o commerciali. Capisco che delle parole di Acta, l’associazione dei freelance che ha lanciato la campagna “#RenzireWind” – “se il presidente del Consiglio è coerente deve bloccare l’aumento dei contributi per la gestione separata Inps e studiare un regime agevolato” – possa esserci una lettura corporativa. Ma è altrettanto vero che non ci sara mai il “nuovo corso” che blairianamente Renzi auspica se l’unico orizzonte resta quello della “old economy”, lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e autonomi “classici”.

Pasticci istituzionali

Pasticci istituzionali

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo. Non si possono svilire procedure istituzionali fondamentali – come quella, sacra, dell’approvazione dei testi di legge, portando in Consiglio dei ministri provvedimenti non del tutto definiti o, peggio, slide di generici documenti assertivi privi di qualsiasi dettaglio – e pensare che tutto ciò non si ritorca come boomerang contro coloro che operano tali stupri istituzionali. È accaduto con il decreto legislativo sul diritto penale tributario. Sul quale governo, Parlamento e l’intero sistema-paese hanno clamorosamente perso la faccia più volte.

Primo: il provvedimento è sostanzialmente giusto, e andava difeso politicamente, non mollato al primo stormir di fronde.

Secondo: come accade spesso a Renzi, le buone intenzioni – in questo caso, emanciparsi dalla demagogia fiscale della sinistra – non sono messe in pratica nel migliore dei modi. Nello specifico, come ha spiegato molto bene il sottosegretario Zanetti, introdurre esenzioni penali (potenzialmente per milioni) sul reato di frode documentale, grave perché presuppone la predisposizione intenzionale di documenti falsi per rappresentare operazioni inesistenti, è cosa sbagliata e indifendibile, mentre è opportuno alzare le soglie di depenalizzazione dei reati tributari meno gravi, come la dichiarazione infedele, e depenalizzare completamente, ferme restando le sanzioni amministrative, le mere omissioni di versamenti dell’Iva in presenza di dichiarazioni fedelmente presentate.

Terzo: non so se c’entri o meno Berlusconi (a naso, non credo) nell’aggiunta del famigerato “l9 bis”, ma bloccare tutto per quella presunzione – passando dall’ipotesi di provvedimento ad personam alla certezza di “non provvedimento” contra personam – è demenziale. Tanto più se poi si commette l’imperdonabile errore di legare il riesame della normativa alla scelta del prossimo capo dello stato, avvalorando l’idea che si trattasse di una furbata.

Quarto: un governo non può congelare un decreto legislativo già approvato dal Consiglio dei ministri sottraendolo all’esame del Parlamento, mentre Camera e Senato (presidenti, se ci siete battete un colpo) non possono accettare che passi ad altri la prerogativa di fissare il calendario dei propri lavori. È lo stesso errore, rovesciato, commesso per il decreto attuativo delle norme sul lavoro: in quel caso, sorta la questione se i dipendenti pubblici erano o meno equiparati a quelli privati, il governo ha detto di volersi rimettere al Parlamento, cosa impossibile visto che si trattata di legge delega e dunque, come dice la parola stessa, le Camere avevano delegato l’esecutivo a prendere decisioni,

Quinto: come magistralmente sottolineato da Davide Giacalone, non si può escludere i procedimenti in corso o in giudicato dalla nuova regola (Renzi dixit) senza buttare a mare il “favor rei”, uno dei pilastri della nostra civiltà giuridica.

Ma la cosa più grave di tutta questa brutta vicenda è e resta lo svuotamento di funzioni del Consiglio dei ministri. Non è certo stato Renzi a introdurre la cattiva abitudine di testi di legge completati o modificati ex post. Ma mai in modo così smaccato. Già per la legge di stabilità erano passati nove giorni tra il testo uscito dal Cdm e quello definitivo, ma almeno il motivo era più nobile: tener conto delle obiezioni del Quirinale, della Ragioneria e, probabilmente, di Bruxelles. Ora si è passato il segno. Anche perché questa maldestra forzatura si somma con il sempre più esplosivo problema dei contrasti – prima era un braccio di ferro, ora è una vera e propria guerra – tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia. Ma anche con il reiterato abuso dei decreti legge, con l’ambiguità (voluta) dei disegni di legge omnibus e le maglie troppo larghe delle leggi delega, con l’uso smodato del voto di fiducia. Solo che finora la slabbratura delle procedure aveva conferito all’esecutivo un potere sottratto all’effettivo controllo del legislativo, mentre ora aggiungiamo a questa forzatura costituzionale quella ancor più intollerabile della sottrazione del potere dei ministri (singolarmente e collettivamente intesi) a favore del premier e del suo staff.

Questa non è premiership – né nella forma del cancellierato né in quella presidenziale – ma confusione istituzionale. Ha ragione Renzi quando sostiene che la politica deve reimpadronirsi delle responsabilità che le spettano, e che per questo occorre rivedere gli assetti istituzionali. Ma non si può fare così. E neppure con riforme a spizzichi e bocconi. Al contrario, Renzi si faccia promotore della convocazione di una nuova Assemblea costituente, l’unico luogo veramente deputato a una complessiva riscrittura delle regole e rivisitazione degli strumenti istituzionali. È l’unico modo. Anche per salvare la faccia e il consenso degli italiani.

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

In origine ci fu un tweet, ovviamente: “#municipalizzate: sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000″. Parola di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, nell’aprile 2014, a poche settimane dall’insediamento. Poi in agosto il “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” di Carlo Cottarelli, allora commissario governativo alla spesa pubblica: sono 7.726 le società che hanno come azionista – maggioritario o meno – le amministrazioni locali, anche se “non si conosce il numero esatto delle partecipate” (sic!), per un totale di 235 mila dipendenti. Poi di nuovo Renzi che annuncia: “Le ridurremo a un ottavo di quante sono oggi”. Quindi, al rientro dalle ferie estive, la rassicurazione del potente sottosegretario Graziano Delrio: “Il governo affronterà la questione in modo organico nella legge di stabilità”. “Una vergogna inaccettabile”, ha ribadito Renzi all’inizio di dicembre alla Camera sulla scorta del tormentone “Mafia Capitale”.

Adesso però il testo definitivo della legge di stabilità c’è, e le municipalizzate sembrano continuare a godere ancora di ottima salute, che si tratti del prosciuttificio o della società del trasporto pubblico locale. A dire il vero di un “processo di razionalizzazione” del capitalismo municipale, in Finanziaria, si parla. In maniera però poco radicale o rottamatrice, a giudicare dai commi 610 e seguenti del maxiemendamento governativo. “Una novità positiva è il riferimento alla soppressione delle partecipate “inutili”, cioè quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali, come agenzie di stampa, assicurazioni e farmacie, nel caso specifico in cui siano ‘composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti’ dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Per il resto il governo si muove, ma come i gamberi, per tornare indietro. infatti la liquidazione delle partecipate inutili doveva avvenire entro il 31 dicembre 2014, cioè entro pochi giorni. Invece, parlando di una nuova scadenza, il 31 dicembre 2015, di fatto si concede un anno in più di tempo agli enti locali. Una proroga che ricorda quella contenuta nel dicembre 2013 nella Finanziaria del governo Letta.

Nel 2012 il decreto Spending review del governo Monti prevedeva lo scioglimento entro il 31 dicembre 2013 delle società “strumentali”, quelle che lavorano quasi totalmente per l’ente pubblico che le controlla; o la loro alienazione dal 2014. In più c’erano le norme ad hoc per le municipalizzate “inutili”, introdotte addirittura nel 2007 e da allora periodicamente rinviate. Fino al rinvio voluto dal governo di grande coalizione di Enrico Letta, appunto; un esecutivo che in alcune fasi sembrò navigare con l’obiettivo di evitare i dossier più spinosi. Ma perché Renzi, sulle municipalizzate, avanza pure lui a suon di annunci e proroghe? La spiegazione ufficiale – che soprattutto i tecnici del ministero dell’Economia (Mef) offrono agli investitori internazionali – è la seguente: “Non si poteva mettere troppa came al fuoco nella legge di stabilità”. Tuttavia negli ultimi mesi c’e stato un altro ostacolo: Palazzo Chigi sembra preferire che sia il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, a tirare le fila dell’iniziativa riformatrice, incentivando così un continuo palleggio tra i due dicasteri (Mef e Pa). Se Delrio annunciava norme chiare già in legge di stabilità, Madia finora sul tema è intervenuta poche volte in pubblico, dando l’idea di un work (molto) in progress: parlò di “riduzione delle municipalizzate” al punto 36 (su 44) della lettera inviata in aprile a tutti i dipendenti della Pa; poi in una recente intervista al Messaggero ha annunciato un “Testo unico” sulle partecipate in arrivo il prossimo anno.

Nella maggioranza dicono che fino a oggi tra i “frenatori” bisogna annoverare proprio l’ipercinetico Renzi, come dimostra la sorte dell’emendamento Lanzillotta-Chiavaroli (di due partiti della maggioranza, Scelta civica e Ncd) che almeno introduceva sanzioni per gli enti locali che non dismettono le partecipate inutili, emendamento cassato a notte fonda dal governo (cioè dal Pd). Il “partito dei sindaci”, con le sue ramificazioni societarie, ha ancora uninfluenza sull’ex primo cittadino di Firenze; visto che Renzi per mesi non ha escluso elezioni nella primavera 2015, finora ha preferito accarezzare quel partito nel verso giusto. D’adesso in poi si cambia?

Basta illusioni

Basta illusioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ci risiamo. Ancora una volta chiudiamo un anno colmo di promesse – profuse a piene mani 12 mesi fa e reiterate fino all’inizio dell’autunno, quando è stato chiaro a chi non aveva voluto vedere la realtà che anche il 2014 avrebbe chiuso con il segno meno davanti – con la sola certezza di aver buttato l’ennesima occasione. Ancora una volta, la realtà dei fatti è peggiore di ogni previsione, bruciando cosi, oltre alla ricchezza, gli ultimi residui di fiducia nella ripresa, individuale e collettiva. Ma, come al solito prima di Natale e Capodanno, ci viene raccontato, proprio mentre rotoliamo senza freni nel declino, che l’anno successivo sara finalmente quello della svolta. Già, ma che credibilità può avere una simile asserzione se il gioco del posticipo all’anno successivo dell’uscita dalla recessione fa a pugni con un consuntivo di 17 trimestri, sui 28 trascorsi da inizio 2008, di pil in caduta libera?

E sì, perché sono anni che incede la litania di un imminente e prossimo ritorno agli antichi fasti: “I ristoranti sono pieni”, ha ripetuto alla noia Berlusconi; “l’Italia sta meglio degli altri”, sosteneva saccente Tremonti per tutto il periodo che, dal 2001, ha fatto il ministro dell’Economia; “l’anno prossimo arriverà la crescita”, vaticinava Monti a dicembre 2012. E se Letta vedeva “la luce in fondo al tunnel”, Renzi ha subito twittato su #lasvoltabuona. Ecco, non so se per imperizia o malafede – temo sia la prima delle due cause, il che rende più grave la cosa – ma avevano tutti torto marcio, con l’ulteriore e grave responsabilità di aver mentito agli italiani, millantando inesistenti riprese dietro l’angolo, Così, anche questo Natale sotto l’albero troviamo sia la recessione – i dati più freschi che lo certificano sono quelli di Confindustria, secondo cui chiuderemo il 2014 con un calo del pil dello 0,5 per cento e la disoccupazione (se si considera la cassa integrazione) al 14,2 per cento, con 8,6 milioni di persone a cui manca totalmente o parzialmente il lavoro – sia la garanzia che nel 2015 s’invertirà la tendenza. Le indicazioni sono prudenti – almeno questo – ma ci assicurano che già nel primo trimestre del nuovo anno registreremo un +0,2 per cento, che poi si consoliderà in un +0,5 a fine 2015, per arrivare a fine 2016 a +1,1. E comunque un po’ tutti fanno previsioni positive: Fmi +0,8 per cento, Ocse +0,2 per cento, Ue +0,6 per cento, Moody’s +0,5, Fitch +0,6,

Víene da chiedere: su che si basano? Ma soprattutto viene da dire che se anche fosse, ci sarebbe ben poco da “stare sereni”. Anzi, suonano sarcastiche le previsioni di 12 mesi prima della stessa Confindustria, quando si ipotizzava una crescita dello 0,7 per cento per il 2014 e dell’1,2 per il 2015. Come anche quelle di fine 2012, quando si annunciava la ripresa alla fine di un 2013 chiuso poi con un triste -1,9 per cento. Ma non è solo colpa dei calcoli di Confindustria se ai tanti annunci dei governi di centrodestra, alle slide di quelli di centrosinistra o all’ottimismo di maniera dei tecnici è poi seguito solo il timoroso immobilismo della politica e la perenne caduta della nostra economia. Le previsioni le hanno sovrastimate tutti. Per esempio, se un anno fa la Ue prevedeva per l’Italia +0,7 per cento nel 2014, ora stima -0,3. E se l’Ocse scommetteva su un +0,6 per cento nel 2014 e +1,4 nel 2015, oggi rispettivamente -0,4 e +0,2 per cento. E non è un caso che tra tanti numeri il più positivo (Bankitalia, +1,3 per cento) sia anche il più lontano nel tempo. Ma le cantonate peggiori, ça va sans dire, sono state quelle dei governi. Letta scrisse che quest’anno avremmo guadagnato un punto di pil (e 1,7 nel 2015, bum!), Monti azzardò l’1,3, la coppia (scoppia) Berlusconi-Tremonti addirittura l’1,6, mentre lo stesso Renzi, solo qualche mese fa, ipotizzò lo 0,8.

Purtroppo questa abitudine degli esecutivi di annunciare rose che non fìoriranno, oltre a mistificare la realtà, esclude una vera presa di coscienza della realtà e ogni possibilità di cogliere le occasioni che si presentano, che non mancano ora come non sono mancate in passato. Dopo il flusso positivo della prima metà del 2014 dovuto alla favorevole congiuntura internazionale e a un’apertura di credito al governo Renzi, i capitali stranieri sono ora tornati a scappare dall’Italia (saldo negativo di 30,3 miliardi ad agosto e di 37 a settembre) e non basteranno le rassicurazioni di Padoan rivolte in un seminario a porte chiuse a decine di grandi investitori internazionali.

Adesso, però, contrariamente agli anni scorsi, c’è da sfruttare una congerie di fattori favorevoli. Prima di tutto il dimezzamento del prezzo del petrolio, che secondo Confindustria potrebbe generare un risparmio di 14 miliardi annui e 3 decimi di punto sul pil 2015 e mezzo punto nel 2016, Poi il cambio dell’euro sul dollaro (dall’1,38 di gennaio all’1,22 odierno, -11 per cento) che ha già spinto l’export extra-europeo (+6,2 miliardi nel 2014, una performance che non si vedeva dal 1993). Quindi i tassi d’interesse, mai così bassi e destinati a rimanere tali (salvo impennate dello spread per ragioni politiche). Nel 2014 il combinato disposto di questi tre fattori ha portato vantaggi esigui rispetto alle potenzialità. Ora tocca a noi metterli a frutto. Come? Una cosa è sicura: evitare di avere già il risultato in tasca. Tanti auguri e arrivederci al 2015.

Il diluvio fiscale

Il diluvio fiscale

Il Foglio

Ieri proprietari e inquilini hanno pagato la seconda rata dell’Imu sulle seconde case e sugli immobili in affitto (o sfitti ma abitabili) e la Tasi sull’abitazione principale. Se hanno la partita Iva hanno pagato la rata in scadenza, mentre entro il 29 dicembre verseranno l’acconto per il periodo seguente. Da poco hanno pagato il conguaglio dell’Irpef. Insomma sono tempi di diluvio fiscale. Il ministero dell’Economia si attende un gettito di 23,7 miliardi per quest’anno derivante soltanto dalle tasse sugli immobili (Imu più Tasi). Quest’ultima è la porzione più onerosa perché si aggiunge a una imposta personale sul reddito che ha una pressione che si colloca al vertice di quelle della zona euro.

In questo quadro, c’è quantomeno la necessità di rendere semplice, chiaro e certo l’onere tributario. Attualmente fra Imu e Tasi ci sono quattro pagamenti semestrali, due di acconto e due a conguaglio, con aliquote incerte e complicate. L’introduzione di una local tax, con l’accorpamento di Imu e Tasi entro il 2015, è stata rimandata: la legge di stabilità ha congelato le forchette delle aliquote dei due tributi, ma ciò non scongiura nuovi aumenti. Infatti potranno deciderli i Comuni che non hanno ancora adottato le aliquote massime. La crisi dell’industria delle costruzioni deriva in buona parte dall’aumento della pressione fiscale immobiliare in un periodo già critico. Il gettito che inizialmente doveva essere destinato alla riduzione del disavanzo fiscale del bilancio pubblico complessivo ora è tutto destinato alla finanza municipale. E ciò concorre spesso a sostenere una spesa comunale troppo elevata in relazione ai servizi resi quotidianamente ai cittadini.