il foglio

Esecutivo Spartacus

Esecutivo Spartacus

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Pare che nella famosa visita che Renzi ha fatto questa estate a Draghi nella sua casa di campagna in Umbria, il presidente della Bce abbia evocato la “Troika” (che poi tale non è più perché ormai ha perso per strada il Fondo monetario), descrivendone l’intervento come un aiuto di cui il primo ad avvantaggiarsi sarebbe stato il governo, e che il premier sia andato su tutte le furie, replicando con un gladiatorio “mai e poi mai, dovrete passare sul mio cadavere”. L’episodio, verosimile se non del tutto vero, aiuta, molto più di tante dietrologie correnti, a capire il dipanarsi della trama del film cui stiamo assistendo, e che potremmo titolare “Renzi contro il resto del mondo”. Specie se si tralascia per un momento il gioco più diffuso del momento, l’ esegesi del fondo di De Bortoli – in cui confluiscono troppi elementi di carattere personale perché aiuti a “leggere” i rapporti di Renzi con “i poteri”, nazionali e non – e si guarda con attenzione, invece, quanto scrive Wolfgang Munchau, che sul Financial Times è firma che riflette il pensiero dell’asse Francoforte-Berlino, molto più solida di quanto certa pubblicistica provinciale nostrana descriva.

La tesi è lapidaria: oggi per l’Europa la minaccia più grande si chiama Italia, che ha una situazione economica talmente insostenibile che se la crescita non dovesse ripartire andrà verso il default per debito eccessivo, con l’uscita dall’Eurozona e la fine dell’euro stesso. Da qui la pressione che Draghi ha esercitato, anche per conto della Merkel, su Renzi: prima con le buone (il discorso vis-à-vis), poi con le cattive (i messaggi mediatici). Naturalmente si può sostenere che trattasi di pressioni indebite – ma in questo caso si dimentica che a Draghi viene continuamente chiesto di andare oltre il confine delle sue responsabilità formali, e che comunque se siamo ancora vivi lo si deve a lui – così come si può ricorrere alla dietrologia da quattro soldi sulle sue presunte ambizioni per Palazzo Chigi (escluderei) o per il Quirinale (già più plausibile) per evocare “trame occulte”.

Sta di fatto che i “poteri vari e avariati”, da quelli un tempo forti alla magistratura, hanno sentito odor di scontro, e hanno fatto due più due: se la Bce e la Germania vogliono commissariare Renzi o addirittura farlo fuori, sarà bene schierarsi subito dalla parte del probabile vincitore. Reazione che si potrebbe velocemente archiviare come velleitaria, visto che Renzi il consenso ce l’ha e, finora, neppure il duo recessione-deflazione l’ha eroso, se non fosse che le cose stanno proprio come dice Munchau: l’economia italiana non cresce da un ventennio, e la recessione degli ultimi anni, annullando gli effetti di politiche di bilancio più rigorose di quelle di molti altri partner europei, ha determinato una crescita lenta ma irreversibile del debito pubblico; e ora, il prolungarsi della stagnazione, accompagnata da deflazione prolungata, rischia di rendere insostenibile, politicamente prima ancora che finanziariamente, il debito. In conclusione: o il governo trova la chiave della ripresa, o ci schiantiamo, e con noi l’eurosistema.

Ma qui scatta la contraddizione a cui siamo impigliati: Renzi non ha certo la responsabilità di quel disastro chiamato Seconda Repubblica, e fa bene a diffidare della classe dirigente (oltre che del ceto politico) che lo ha prodotto. Ma nello stesso tempo mostra limiti evidenti nell’affrontare i problemi del paese, o meglio nel tradurre in atti di governo – che non sono solo le leggi approvate – le buone e coraggiose intenzioni che mostra di avere. Inoltre, la scelta di affidarsi alle sue indubbie capacità mediatiche per avere un rapporto diretto con i cittadini-elettori saltando i rapporti con qualsivoglia rappresentanza degli interessi – modello Berlusconi+Marchionne” – e la strategia “tutti nemici, tranne il popolo” che ha adottato, fanno sì che scivoli con facilità nel populismo, il che non aiuta ad affrontare con la giusta ampiezza programmatica gli intricatissimi nodi del declino italiano.

Viceversa, chi imputa a Renzi di “parlare e non fare” o di essere capace solo di “rottamare e non costruire”, pur avendo non poche frecce al proprio arco, nella stragrande maggioranza dei casi non ha alcuna credibilità, avendo contribuito in modo diretto e significativo al disastro. Inoltre, chi intende mettere Renzi sul banco degli imputati non ha uno straccio di idea di come sostituirlo – né uomini né politiche all’altezza della sfida – e non vuole farsi una ragione del fatto che gli italiani indietro non vogliono più tornare, giusto o sbagliato che sia. Ecco, è questo “cane che si morde la coda” il problema del potere in Italia, oggi. Uscirne non è facile. Ma il modo sicuro per non riuscirci è far finta che le cose stiano diversamente.

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Enrico Nuzzo – Il Foglio

Agguantare la crescita, uscire dall’attuale fase di stagnazione, superare la crisi, sono le formule, nei dibattiti a tutti i livelli, veicolate al popolo degli elettori. E su questi obiettivi si tarano interventi, compresi i tagli di spesa pubblica, sulla cui efficacia il cittadino non può che sperare, pur se non più con straboccante fiducia. È trascorso molto tempo dalle prime avvisaglie di segnali negativi del trend economico e ripetuti sono stati gli interventi di contrasto messi in campo dai vari governi, con magri risultati; robusti i sacrifici ripetutamente richiesti alla comunità, ancora in attesa dei segnali di uscita dalla situazione in cui il paese è precipitato. Moniti e consigli da parte delle stesse istituzioni internazionali sulle scelte, per invertire la rotta, sono di comune cognizione. Ineludibili, si sottolinea, per provare a invertire la descritta tendenza negativa, le riforme del mercato del lavoro, del fisco, della giustizia, e cosi via. Misure di politica monetaria, anche appropriate, intanto si mettono sul tavolo.

In sintesi, qualcosa si muove, pur se ancora non si intravede un piano organico di misure complessive da tradurre in azioni concrete, in un tempo necessariamente non breve. E non sempre ci si preoccupa di prestare attenzione al complesso universo dei lacci e ai lacciuoli all’opera, capaci di paralizzarne l’efficacia. Gli interventi per incidere sull’andamento del ciclo economico non raggiungono l’obiettivo per il semplice fatto di essere varati. È invece necessario che il comportamento degli operatori e dei cittadini siano tali da assecondare le finalità che li hanno ispirati, spazzando via – e si tratta di precondizioni ineliminabili – quanto costituisce vero e proprio fattore di decrescita. Degli esempi.

Non stimola la ripresa la semplice messa a disposizione di liquidità per rivitalizzare il mercato del credito, se poi drenata dalle banche che, per parte loro, continuano a ignorare le richieste di prestiti di imprese e famiglie. Le misure per immettere danaro in circolazione, convenzionali o meno che siano, vanno sostenute con consapevoli regole applicative (diverse da quella del tasso negativo sui depositi, perché non del tutto efficace, considerati gli attuali e non più stringenti vincoli tra Banca centrale e aziende di credito). E tanto per evitare che le stesse banche trovino modo per parcheggiare la liquidità ricevuta al loro interno e utilizzarla esclusivamente per loro convenienze e valutazioni. Come agire? Con un’azione coerente di vigilanza orientata a verificare, nello specifico, da subito e in itinere, se la suddetta liquidità viene concretamente fatta confluire nel circuito produttivo, in coerenza con le misure che ne hanno ispirata la messa a disposizione. In ipotesi di persistente disapplicazione delle quali misure (nel trimestre, e/o un altro lasso di tempo ritenuto idoneo), pare appropriato pretendere dall’istituto che non destina quelle somme all’erogazione di prestiti, almeno un tasso di interesse pari, ad esempio, a quello medio (spread compreso) praticato alla sua clientela, privandola, per questa via, del vantaggio conseguito dalla distrazione della liquidità allo scopo cui era destinata.

Sul versante fiscale non aiuta, di certo, a stimolare la ripresa la sbornia talvolta eccessiva dei controlli a tutto campo a cui il cittadino è assoggettato. Sono di dominio pubblico le diffuse richieste di informazioni “a tappeto” sui conti correnti dei singoli da parte dell’Agenzia delle entrate; insistente l’attenzione del fisco sulle spese sostenute all’uscita di un negozio, o a seguito della compera di un’abitazione, con conseguente timore di accertamento sintetico, eccetera. Controlli asfissianti e invasivi, che muovono da presunzione di evasione e articolati anche su impropri giochi di prova e di inversioni di oneri di prova, fanno crollare, da noi, la propensione alla spesa. Gruppi sempre più numerosi di persone, per acquisti voluttuari, prediligono altre mete europee (Londra, Parigi e via dicendo) ben liete di ospitare i consumatori italiani. Assolutamente non trascurabile il numero di coloro che, quando non li dirottano all’estero, preferiscono tenere “parcheggiati” i risparmi, per evitare problemi col fisco, piuttosto che investirli, a tanto contribuendo anche l’attuale scarsa remuneratività di mercato.

Come non ravvisare, allora, nella descritta condotta dei pubblici poteri, un fattore di decrescita? E non si discorra di controlli necessari per combattere l’evasione – che pure va fatta, senza aggettivi, e in maniera efficace – per giustificare il progressivo scivolamento del paese in stato di polizia fiscale che, a parte altre conseguenze, con siffatta condotta, paralizza i consumi e ostacola la crescita, con sistematicità e senza tregua. Non da meno è parte del mondo politico-istituzionale, a vari livelli. I recenti casi di trasferimenti all’estero, fatti o da farsi, di sede di società (Fiat, Lottomatica) e quelli più risalenti di aziende nella vicina Svizzera e/o nei paesi dell’est, dovrebbero avere aperto gli occhi sull’indifferibilità di alcune misure legislative da adottare.

La competizione fiscale tra stati, dell’Unione europea o meno, è una realtà con cui occorre misurarsi. La libertà delle imprese di scegliere paesi fiscalmente più ospitali è garantita, nello stesso spazio europeo, dal principio della libertà di stabilimento e da quello della libera circolazione dei capitali. Non è mantenendo gli attuali livelli di aliquota di tassazione di gruppi e di imprese che si frena la migrazione delle strutture produttive verso la piazza londinese o quella fiamminga. E non occorre avere antenne particolarmente sensibili per avvertire la propensione di altri a seguire gli esempi sopra ricordati. Allo stesso modo, non sono di certo i vincoli burocratici e le rigidità delle scelte di governo, centrale o locali che siano, a invogliare gli stranieri, che ancora ci credono, a investire in Italia. A un gruppo estero – è uno dei tanti casi – pronto a dar vita a un’importante iniziativa, con significative ricadute occupazionali, è stato fatto presente che doveva costruire a proprie spese anche le strade di collegamento dell’impianto con le principali arterie dei trasporti. Alla disponibilità dimostrata a sobbarcarsi siffatto ulteriore onere in cambio di benefici compensativi (riduzioni di imposte, eccetera) è stata opposta per lungo tempo l’impossibilità di aderirvi, per carenza di previsioni di leggi in proposito. L’investimento è stato realizzato. Non in Italia.

Il problema è un altro

Il problema è un altro

Il Foglio

Quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori “è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese”. Lo ha detto due giorni fa il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, con discreta eco sulla carta stampata. D’altronde un imprenditore che dica che c’è “ben altro da fare”, proprio quando si vede all’orizzonte un governo finalmente pronto a cambiare una norma vecchia di 44 anni, in Italia lo troviamo sempre. Ieri, per esempio la Cgil rilanciava prontamente su Twitter l’intervista rilasciata a Ballarò da un “imprenditore” che sosteneva: “A noi dell’articolo 18 non interessa niente”. Lo stesso “imprenditore”, in realtà ai vertici di una cooperativa, che trenta secondi prima spiegava cosa s’attende dallo stato: “Meno tasse e più incentivi, più risorse”. Perché no? A Napoli hanno appena scoperto la più grande stamperia d’Europa di banconote false. Qualcuno ne metterà su un’altra e allora potremo realizzare l’originale proposta: meno entrate per lo stato e, allo stesso tempo, più uscite.

Ma De Benedetti non è un imprenditore qualunque. Eppure insiste: “L’articolo 18 è un problema minore”. Nell’articolo 18, per 44 anni, si è cristalizzata una legge dell’economia che vige soltanto in Italia: sui licenziamenti individuali, per ragioni economiche o disciplinari che sia, è più titolato a decidere un magistrato che un datore di lavoro. Problema minore, quello dei licenziamenti, per chi per esempio, come De Benedetti, si è dovuto sudare contratti e accordi con un carrozzone statale e politicizzato come l’Iri. Problema minore quando gli organici si tagliano in grandi quantità, come fu per Olivetti, e addirittura si è nella posizione di intavolare trattative (raccontate anche su Rep. degli anni 90) per paracadutare i licenziati nel settore pubblico. Problema minore, quello dell’articolo 18, se la Sorgenia può avvalersi di sussidi pubblici (per carità, in buona compagnia). Problema minore, quello dell’articolo 18, se tanto per i propri dipendenti c’è sempre la cassa integrazione e per l’indotto c’è perfino quella in deroga. Poco importa se il Welfare attuale, tutt’altro che universale, è figlio diretto della divisione dei lavoratori italiani tra insider garantiti e outsider senza protezioni. Poco importa se 90 assunti su 100, nel 2013, l’articolo 18 nemmeno l’hanno visto, spesso vittime di quella che il giuslavorista chiama “fuga dal diritto del lavoro”. La tessera numero uno del (vecchio) Pd vuole parlar d’altro. E purtroppo in Italia non è il solo.

Stavolta si deve passare, sul lavoro schizzò il sangue dell’ideologia: basta!

Stavolta si deve passare, sul lavoro schizzò il sangue dell’ideologia: basta!

Giuliano Ferrara – Il Foglio

Lo scontro con i sindacati e con le sinistre classiste e d’apparato è la regola dei governi. Almeno dopo la fine del regime democristiano, che sapeva come fare: rinviava, faceva debito, garantiva la democrazia dell’indecisionismo, e prosperava su quel nulla opulento e affidato all’estro della società (una soluzione, intendiamoci, ma autarchica, incompatibile con la concorrenza e i mercati aperti nel mondo, incompatibile con la moneta unica, insomma fuori della storia). Craxi sfidò la Cgil e fu sfidato dai sindacati, da pezzi ingenti di padronato e di establishment politico, sulla scala mobile, oltre che dalle Brigate rosse molto impegnate nella questione del diritto del lavoro e del salario (Ezio Tarantelli). Berlusconi fece il patto per l’Italia con Cisl e Uil, e fu tramortito dalla diserzione dei padroncini all’italiana, i grandi sculettatori opportunisti che vanno sempre dietro a chi pensano possa vincere e distribuire piccoli vantaggi, e dalla battaglia d’arresto di Cofferati nel Circo Massimo mediatico-sindacale, e dalle Brigate rosse sopravvissute agli anni Ottanta (Marco Biagi, oltre alle molotov per quel pover’uomo di Pezzotta della Cisl eccetera). D’Alema ci provicchiò, ma essendo piccino e parvenu, fu un coito interrotto prima che si passasse dai preliminari all’atto, e comunque ci fu chi pagò per lui (Massimo D’Antona).

È la volta di Renzi. Non pensavano a questa sorpresa. Uno scout di trent’anni. Uno con una sua squadra postideologica. Il nemico delle fregnacce d’antan. Il giovane uomo di governo fattosi da sé senza troppa malizia, solo con quel tanto di expertise politica, che gli appartiene, necessaria a rottamare le vecchie cariatidi che furono protagoniste delle antiche battaglie di retroguardia. I magistrati lo puntano, come al solito via famigliari e amici, e tutto il resto del mondo di ieri, quello torvo, gli fa contro il comizio demagogico. Ma stavolta trovano duro. Ha il 41 per cento alle europee. Berlusconi lo appoggia. Era anche lui un osso duro, ma era il capo di una coalizione un po’ merdosa, esposto al tradimento, alla cultura democristiana del suo consigliere politico, il grandissimo Gianni Letta. Renzi invece un Letta piccolissimo l’ha licenziato, senza nemmeno aver ancora riformato l’articolo 18, ed è dunque meglio “posizionato”, come si dice tra noi commesse dell’informazione. Ce la farà? Non ce la farà? Monti fece retromarcia, e la brava Fornero non dovrebbe ora uscire dal magnifico riserbo in cui è entrata dopo che le imposero la rima baciata con Cimitero. Non importa se Renzi ce la possa fare o no, importa che combatta a viso aperto, e che molto dantesco sangue si sparga per l’Arbia. Quelli che ci hanno sempre preso da dietro, e che ce l’hanno messo in quel posto a tradimento, stavolta devono pagare il fio, vendetta, tremenda vendetta, della loro malaccorta e fessa gigionaggine di difensori dei lavoratori.

Renzi ai lavoratori dipendenti ha dato il più forte aumento contrattuale degli ultimi trent’anni: il beneficio fiscale diretto degli 80 euro. E la Camusso deve ancora imparare il mestiere, mentre Landini deve finirla di ammannire in televisione i suoi comiziacci, si guardi le Iene dove si dimostra che oltre a evasori, esportatori di capitali, imprenditori pigri che non investono, politici incapaci di pianificazione industriale, ci sono a carico dei lavoratori parecchi sindacalisti, spesso della pubblica amministrazione ma non solo, che si inventano le pensioni integrative privilegiate e lucrano su lavoro mai lavorato a spese nostre, fiscalità generale e contributi onestamente versati. Si occupi della società, visto che di economia e mercati capisce un tubo vuoto. E date il sindacato alla giovane Sorrentino, una che (mi pare di aver capito) sa di che cosa parla, non tira fuori lo spettro della Thatcher, benedetta rivoluzionaria che la Camusso le sue realizzazioni per il popolo e il ceto medio e i pensionati e i lavoratori se le sogna, allo scopo di colpire con un colpo basso il capo del Pd e premier del governo italiano.

Giù le mani dai nazareni! Insisto. La Confindustria si dia una mossa, oppure facciamo manifestazioni di populazzo liberalmercatista sotto le sue sedi, mobilitiamo i giovani precari non contro lo stato, o il governo, che non c’entrano, ma contro il sistema grandi-imprese-grandi-banche che li opprime con la complicità dei sindacati e dei direttori di giornale e giornalisti che lavorano per loro. Fanculo, stavolta si deve passare. Basta. Non voglio morire di sindacalese e di noia mortale, e il paese merita di vivere creando convenienza per l’assunzione, per il lavoro vero, per quel che si può ottenere da un paese così scassato come questo, e non da Renzi.

7 a 0 per Renzi

7 a 0 per Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

«Uno scalpo per i falchi della Ue». Susanna Camusso credeva di colpire al cuore Renzi sottolineando che l’abolizione dell’articolo 18 rappresenta un prezzo pagato dal governo alle aspettative di Ue, Bce e Germania, ma in realtà gli ha fatto un grande favore. Sì, l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro, che di fatto supera la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa – per cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio – e più in generale il “jobs act” che consente al governo di scrivere un testo unico semplificato che “pensiona” il vecchio (e superato) Statuto dei lavoratori, sono riforme (tardive) che servono al paese ma, soprattutto, rappresentano agli occhi dell’Europa quella certificazione di credibilità politica che serve al premier per evitare che gli venga chiesta entro fine anno una manovra correttiva dei conti.

Non che la riforma del lavoro comporti riduzioni del deficit, ma proprio perché il governo riuscirà, forse, a rimanere sotto il 3 per cento (diciamo 2,99 per cento per capirci) ma certo non entro quel 2.6 per cento per il quale era stato assunto un impegno formale certificato nel Def – sosterremo la tesi che la recessione ci esenta da quella riduzione – ecco che Renzi e Padoan cercheranno di barattare l’una cosa con l’altra. Della serie: vedete che stiamo facendo sul serio realizzando una riforma del lavoro di cui si parla inutilmente da 15 anni e che è carica di significati politici. Ora, questa è la migliore delle garanzie che proseguiremo con il risanamento finanziario e le riforme, perciò non penalizzateci proprio adesso che stiamo facendo questo sforzo. Ecco perché gli strepiti dei sindacati – a proposito, dispiace vedere che nel coro ci siano anche quelli moderati – fanno il gioco del governo, e tanto più i decibel sono alti, tanto maggiore è il valore politico della riforma agli occhi di Bruxelles, Berlino e Francoforte.

Non solo. Siccome nel corteo di chi si straccia le vesti per il tabù infranto dell’articolo 18 ci sono i diversi gruppi interni al Pd – più o meno gli stessi che in questi giorni stanno impedendo la fumata bianca per la Corte costituzionale – anche a costoro non dovrebbe essere difficile capire che il loro ostruzionismo è un grande regalo a Renzi. Perché se è vero, come molti dicono e come è lecito e sensato pensare, che il premier intende andare al più presto alle elezioni anticipate (marzo), ecco che la riforma bloccata dai rigurgiti ideologici della sinistra old style rappresenta la più ghiotta delle occasioni per far saltare il banco e andare alle urne, per di più potendo dire agli italiani, e in particolare a quelli moderati che hanno assicurato a Renzi il balzo al 41 per cento alle scorse europee, che la sua testa è stata fatta saltare dai comunisti e dai rottamati contrari ai suoi progetti di modernizzazione del paese. Viceversa, se la riforma passa e Renzi prosegue nel suo percorso di “mille giorni” – magari anche perché Napolitano gli preclude la strada delle elezioni anticipate, eventualmente dimettendosi a inizio anno (dopo la fine del semestre europeo a presidenza italiana) – ecco che ugualmente questo governo segnerebbe un punto pesante a suo favore, sia per aver dimostrato in Europa che è credibile sia perché metterebbe a tacere, almeno in parte, coloro che in questi mesi si sono lamentati dei tanti annunci e delle poche decisioni prese e portate fino in fondo.

Insomma, per come si è messa la partita, Renzi, piaccia o non piaccia, vince 7-0 come l’Inter con il Sassuolo. Con un doppio warning per lui, però. Entrambi in nome degli interessi generali (cioè i nostri). Il primo è: occhio alle elezioni anticipate. Anche ammesso e non concesso) che il Quirinale dia il via libera, e pur partendo dal presupposto, fondato, che Renzi le vincerebbe alla grande, esse rappresenterebbero un ulteriore rinvio di quella svolta in economia di cui l’Italia ha assoluto bisogno e che, alla fine, sarebbe la vera garanzia di successo per l’ambizione politica di Renzi. Il secondo “avviso di pericolo” è: se la riforma del lavoro passa e il governo prosegue – cioè se elezioni anticipate non ci sono – occhio che non basta abolire l’articolo 18 per far ripartire l’economia. Intanto perché la situazione è così deteriorata che il rilancio non puo che passare da un concorso di circostanze, anche abbastanza ampio. Per il mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe superare anche lo strumento della cassa integrazione – che salva posti di lavoro nella maggior parte dei casi non piu esistenti – e arrivare a una forma di salario di sostegno per i disoccupati che consenta una ristrutturazione del sistema produttivo più profonda e più virtuosa di quella prodotta dalla crisi. E poi perché, nello specifico, l’abolizione dei vincoli contrattuali in uscita ha più un valore simbolico che pratico. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Cgia di Mestre, l’articolo 18 interessa solo il 2,4 per cento delle aziende (anche se il 57,6 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato), perche solo 105.500 di esse, su circa 4.426.000 in totale, hanno più di 15 addetti.

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

Il Foglio

In Viale dell’Astronomia, la sede di Confindustria, non si sta preparando alcuna campagna o una qualsiasi iniziativa pubblica e condivisa a sostegno della riforma renziana del mercato del lavoro che invece sta motivando la mobilitazione dei sindacati. A invocare manifestazioni di piazza, e si vedrà con che modalità – magari solo con dei gazebo dai quali distribuire materiale informativo sulle “vertenze e i problemi del lavoro” – sono la Cgil di Susanna Camusso e la Cisl di Raffaele Bonanni parallelamente alla Fiom di Maurizio Landini. Per quanto le sigle sindacali siano affette dalla “annuncite” quando si tratta di proclamare uno sciopero generale (“ne annunciano a prescindere”, ha detto Renzi) in questi giorni stanno confinando il dibattito pubblico alla sola difesa dell”articolo 18. Con l’idea di far passare un messaggio preciso: come si può con il tasso di disoccupazione al 12,6 per cento fare così a mani basse strage di lavoratori? Quando invece si tratterrebbe di incentivare la flessibilità del mercato e, infine, adottare quella linea tracciata dall’ad di Fiat-Chrysler nel 2011 per favorire la prevalenza dei contratti aziendali su quelli nazionali, senza i quali sindacati e Confindustria non avrebbero ragion d’essere.

In verità non sono mancate in questi giorni le prese di posizione confindustriali sul punto più controverso dello Statuto dei lavoratori e sulla necessità di trasformare un mercato del lavoro che ha ingessato imprese e investimenti: dichiarazioni a sostegno sono arrivate dal direttore generale dell’Associazione, Marcella Panucci, e dal presidente di Federmeccanica, una delle strutture principali dell’associazione, Fabio Storchi (“l’articolo 18, come l’insieme delle nostre regole sul mercato del lavoro, non è più ammesso dalla realtà globale in cui le aziende si muovono”). Ma al netto di sparute interviste e dell’apertura di credito piuttosto netta del quotidiano confidustriale di ieri (“Renzi ha rotto gli indugi sull’ultimo tabù della sinistra e sul mondo del lavoro”) non s’ode una voce stentorea o il rumore dei passi di imprenditori marcianti.

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri mattina ha incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, continua anche giustamente a criticare il “pessimismo che si coglie da tante parti”, a denunciare tutti gli ostacoli esterni all’attività imprenditoriale sintonizzandosi con la platea che si trova innanzi (ieri il problema era il divario digitale esposto a un convegno sulle telecomunicazioni) e a sottolineare come l’Italia “non è un ecosistema favorevole alle imprese, agli investimenti e al rischio privato” e “ne abbiamo controprove quotidiane”, ha detto. Questo forse non basta ora che si prepara una rivoluzione per un paese abituato al consociativismo e che necessita di mettersi in linea non tanto con l’Europa – dove pure il lavoro è al centro delle esortazioni della Banca centrale europea e della Commissione, oltre che del Fondo monetario – quanto rispetto ai concorrenti internazionali, dentro e fuori dall’area Ocse.

Quando nel 2002 la Germania era in recessione e rischiava la procedura di infrazione per deficit eccessivo, gli industriali diedero un contributo decisivo attraverso una campagna pubblica ad ampio spettro per invocare riforme improntante alla flessibilità dell’impiego, quelle che poi il cancelliere socialista Gerhard Schröder affidò alla regia dell’allora capo della Volkswagen Peter Hartz. Da Viale dell’Astronomia si è spesso dato prova di sapere curvare il dibattito con tambureggianti iniziative d’impatto. Alcune discutibili (il “Fate presto” del Sole 24 Ore nel 2011 a governo Berlusconi morente), altre capaci di motivare la mobilitazione degli imprenditori “innamorati dell`Italia” (nel febbraio del 2014). Forse ora varrebbe la pena di fare altrettanto.

Rottamare Cernobbio

Rottamare Cernobbio

Enrico Cisnetto – Il Foglio

C’è una relazione, e quale, tra il benservito di Marchionne a Montezemolo e quello di Del Vecchio a Guerra, con l’ostentato distacco di Renzi dai cosiddetti “poteri forti”, manifestato platealmente attraverso la scelta di non calcare le scene di Cernobbio, e dalle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, sindacati e Confindustria in testa? Direttamente no. La vicenda Ferrari è un regolamento di conti personali, in sospeso da molto tempo. Quello che si è svolto in casa Luxottica appartiene a un fenomeno in atto da qualche tempo nel capitalismo italiano e che potremmo definire la rivincita dei padroni sui manager, i primi stanchi di non comandare più come un tempo e i secondi rei di aver esagerato, nell’esercizio del potere aziendale, nell’esposizione mediatica e nel darsi gli emolumenti. Mentre quella di Renzi è una scelta politica con finalità di comunicazione punto e basta. Insomma, si tratta di episodi non solo slegati tra loro, ma pure di bassa cucina, privi di una cornice strategica in cui collocarli.

In realtà un sottile filo rosso che li lega c’è. Si tratta, infatti, di convergenti segnali del disfacimento del vecchio sistema paese, quell’insieme di ruoli, uomini, prassi, relazioni e abitudini, che hanno costituito l’intelaiatura su cui in Italia si è retta l’organizzazione della politica, dell’economia e della stessa società. Quando si dice che si è “chiusa un’epoca” parlando dei tanti anni in cui Montezemolo è stato a vario titolo un protagonista della galassia Fiat, in realtà si indica la “fine di un mondo” in un’accezione ben più larga del perimetro, pur significativo, dell’impero Agnelli. Qualcuno, addirittura, dice che è la “fine del mondo”: chi in chiave pessimistico-nostalgica, chi al contrario in chiave positiva, aggiungendoci un “finalmente”. In tutti i casi, si tratta di segnali inequivocabili del fatto che nulla sarà più come prima.

Chi legge da tempo le mie considerazioni, ora starà probabilmente pensando che sto per produrmi in un veemente j’accuse sul declino italiano, magari accompagnato da un bel “ve l’avevo detto”. Spiace deludere (forse anche me stesso), ma non è così. Sia chiaro: l’ltalia non solo è in pieno e prolungato declino, ma è entrata in una pericolosa fase di decadenza. Quella che con un ottimo articolo Fausto Bertinotti ha descritto ieri sul Garantista. Solo che io aggiungo: del vecchio sistema, ormai consunto, abbiamo comunque bisogno di liberarci. Non ha torto Renzi quando dice che la classe dirigente del paese ha la responsabilità di averlo portato al disastro, e che prima ce ne liberiamo e prima possiamo tentare di invertire la rotta. Sbaglia a delinirla “quella della Prima Repubblica”, e tanto più sbaglierebbe se intendesse riferirsi al più longevo di quella generazione, ancora in attività. La colpa è principalmente, se non unicamente, di quelli che hanno popolato i vent’anni della Seconda Repubblica, che sono appunto stati gli anni del progressivo e crescente declino. Nella politica come nell’economia, e nella vita civile c culturale. Ma al netto di questo errore, il fatto che Renzi abbia messo in moto la macchina della rottamazione è cosa buona e giusta.

Non è andato a Cernobbio? Ha fatto bene due volte: primo perché è un segnale che va nella direzione del cambiamento, e secondo perché da quel consesso non è mai uscito uno straccio d’idea utile al paese. Il problema, semmai, è un altro, per Renzi come per il capitalismo made in Italy: avere in testa come ricostruire. Non basta buttarsi alle spalle passato e presente, bisogna avere idea di come costruire il futuro. Altrimenti rimangono solo le macerie.

Per esempio: se, giusto o sbagliato che sia, i salotti (o tinelli) buoni, patti di sindacato e i tanti altri strumenti del cosiddetto capitalismo relazionale sono superati e desueti, è inutile accanirsi a difendere quel che ne rimane o versare lacrime di rimpianto auspicando che tornino; serve, invece, prenderne atto e però, nello stesso tempo, rendersi conto che un sistema industriale complesso non può essere semplicemente la somma delle imprese esistenti ma ha bisogno di fare sistema. Sarà un sistema diverso da quello del passato – ormai ridotto a un pollaio di galli spennacchiati che si beccano – ma pur sempre sistema il capitalismo deve fare.

Lo stesso discorso vale per la politica e le istituzioni, come ho scritto in questo spazio venerdì scorso: bene la parte destruens se contemporaneamente c’è quella construens, altrimenti resti sepolto sotto i detriti. Renzi fa bene a non andare a Cernobbio, ma non può cavarsela facendo visita a una fabbrica. Quello è populismo. Deve, invece, auspicare che la nuova classe dirigente di cui c’è bisogno – e quando dico “nuova” non mi riferisco solo all’anagrafe – costruisca delle Cernobbio capaci di far circolare idee, produrre progetti, selezionare persone. C’è bisogno di riprogettare tutto: il sistema politico e istituzionale, le imprese e le loro relazioni, la rappresentanza degli interessi, le dinamiche della vita sociale, la mentalità collettiva. Una sfida immane. Che non può ridursi a un regolamento di conti, per quanto sia necessario e opportuno regolarli.

Statali all’acqua di rose

Statali all’acqua di rose

Il Foglio

I sindacati suonano tamburi di guerra contro il blocco degli aumenti contrattuali nel pubblico impiego dal 2015, annunciato dal ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia. La Cisl ad esempio si allinea all’estremismo corporativo della Cgil di Susanna Camusso, minacciando mobilitazioni e scioperi contro quello che il suo segretario Raffaele Bonanni definisce “uno scandalo”. E si capisce, visto che la confederazione è assai presente tra i dipendenti ministeriali. Né Camusso né Bonanni, peraltro, hanno promosso riti di ringraziamento nei confronti di un governo che (per ora) non ha operato un solo taglio di personale nella Pubblica amministrazione – un taglio alla greca, per dire – né a livello di stipendi né di norme e benefici che sono particolarmente generosi. La stessa legge delega di riforma, istituendo la mobilità, ha voluto limitarla a cinquanta chilometri, escludendo quindi una serie di categorie protette: una mobilità dunque all’acqua di rose, visto che in tutte le metropoli del mondo gli impiegati e i dirigenti pubblici, come quelli privati d’altronde, affrontano spesso spostamenti quotidiani da una città all’altra per andare al lavoro. Per non parlare poi dello psicodramma generato dal dimezzamento dei permessi sindacali: per duemila ministeriali – soprattutto della Cgil – tocca tornare alla scrivania, il che rappresenterebbe nientedimeno che un gravissimo vulnus democratico, come ama ripetere spesso Camusso. Ma soprattutto è stata messa nel cassetto la trasformazione in senso privatistico dei contratti pubblici, l’unica soluzione per indurre le amministrazioni dello Stato a lavorare più e meglio, e anche per eliminare un ingiusto privilegio nei confronti dei dipendenti privati.

Si dirà che anche nello Stato ci sono i precari; ma poi si fanno le tradizionali periodiche infornate, come quella appena garantita agli insegnanti dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Il posto pubblico, insomma, resta a vita e può tranquillamente ignorare la crisi, la globalizzazione, il mercato, oppure la flessibilità. Non solo. Rimane pure economicamente più vantaggioso che nel privato, visto che gli statali che nel 2010 guadagnavano in media 2 mila euro più degli altri lavoratori, oggi, nonostante tutti i blocchi contrattuali (ma percepiscono anche loro il bonus da 80 euro), continuano a superarli considerevolmente, anche di migliaia di euro, in settori come magistratura e forze dell’ordine. Altro che minacciare quotidianamente la calata nelle piazze. Per adesso i nostri sindacalisti hanno poco o quasi nulla di che lamentarsi, dovrebbero piuttosto ringraziare perché gli statali il famoso bisturi renziano non l’hanno visto neppure a distanza, e per questo accendere dei ceri ai loro (molti) santi in paradiso.

Non tentennare sui travet

Non tentennare sui travet

Il Foglio

Gli stipendi degli statali resteranno bloccati anche nel 2015, ha annunciato ieri il governo, a causa delle scarse risorse. Considerato il pianeta a parte su cui hanno vissuto finora i 3,5 milioni di dipendenti della Pubblica amministrazione (non valutabili, non licenziabili, eccetera) rispetto agli altri 20 milioni di lavoratori, non sembra esattamente un dramma. Anzi, la scelta – trapelata nelle scorse settimane – avrebbe necessitato di essere rivendicata apertamente alla luce della situazione attuale. Allo stesso tempo, però, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha confermato che le linee guida della riforma della scuola partiranno con l’assunzione di 150 mila precari, un “piano straordinario” che prevede dal 2016 altre 40mila stabilizzazioni, in quel caso per concorso. Anzi, garantisce, “mai più senza concorso”. Se dunque il progetto verrà mantenuto entreranno in pianta stabile quasi 200mila docenti, senza che siano stati definiti gli organici necessari a formare gli studenti, in quali discipline, con quali obiettivi e costi: risposte che pure sono dovute ai contribuenti e alle famiglie.

Renzi non ha colpa delle centinaia di migliaia di precari che gravano sulla scuola, colpa che ricade sugli esecutivi precedenti. Tutti costretti a piegarsi alla ragione elettorale nonché ai vari tribunali amministrativi (quelli che si vorrebbe ridurre nel numero e nei poteri). In realtà queste imbarcate sono un segno della debolezza di chi le decide: nel 2007 anche Romano Prodi annunciò la stabilizzazione di 150 mila fra insegnanti e personale tecnico, progetto poi bloccato dal centrodestra tra ricorsi e sentenze della magistratura amministrativa. Forse, per nobilitare il bis, Renzi annuncia anche che le retribuzioni non aumenteranno più con gli automatismi ma con valutazioni di merito, che gli insegnanti saranno tenuti alla formazione continua, che entreranno i contributi privati, che si introdurranno le mini-borse di studio sul modello inglese. Giusto, ma allora si dovrebbe poter anche licenziare per demerito, gli istituti dovrebbero essere valutati anche in base ai risultati conseguiti nel rapporto con il mondo del lavoro. In altri termini, Renzi deve impegnarsi a far sì che la scuola italiana smetta di essere l’ammortizzatore sociale di insegnanti e personale, che garantisce il lavoro a chi ci sta dentro ma non a chi ci studia. In fondo non c’è molta differenza tra le infornate di precari, che piacciono alla sinistra, e i condoni contro i quali la stessa sinistra insorge.

Rottamare non è un pranzo di gala

Rottamare non è un pranzo di gala

Carlo Stagnaro – Il Foglio

L’Italia ha molti problemi economici, ma uno dei principali è anche tra i meno discussi: gli alti prezzi dell’energia elettrica. Gli italiani, e soprattutto le piccole e medie imprese, pagano le terze tariffe elettriche più salate d’Europa, dopo Danimarca e Cipro, e la loro bolletta è del 35 per cento sopra la media dell’Unione europea. Questo impone una significativa zavorra alla crescita: ecco perché il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha infine messo mano alla questione con una legge a lungo attesa e recentemente votata dal Parlamento.

La principale ragione del caro-energia è che Roma ha sempre trattato i consumatori elettrici alla stregua di un bancomat, una fonte facilmente accessibile per le risorse necessarie a finanziare gli obiettivi redistributivi dei politici e conquistare voti. Tutto iniziò all’epoca del monopolio, quando i dipendenti delle imprese pubbliche avevano diritto a prezzi scontati. Quel “diritto” è rimasto in vigore per gli ex dipendenti anche dopo la privatizzazione dell’operatore dominante e la liberalizzazione del mercato elettrico. Tale concessione a un gruppo di lavoratori è stata sussidiata dai consumatori fino a ora. Nel tempo, i sussidi si sono aggiunti ad altri sussidi che si sono aggiunti ad altri sussidi ancora.

Da quando il monopolio è stato superato, il governo ha mantenuto un ruolo centrale nella definizione dei prezzi, e lo ha utilizzato con generosità. Dal 1963 le Ferrovie pagano l’elettricità a prezzo ridotto. Più recentemente diversi settori industriali, e in particolare le imprese energivore, hanno ottenuto un trattamento preferenziale. I costi di rete sono superiori a quello che può essere considerato un ragionevole “livello efficiente”, dato il profilo di rischio degli investimenti sottostanti. Tutto questo è sussidiato dal normale consumatore che deve pagare sempre di più.

A peggiorare le cose, i produttori rinnovabili italiani godono di quelli che sono forse i sussidi più generosi d’Europa. I sussidi alle energie rinnovabili valgono circa un quinto del costo dell`energia per il consumatore finale. La famiglia italiana tipo oggi paga circa 94 euro all’anno, in aggiunta alla propria bolletta, per sostenere le energie “verdi”, contro i 31 euro all’anno del 2010. La crescita è stata particolarmente rapida in ragione degli incentivi al fotovoltaico, il cui impatto è salito a 21 euro/MWh nel 2013 da 5 euro/MWh nel 2010. Per ogni MWh solare, il produttore riceve sussidi che sono dalle cinque alle sette volte superiori al valore dell’energia stessa. Roma fa gravare altre tasse e oneri sui consumatori elettrici, come le accise, una componente tariffaria per coprire i costi dell’uscita dal nucleare e una per sostenere la ricerca di sistema nel settore elettrico. Tutti questi oneri, che finanziano vari altri schemi redistributivi, spiegano circa la metà del gap tra i prezzi energetici italiani e la media europea. Le tariffe sarebbero “soltanto” del 17 per cento superiori, anziché l’attuale 35 per cento, se tali oneri fossero allineati alla media Ue. Il problema è diventato particolarmente serio con la recessione. La crisi economica ha abbattuto i consumi energetici. Di conseguenza i consumatori pagano sempre più sia perché la base dei gruppi sussidiati si è dilatata, sia perché il numero di quanti pagano prezzi pieni si va restringendo. Occorre trovare un nuovo equilibrio tra gli interessi delle piccole imprese in affanno e quelli degli investitori finanziari sussidiati che ricavano il loro reddito da risorse sottratte forzosamente ai consumatori.

Fortunatamente, sembra che la tendenza stia cambiando. Il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, ha promosso un pacchetto di riforme, di cui fanno parte un decreto convertito in legge dal Parlamento il mese scorso e altre misure. A partire dalla fine del 2014, grazie a tali provvedimenti, l’ammontare dei sussidi ai vari gruppi di interesse si ridurrà di circa 1,5 miliardi di euro l’anno. Si tratta grossomodo del 10 per cento del monte complessivo dei sussidi. L’obiettivo è ridurre i prezzi per i normali consumatori.

I precedenti tentativi di riforma hanno cercato di contenere il tasso di crescita dei sussidi, oppure di proteggere alcuni influenti gruppi di pressione dal peso di tasse e oneri, ma non hanno mai affrontato il relativo groviglio di sussidi che ha spinto le tariffe inesorabilmente verso l’alto. Il nuovo pacchetto è diverso perché aggredisce il problema a testa bassa e senza guardare in faccia a nessuno. Nessuno è stato risparmiato. Tutti i sussidi citati sono stati ridotti o rimodulati allo scopo di renderli meno onerosi per i consumatori.

La riforma naturalmente ha generato grande scontento. I vari interessi particolari hanno fatto una rumorosa opposizione. Né, a dispetto di tutto il clamore, questa è una riforma perfetta. Secondo alcuni, i tagli avrebbero dovuto essere ancora più profondi. Ma il meglio non dovrebbe essere nemico del bene. Quello che realmente conta e che per la prima volta le piccole e medie imprese, anziché mettere mano al portafoglio, vedranno un beneficio concreto. Anche in Italia, insomma, se ci sono volontà politica, visione e coraggio, i risultati possono essere raggiunti, e i “diritti acquisiti” dei cacciatori di rendite possono essere controbilanciati dalle istanze dei portatori del “dovere acquisito” di pagare il conto, Per parafrasare lo slogan elettorale di Renzi, almeno sulla politica energetica si sta cambiando verso.