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Tassa Rai, paga pure chi non ha la tv

Tassa Rai, paga pure chi non ha la tv

Paolo Bracalini – Il Giornale

Un «contributo», nemmeno più un «canone Rai», più basso per tutti ma dovuto da tutte le famiglie, anche da chi in casa non ha tv, né radio, né internet, e usa solo carta, penna e telefono. Le slide sono già pronte, con le simulazione di quel che entrerà alla Rai, e di quel che pagheranno gli italiani con il nuovo sistema di finanziamento del servizio pubblico messo a punto dal ministero dello Sviluppo economico (Mise), nella persona del sottosegretario Giacomelli. Si attende solo il via libera del premier Renzi (che potrà così annunciare: «Abbassiamo il canone Rai», ben consapevole che si tratta dell’imposta più odiata dagli italiani), e la decisione se farlo passare come decreto legge, sempre che il Quirinale ne riconosca il carattere di urgenza, quella cioè di vararlo entro dicembre, prima che partano i bollettini del «vecchio» canone 2015.

Cosa cambierà? Molto, se non tutto. Intanto le cifre. Il nuovo canone, che il ministero non chiama più così ma «contributo al servizio pubblico radio-tv», sarà molto più basso. Si pensa ad una forbice tra i 35 e gli 80 euro, a seconda delle capacità di spesa dei nuclei famigliari (calcolata sul reddito, ma anche sui consumi e altre variabili). Nessuna famiglia, dunque, nemmeno le più ricche, pagherà più di cento euro per finanziare il servizio pubblico radio-tv, e molte pagheranno parecchio di meno, fino ad un terzo rispetto agli attuali 113,50 euro del canone Rai (mentre si studia un’esenzione per le famiglie con soglie di reddito minime). Fin qui tutte notizie positive.

Ma l’altro aspetto difficilmente farà contenti molti contribuenti, quelli ad esempio che hanno fatto disdetta del canone Rai, quelli che non lo pagano perché non posseggono televisori né apparecchi «atti alla ricezione del servizio radio televisivo» (quasi tutti evasori secondo i calcoli governativi, visto che il 98% delle case, dicono le indagini, ha un tv in casa). Ebbene, anche loro, col nuovo sistema che potrebbe entrare in vigore già dal 2015, dovranno pagare il contributo alla Rai, pensato in verità come contributo generico al servizio pubblico, quindi in teoria e in misura parziale, se si riuscirà, anche alle tv locali.

Si rottama insomma il cardine della vecchia legge sul canone Rai, che vincola l’obbligo del pagamento al reale possesso (tutto da accertare, impresa impossibile di fatto, come lamenta a Mix24 il direttore dell’Agenzia delle entrate Rossella Orlandi) di un televisore in salotto, e trasforma l’obolo in un contributo strutturale delle famiglie al servizio pubblico, un servizio che lo Stato offre e che i contribuenti finanziano. La stessa legge, che si articola in una riforma radicale della Rai, prevede anche che le risorse affidate a Viale Mazzini siano effettivamente usate per svolgere il servizio pubblico, e su questo vigilerà un nuovo organo ad hoc. Scompaiono quindi anche i bollettini di pagamento della Rai, si vocifera che l’importo verrà pagato insieme alle tasse, forse con un F24, di certo Viale Mazzini non seguirà più direttamente la riscossione del tributo (a proposito, che fine faranno i dipendenti della direzione canone Rai?). Le simulazioni del Mise garantiscono un gettito di 1,8 miliardi di euro, quello che entra attualmente alla Rai dal canone, ma recuperando tutta l’attuale evasione, stimata nel 27%. In più si potrà giocare su un extragettito preso dalle lotterie, che però varrà qualche decina di milioni d’euro, non di più. Pagare meno, pagare tutti.

I rumors da Viale Mazzini però non trasmettono grande euforia dai vertici Rai. Sia il dg Gubitosi che la presidente Tarantola in ogni occasione ribadiscono che il canone Rai è un’eccezione in Europa perché è il più basso di tutti. Abbassarlo, e di tanto, suscita perplessità. Anche perché nella legge di Stabilità è previsto un prelievo statale del 5% su quel gettito, un’idea partorita dal Tesoro indipendentemente dal Mise. E che sta già terremotando Viale Mazzini. L’assemblea dei giornalisti esprime «grave preoccupazione per il nuovo taglio al servizio pubblico» e prepara una diffida ai vertici Rai per costringerli ad adire le vie legali. Cosa che il consigliere Antonio Verro è già intenzionato a fare: «Nel prossimo Cda chiederò formalmente che i consiglieri si esprimano con un voto sull’opportunità di procedere in sede giudiziaria a tutela del patrimonio aziendale». E come non pensare ai 150 milioni di euro già chiesti dal governo alla Rai. Insomma, il fronte già aperto tra Renzi e la Rai rischia di diventare ancora più caldo. «Una riforma radicale del canone – dice il sottosegretario Giovannelli – che introduca equità e dia certezze e risorse, e che sia vissuta in modo meno negativo dai cittadini». Forse non da tutti.

Quel ceto medio sempre dimenticato

Quel ceto medio sempre dimenticato

Francesco Forte – Il Giornale

Nella legge di Stabilità ci sono ombre che preoccupano, a fianco delle luci che brillano, anche per il modo con cui le misure attraenti sono presentate. Vorrei poter fare il poliziotto buono, perché in questo disegno di legge ci sono due misure importanti, che ho caldeggiato, sul Giornale e che i liberali di Forza Italia sostengono, il taglio di Irap sui costi del lavoro e il Tfr in busta paga. Ma ho la necessità di fare il poliziotto cattivo, a difesa dei ceti medi e dei contribuenti che rischiano di pagare un conto salato. È ottima cosa la detrazione dell’intera Irap sui costi del lavoro dall’imponibile dell’imposta sul reddito che ne opera una riduzione del 30% e prelude all’eliminazione di questo balzello che distorce l’impiego del lavoro nella produzione di beni e servizi e danneggia soprattutto la manodopera qualificata. È buona cosa consentire ai lavoratori di scegliere come impiegare il proprio Tfr. Ed è gradevole vedere una manovra con 18 miliardi di riduzione di imposte su 36 complessivi. Ma per il 2015 ci sono 11 miliardi di deficit in più rispetto quelli a legislazione invariata. Ciò comporta un rapporto del deficit di bilancio sul Pil del 2,9% anziché del 2,2% che implica un aumento ulteriore del debito pubblico sul Pil che è già attorno al 130%!

Certo, un’espansione della domanda tramite il deficit di esercizio può servire per contrastare la tendenza recessiva o quanto meno di ristagno dopo una recessione che comporta larga disoccupazione di lavoro e di capacità produttive. Che, dato ciò, occorra accrescere la domanda globale lo dicono non solo i keynesiani (che dominano in questo governo e nei suoi consulenti). Lo dicono anche gli altri economisti che non credono alla piacevole economia del «pasto gratis». Ma si poteva e doveva coprire il buco, che così si crea nel bilancio, privatizzando quote di imprese pubbliche che non stanno sul mercato: a partire da quelle inefficienti degli enti locali, che costano al contribuente. Inoltre, alcuni tagli di spese sono vaghi. I 3,8 miliardi di recupero di evasione fiscale sono incerti. E i tagli di spesa delle Regioni e degli enti locali non sono fatti su loro spese, ma su trasferimenti dello Stato, sicché questi governi probabilmente aumenteranno le loro imposte, come Imu, Tasi, tassa sui rifiuti, addizionali all’Irpef e altro, a danno dei piccoli proprietari e dei ceti medi già tartassati.

Le ricetta vera per rilanciare la domanda è la politica di investimenti, in primis edilizi. Nella legge di Stabilità questa politica manca. E delle tre misure che compongono il grosso delle riduzioni fiscali, solo una – la detrazione dell’Irap sul costo del lavoro, che comporta 5 miliardi di sgravio – ha natura economica e giova all’efficienza dell’offerta, cioè è produttiva. Le altre due, ossia il bonus per i lavoratori dipendenti a basso reddito (e non pensionati e autonomi) che vale 9-10 miliardi e il bonus per i neo assunti con contratto a tempo indeterminato, hanno natura sociale e sindacalese. Servono al Pd per la sua stabilità interna (che, per altro, non c’è) e come strumento elettorale. Ma sono misure discriminatorie, che non generano rilancio. In questo clima di incertezza questo bonus non darà più occupazione, ma preferenza per il contratto a tempo indeterminato su quello a termine, ammesso che basti questo incentivo per assunzioni impegnative. Ed infine – pillola avvelenata – è prevista una clausola di salvaguardia, con nuove imposte per 12,5 miliardi di Iva e tassazioni indirette se la Commissione europea ci dirà di ridurre il deficit e i mercati spingeranno in tal senso, punendo i nostri titoli pubblici; e qualora i 3,8 miliardi di recuperi di evasione e i tagli di spesa dei ministeri, degli enti locali, della sanità non si materializzino.

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Nicola Porro – Il Giornale

Sulla prima finanziaria di Matteo Renzi si deve dire ciò che vale per ogni legge di Bilancio. Non esiste una formula miracolosa: il giorno dopo sono tutti dei fenomeni a consigliare il meglio per il paese. Spesso sono gli stessi, che con o senza responsabilità, fino al giorno prima hanno attuato o proposto il peggio. Governare i conti dell’Italia spa è un casino. Per i vincoli interni ed esterni che ci sono. Non parliamo solo dell’Europa, ma provate voi a trattare con i tecnici della Ragioneria o con le leggi che trascinano i loro effetti pluriennali senza che si possa modificare una virgola. Vabbé questa è filosofia. Andiamo al dunque. La manovra è tosta, da 36 miliardi. E, aspetto fondamentale, non è ideologica. Non è figlia di un pregiudizio politico. Una rarità per la sinistra: almeno sulla carta questo resta un governo di sinistra, o no? Per farla semplice semplice si compone di tre capitoli.

Il primo è la riduzione della spesa pubblica. Per una cifra monstre di 15 miliardi. Una buona parte a carico degli enti locali e specialmente le regioni. Non giriamoci troppo attorno, si tratta di tagli lineari belli e buoni. Ovviamente, soprattutto a livello locale, si stracceranno le vesti. Abbiamo già dato, sosterranno. È vero. Ma non siamo più nelle condizioni di andare per il sottile: occorre affamare la Bestia. E se questa prova a comprarsi un po’ di biada alzando ancora le imposte locali, saranno guai. Il rischio che si sindaci e presidenti di regione si rifacciano alzando le loro aliquote ovviamente c’è. È forse questo un buon motivo per astenersi dall’imporre loro nuovi tagli? Secondo noi, no. Lo stato deve dimagrire, regioni ed enti locali pure. Il principio è semplice così come i privati si sono arrangiati a spendere di meno e pagare di più, il pubblico si arrangi almeno a spendere di meno.

Il secondo capitolo riguarda i tagli fiscali. La cifra totale è di 18 miliardi, di cui la gran parte (10) per il bonus degli 80 euro rivolto alle sole fasce più deboli della popolazione con contratto di lavoro dipendente. Si tratta di un déjà vu , che abbiamo già criticato. Aiutare la classe medio bassa, e per di più solo una parte di essa, non aiuta i consumi. Come si è visto. Ovviamente, a questo punto togliere l’incentivo avrebbe però creato un effetto boomerang. La vera novità è aver inserito circa 7 miliardi di euro a beneficio delle imprese. In questo momento si devono aiutare loro. Il problema è dare una mano a chi assume. Il taglio dell’Irap e la defiscalizzazione delle nuove assunzioni (sommato alla riforma del lavoro che si prevede di chiudere nel giro di un anno) è cosa buona e giusta. Chiunque può trovare il pelo nell’uovo, ma ci troviamo finalmente nella condizione di criticare gli aspetti di dettaglio di un taglio fiscale invece che a commentare l’ennesima imposta creativa.

Piccola parentesi su questo aspetto. Come ha magistralmente scritto ieri Guido Tabellini: questo non è proprio il momento di incentivare le famiglie al risparmio. Le banche sono gonfie di liquidità, anche privata. Il problema oggi è spendere. L’idea di mettere a disposizione la liquidazione (anche se il vizietto di farci cassa tassandola con aliquota ordinaria il governo se lo poteva risparmiare) è sacrosanta. Solo uno Stato socialista e paternalista si preoccupa dell’insipienza dei propri sudditi nell’utilizzare i propri quattrini. Chi opterà per avere subito in busta paga il proprio tfr avrà le sue buone o cattive ragioni, e non sta ai burocrati deciderle. Ritornando dunque alla tesi di Tabellini, il combinato disposto degli 80 euro, del tfr in busta paga e delle defiscalizzazioni per le imprese agisce tutto nel verso giusto: stimolo ai consumi più che al risparmio. Se vogliamo fare i sofisti (ma evidentemente mancavano i soldi) la vera mossa per far ripartire la macchina sarebbe stata quella di dare un po’ più di ossigeno all’edilizia. Negli ultimi due anni le sciagurate tasse introdotte da Monti e Letta hanno trasferito 40 miliardi dai privati allo Stato e soprattutto hanno convinto gli italiani che la casa più che un rifugio è un debito. Una pazzia. È la mancanza più grossa di questa finanziaria. Nel nostro personale libro dei sogni sarebbe stato meglio togliere il bonus degli 80 euro e utilizzare quei 10 miliardi per la proprietà edilizia.

Infine il terzo capitolo. Parte di questa manovra (circa 11,5 miliardi) non è finanziata da maggiori tagli di spesa o da maggiori entrate, ma è finanziata a debito, aumentando il deficit. Tutto rimanendo nella soglia famigerata del tre per cento, ma rallentando il processo di risanamento che vorrebbero in Europa. Bene. Non perché sia positivo fare deficit: esso rappresenta un’ipoteca sul futuro. Oggi paghiamo le scelleratezze dei nostri padri e nonni che si sono ubriacati a botte di Krug facendo pagare il conto alle generazioni che seguivano. In un periodo di profonda recessione come questa e con prezzi in calo, fare i Mandrake del rigore è da drogati. Inoltre l’aumento del deficit non sembra dovuto a nuove leggi di spesa, ma a riduzioni fiscali. Se prendiamo un veleno, lo si faccia in modiche quantità e a fin di bene.

Il giudizio complessivo su questa manovra (anche se molti dettagli non di poco conto sono ancora da studiare) è che nei suoi saldi ha cercato di affamare la Bestia e restituire un po’ di maltolto ai sudditi.

L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

Stefano Filippi – Il Giornale

Medaglia d’oro e menzione d’onore al prefetto di Genova, che con alta sensibilità e vicinanza alla popolazione colpita dall’alluvione ha concesso ai cittadini, vessati dalle tasse almeno quanto dal maltempo, un rinvio per pagare le cartelle esattoriali di Equitalia. Una dilazione significativa, congrua, adeguata al dramma che la città vive da giorni: 24 ore. Insediatasi il 1° ottobre scorso (ha lasciato Imperia per volontà del ministro Alfano), il prefetto Fiamma Spena non ha voluto mancare l’occasione per manifestare tutta la sua solidarietà ai genovesi. Non poteva trovare modo migliore per presentarsi a loro.

Il decreto porta la data del 12 ottobre, domenica. Tiene conto dell’«emergenza in atto connessa agli eventi alluvionali» e del fatto che «la situazione di Allerta 2 si protrarrà fino alle ore 23.59 di lunedì 13 ottobre»: i tecnici dell’Arpal (Azienda regionale per la protezione dell’ambiente ligure) non saranno abilissimi nel preavvertire la popolazione dei disastri incombenti, ma sono dei fenomeni nelle previsioni. Calcolano al minuto quando le nubi si schiuderanno sul cielo di Genova. Dalla mezzanotte sarà davvero un altro giorno.

E così i contribuenti che il giorno 13 avrebbero dovuto saldare le cartelle esattoriali, esaurita la perturbazione, la mattina del 14 (cioè ieri) non avevano più scuse per non versare il dovuto a Equitalia. La quale, tramite il direttore centrale sicurezza, aveva rivolto al prefetto Spena una «richiesta in tal senso per le vie brevi», cioè senza troppi protocolli. Una telefonata, forse una mail. Ma che bontà d’animo, che attenzione per gli sfollati. Ventiquattr’ore di slittamento. Una beffa per gli alluvionati, come se nel volgere di una giornata tutto possa tornare alla normalità e la gente abbia già voltato pagina, pronta a pagare le tasse. Ventiquattr’ore di proroga, la classica soluzione burocratica che consente di proclamare: «Non è vero che non abbiamo fatto niente per alleggerire i disagi». Genova è ancora sommersa dal fango, la gente impugna ancora i badili per liberare case, strade e negozi, la pazienza sta raggiungendo il limite. Ma la pazienza dei genovesi è sfidata da quest’ultimo schiaffo della burocrazia. Lo Stato è incapace di difendere la popolazione, non ha i soldi per il risanamento idrogeologico, quando riesce a finanziare le opere non riesce a completarle perché i ricorsi, i tribunali, la burocrazia impediscono di dare risposte reali ai cittadini. Il sindaco premia i funzionari comunali che dovevano intervenire e l’hanno fatto nel modo che si è visto. Il premier non si fa vedere tra i carrugi e, al solito, promette. Grillo fa retromarcia e pure lui evita di sporcarsi le mani, a differenza degli «angeli del fango».

Una dilazione di un mese sarebbe stata un segnale di svolta. Uno stato finalmente preoccupato delle condizioni del popolo. E avrebbe anche obbedito al buon senso. Che cosa sarebbe successo se l’Allerta non fosse rientrata? Vista la tempestività con cui (non) vengono diramati gli avvisi, non era un’eventualità così improbabile. Il prefetto avrebbe diramato una seconda ordinanza alle 23:59 e 10 secondi di lunedì notte? Come avrebbe potuto avvertire la cittadinanza? Non era il caso di fissare subito un termine più ampio, in modo che i contribuenti attesi alle forche caudine di Equitalia avessero tutto il tempo di provvedere una volta terminata l’emergenza? No, il rappresentante del governo ha stabilito che il rinvio di un giorno fosse adeguato. E i genovesi, che finora hanno sperimentato l’incapacità dello stato di mettere il territorio in sicurezza, ora sanno che andrà ancora avanti così.

La burocrazia conquista anche il bagno di casa

La burocrazia conquista anche il bagno di casa

Enza Cusmai – Il Giornale

Sarebbe una buona notizia se non ci fosse il rovescio della medaglia che lascia l’amaro in bocca. Da oggi proprietari e inquilini dovranno dotarsi di un libriccino nuovo di zecca dedicato a caldaie, condizionatori e impianti solari in cui dovrà essere redatto il «Rapporto di efficienza energetica». Bene – si può pensare – se serve a evitare incidenti domestici, inquinamento a palla o legionella, male se si scopre che quest’ulteriore certificazione diventa una vera e propria tassa che graverà sulle spalle dei soliti utenti. E se per controllare una caldaia oggi si spende dalle 70 alle 120 euro all’anno, tra poco la cifra raddoppierà. Una vera botta inattesa che fagociterà almeno due o tre mesi della paghetta aggiuntiva di 80 euro versati da Renzi in busta paga per “incentivare i consumi”. Ma questa ennesima certificazione va fatta in nome della sicurezza, della salubrità e dell’igiene (evitare la legionella provocata da un condizionatore sporco). E chi sgarra rischia multe da 500 fino a 3mila euro. Cifra che lievita fino ai 6 mila euro per l’installatore sprovveduto o poco serio. Insomma, sono dolori per tutti e grandi seccature. Ma in nome della sicurezza e della lotta all’inquinamento si fa questo e altro. Ecco i suggerimenti di Domotecnica.

La regola
La norma è prevista nel decreto 10 febbraio 1014 del Ministero dello Sviluppo e ha stabilito che gli impianti termici devono essere dotati del nuovo libretto di impianto nonché degli appositi moduli per il controllo dell’efficienza energetica. La scadenza, fissata a giugno scorso, è stata prorogata al 15 ottobre.

Niente corsa al libretto
Ma da oggi non si scappa. Scattano le nuove regole e bisogna dotarsi del libretto o chiedendolo a chi svolge la manutenzione annuale o acquistandolo in una cartolibreria che vende modulistica. Ma non è ancora chiaro quando debbano essere fatti i controlli. Saranno le regioni a fissarne la periodicità. Dunque non c’è fretta. Bisogna però sapere che nel libretto verranno registrati tutti gli impianti presenti in ogni abitazione: non più solo caldaie e sistemi di riscaldamento, ma anche sistemi di climatizzazione, impianti solari e così via. Inoltre accanto all’efficienza degli impianti, questa nuova disposizione prevede una diagnosi completa che ne andrà a verificare sicurezza, salubrità e igiene.

A chi rivolgersi
Agli installatori abilitati ad operare su impianti di riscaldamento e di climatizzazione. Insomma, basta chiamare il tecnico che vi ha venduto caldaia e condizionatore.

Un controllo costoso
L’esperto deve verificare il rendimento e la salubrità, controllando non solo caldaie e generatori di caldo o freddo, ma ogni componente dell’impianto. Così se la spesa prima variava in media tra i 100 e i 120 euro, con l’aggiunta dei controlli e della sanificazione, prevista dal nuovo libretto, una famiglia con una caldaia collegata a 4/5 caloriferi ed un impianto di climatizzazione con 2 o 3 split verrà a spendere almeno 200 euro.

Periodicità dei controlli
La manutenzione per l’efficienza, e quindi la sua periodicità, rimarrà a discrezione delle singole Regioni e potrebbe variare dai due ai quattro anni (salvo indicazioni diverse). Mentre per tutto ciò che riguarda la manutenzione e la verifica della sicurezza e salubrità spetta al tecnico indicare la frequenza di questi controlli, che sarà prevedibilmente annuale.

Scoperto il tesoro italiano

Scoperto il tesoro italiano

Salvatore Tramontano – Il Giornale

A leggerla così viene quasi da ridere: gli italiani sono i terzi al mondo per ricchezza mediana. Almeno così assicura uno studio di Credit Suisse. Le statistiche, si sa dai tempi di Trilussa, non bisogna proprio prenderle alla lettera. È vero, però, che qualcosa raccontano, soprattutto se si incrociano con altri dati. Questa lunga crisi, per esempio, ha colpito consumi e investimenti. È una lunga litania di segni meno marchiati di rosso. Eppure un’analisi di Unimprese, con numeri di Bankitalia, certifica che questa curva in discesa non vale per i depositi bancari. I soldi nei conti correnti sono aumentati. Sembra un paradosso, ma non lo è.

La recessione e una brutta bestia. Non solo perché ti scarnifica il portafoglio, fa chiudere aziende e manda a casa i lavoratori. La recessione genera paura. Fa paura perché toglie la speranza. Tanti non spendono perché non hanno i soldi, perché il secondo lunedì del mese sono in bolletta, ma altri (e non sono pochi) ci pensano quattro volte prima di acquistare qualcosa perché non si sa mai. E allora i soldi li mettono in banca. Risparmiano. Non rischiano. È normale. È la parte più profonda e a lungo termine di ogni crisi economica, soprattutto di quelle disperate come quella che stiamo vivendo.

Gli italiani sono un popolo di risparmiatori, ma nella loro storia sanno anche costruire ricchezza. Sono riusciti a risollevarsi da momenti bui, scommettendoci, credendoci. Quello che registra Credit Suisse è che questo Paese ha grossi problemi di debito pubblico, ma gli italiani non sono ancora a terra, sconfitti, incapaci di rialzarsi. È un popolo che sa resistere, faticando ogni giorno. Non siamo i pezzenti dell’Europa. L’Italia non è la nazione stracciona che deve andare dai burocrati di Bruxelles a chiedere l’elemosina. Non dobbiamo vergognarci davanti all’arroganza tedesca. Non ci sono lezioni da prendere e sentirci ogni volta ripetere che non abbiamo fatto i compiti a casa. Forse la classe dirigente ha qualcosa da farsi perdonare, ma gli italiani sono ancora ricchi di idee e di risparmi per finanziare quelle idee. Quello che ci sta macerando l’anima è la paura. Questa maledetta paura che l’Europa, ossessiva e apocalittica, continua a scaricarci addosso. L’Europa che boccia tutto e si incazza se il governo prova ad abbassare le tasse.

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Renato Brunetta – Il Giornale

Chissà perché le stesse agenzie di rating che nell’estate-autunno del 2011 erano tanto loquaci, anche oltre il lecito, visto che presso la procura di Trani è in corso una serissima indagine sui loro comportamenti, oggi tacciono? Lo scorso venerdì né Moody’s né Standard & Poor’s hanno aggiornato il loro giudizio sull’Italia. Non hanno nulla da dire o c’è dietro altro? Per Moody’s l’ultimo rating emesso è del 14 febbraio, proprio il giorno delle dimissioni del governo Letta, poi il calendario non è stato più rispettato: nessun aggiornamento il 13 giugno e nessun aggiornamento neanche il 10 ottobre. Che strano: Moody’s non si pronuncia più sull’Italia da quando c’è il governo Renzi. O in questi mesi il giudizio è cambiato talmente poco da essere irrilevante (il che vuol dire che anche l’azione di questi mesi del governo ha prodotto effetti minimi, addirittura impercettibili), oppure il giudizio è talmente grave che renderlo pubblico destabilizzerebbe non solo l’Italia, ma l’intera area dell’euro. In entrambi i casi siamo davanti a una manipolazione del mercato bella e buona, come fu manipolazione, nel senso diametralmente opposto a quello attuale, appena esposto, quella del 2011. Manipolazione che, in quel caso, portò alla caduta di un governo legittimamente eletto dal popolo, e a comportamenti speculativi i cui effetti devastanti hanno messo in ginocchio l’Europa. Ma di questo ci darà conto il tribunale di Trani. Certo, la coincidenza dell’inizio del silenzio da parte delle agenzie di rating con l’insediamento del governo Renzi desta più di qualche dubbio.

Tempesta perfetta in arrivo?
Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario della Fed. L’acquisto di titoli di Stato italiani è stata una strategia ragionevole: sono titoli meno rischiosi e con un rendimento conveniente. La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed. Con meno soldi in circolazione le scelte dei gestori saranno più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno quelli italiani se per allora il nostro Paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento.Tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015. A ciò si aggiunga che poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre 200 miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Ne deriva che, aumentando l’offerta di titoli sul mercato, diminuirà il prezzo e aumenteranno i rendimenti (le due grandezze sono inversamente proporzionali). Con le conseguenze che tutti conosciamo sugli spread. Se la tempesta perfetta arriva, spazza via tutto. E tutti.

È credibile la finanza pubblica?
Il documento più recente ufficiale del governo è la Nota di aggiornamento al Def, approvata dal Consiglio dei ministri il 30 settembre, che rappresenta una completa riscrittura del precedente documento di aprile, dimostrazione evidente del fallimento della linea di politica economica fin qui seguita da Matteo Renzi. Errate si sono dimostrate le scelte finora compiute, a partire dal bonus di 80 euro; errati i presupposti analitici su cui quella politica si è fondata. A dimostrazione di questo assunto basta considerare lo scarto nella previsione di crescita del Pil (dal +0,8% di aprile al -0,3% di settembre): 1,1 punti di Pil di differenza. Scarto che supera di gran lunga tutta l’esperienza storica più recente. Senza considerare il grado di realismo (basso) implicito nell’ultima previsione di -0,3%. A giustificare un simile scarto previsionale, in corso d’anno, non si è verificato alcun elemento traumatico. Al contrario si è seguito solo il trend a ribasso degli anni precedenti: -2,4% nel 2012, -1,9% nel 2013. Per ritrovare il segno più negli andamenti del Pil italiano bisogna risalire al 2010 (+1,3%) e al 2011 (+0,4%), quando il governo del paese era affidato a un’altra maggioranza.

Secondo i dati dell’Eurostat il reddito nominale dei Paesi dell’eurozona nel 2013 è stato del 4% superiore ai livelli pre-crisi. In Italia siamo invece ancora ben lontani dal raggiungere quell’obiettivo, e in termini reali la perdita di Pil resta ancora superiore ai 9 punti. Nelle previsioni per il 2015, inoltre, il nuovo Def ipotizza una crescita del Pil pari allo 0,6%. A questo obiettivo dovrebbe contribuire soprattutto la domanda interna, che subirebbe un balzo di un punto di Pil passando da -0,3%, nel 2014, a +0,7% nel 2015. Questo passaggio non è ulteriormente motivato, né si considera l’effetto di trascinamento della brusca caduta dell’anno precedente.

Nella logica del documento del governo, infine, le previsioni di crescita rappresentano il floor su cui calcolare l’impatto delle possibili riforme. Rispetto al tendenziale sarebbero destinate a determinare una crescita del potenziale produttivo pari in media allo 0,2% in tre anni. Spiccioli. L’effetto lordo delle riforme, infatti, è compensato dall’onere recato dalle misure di salvaguardia, poste a difesa del rispetto dei parametri del deficit. Misure che potrebbero scattare a partire dal 2016, per importi predeterminati fin da ora e pari a 12,6 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Con conseguente aumento della pressione fiscale, che si stabilizza a un livello superiore al 44% del Pil. Ipotesi da scongiurare.

Un sentiero impervio
L’insieme di questi dati, al di là dell’eleganza formale dei ragionamenti del governo, dimostra quanto sia ancora impervio il sentiero per uscire dalle secche della crisi. Questi dati rappresentano perfettamente il “circolo vizioso” dell’economia italiana: gli investimenti privati non crescono a causa dei ridotti margini aziendali; quelli pubblici non decollano a causa delle cattive condizioni di finanza pubblica; di conseguenza l’economia ristagna, mentre lo spiazzamento competitivo derivante dal combinarsi di una bassa produttività aziendale con un’altrettanta limitata “produttività totale dei fattori” allontana il nostro paese dal resto dell’eurozona. Per non parlare della concorrenza che deriva dalle economie emergenti. Il governo stesso si è reso conto di questi pericoli allorquando ricorda “la delicatezza della fase attuativa che ha spesso deluso in passato le aspettative degli italiani e degli investitori stranieri”. Preoccupazione assolutamente condivisibile, subito disattesa, tuttavia, dai suoi comportamenti effettivi. Del resto, lo scarto tra preposizioni teoriche e comportamenti effettivi è la vera cifra che caratterizza l’intera azione del governo.

L’attuale quadro dei conti pubblici italiani appare, pertanto, venato da profonde incertezze programmatiche e dalla profonda discrasia tra il “dire” e il “fare”. Esso è reticente nell’individuare i veri punti che sono all’origine dello shock endogeno che persiste nell’economia italiana, intimamente legato alla sua bassa produttività. È il riflesso di un quadro politico incerto, in cui persistono linee divergenti, segnato da fratture difficilmente conciliabili, che riducono la capacità operativa del governo e lo costringono a defatiganti azioni di mediazione, allungando i tempi della decisione politica. Il tutto in aperto contrasto con le esigenze di chiarezza richieste dai mercati e dalla Commissione europea, che non perde occasione per far conoscere le proprie riserve, lanciando ripetuti avvertimenti.

Si rende oggi quanto mai necessario, dunque, un più intenso dialogo intereuropeo al fine di dare a quel semestre di presidenza italiano, fin troppo scialbo, l’occasione di un rilancio. Dobbiamo sgombrare il campo dall’ipotesi che l’accento riposto sulla necessità dello sviluppo sia un alibi per continuare nelle vecchie abitudini di sempre. Al contrario, occorre rafforzare la posizione negoziale dell’Italia per costringere anche gli altri, soprattutto la Germania, a fare la propria parte. Allo stato attuale, però, l’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni del governo appaiono agli occhi degli osservatori spesso fin troppo ottimistiche. L’esecutivo, infine, si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Dopo i governi non eletti, Monti e Letta, con Matteo Renzi l’Italia si trova al suo punto minimo di credibilità economica e democratica. Tutti questi fattori, deflagranti in caso di tempesta sui mercati, rendono l’Italia il paese più debole nel contesto europeo. Continuare a fare finta che non sia così è da irresponsabili.

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Fisco, clima da DDR: un milione di italiani ha denunciato i vicini

Andrea Cuomo – Il Giornale

Un milione di spiate dal valore di 164 milioni di euro e spiccioli. È la delazione fiscale, bellezza. Un modo per far trionfare l’onestà, certo. Ma chissà quanti sassolini dalle scarpe si saranno tolti quegli italiani che hanno scritto al sito evasori.info per denunciare il commerciante, l’artigiano, il professionista poco incline alla ricevuta fiscale. Siamo nell’anno di grazia 2014 e se il ristoratore non ti ha portato lo scontrino, soffiandoti il conto nell’orecchio con piglio da cospiratore, le cose sono due: o lo stronchi su TripAdvisor o gli mandi la finanza elettronica. Comunque ti godi l’acre sapore della vendetta senza nemmeno muoverti da casa.

C’è un mood un po’ da Germania dell’Est nell’elaborazione dei dati di evasori.info fatta dall’agenzia AdnKronos. Quel clima plumbeo che ha ispirato narratori e registi, per cui in appartamenti incistati in falansteri da architettura socialista ciascuno diffidava del vicino di casa che avrebbe potuto spiarlo attraverso il muro di cartongesso per poi raccontare alla Stasi, la polizia segreta, che con la moglie si era lamentato della mancanza dei cetriolini sottaceto giù al supermercato di zona. Ma se ci si libera di quel sapore un po’ ferroso da collaboratori del regime, ci si può congratulare con l’erario, che festeggia 164.860.730 euro di evasione fiscale potenzialmente recuperata grazie alle soffiate «spontanee» dei cittadini arrivate entro le ore 16 dello scorso 10 ottobre. I cittadini superonesti, oppure vendicativi, se la prendono soprattutto con i bar (33,2 per cento delle segnalazioni), con i ristoranti (12,2), con negozi di alimentari, bevande e tabacchi (9,6), con servizi per la persona (9,2) e con gli ambulanti (4,4). In termini di valore, però, le evasioni più ingenti sono quelle degli studi legali e notarili (35,8 per cento dell’ammontare totale), seguiti da medici e dentisti (7,4), ristoranti (5,9), bar (5,2), agenzie immobiliari (5,6) e servizi alla persona (5,2).

La ricerca individua anche le categorie meno inclini alla fattura o allo scontrino, che sono, nell’ordine: i servizi finanziari in provincia di Como, le agenzie immobiliari in provincia di Milano, medici e dentisti in provincia di Roma, i loro colleghi napoletani, rivenditori e meccanici di auto e moto in provincia di Roma, pubblicitari sempre in provincia di Roma, ristoranti in provincia di Milano, servizi immobiliari in provincia di Roma e bar in provincia di Roma. Una lista che mostra una maggiore propensione all’evasione nelle grandi città e al Nord. O forse una maggiore talento per la soffiata. Tra i comportamenti denunciati c’è di tutto: il barista che nella frenesia mattutina finge di dimenticarsi lo scontrino del tuo cappuccino&cornetto. Il dentista che per la lunga cura ortodontica di tuo figlio ti propone un doppio binario: una cifra A senza fattura e una cifra A+B con. Il cameriere che scrive il totale a penna sulla tovaglia di carta e si aspetta ovviamente il pagamento cash. E anche un buona mancia, che c’entra. Siamo mica nella Ddr!

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Tasi, sarà stangata record. È il regalo delle giunte rosse

Cinzia Meoni – Il Giornale

A pochi giorni dalla scadenza, il 16 ottobre, del versamento della prima rata della Tasi (il tributo sui servizi indivisibili, vero e proprio rebus per i contribuenti italiani), la Cgia di Mestre si prende la briga si spulciare tutte le delibere approvata dai capoluoghi di regione italiani su Tasi, Tari (la nuova tassa sui rifiuti) e addizionale Irpef per stabilire che il non proprio invidiabile primato di assoggettare i propri cittadini alle tasse comunali complessivamente più elevate di tutta la Penisola è detenuto da Bologna, Roma e Bari. La classifica, redatta dall’ufficio studi della Cgia calcolando il prelievo subito da una famiglia tipo di 3 persone, mette in luce divergenze abissali tra città e città. Nel caso di un’abitazione di tipo civile A2, ad esempio, a Bologna la stangata ammonta a 1.610 euro, a Genova a 1.488 euro, a Bari a 1.414 euro e Milano, a 1.379 euro. Meglio forse, potendo, trasferirsi ad Aosta dove si pagano in tutto «solo» 551 euro.

Più in dettaglio l’addizionale Irpef quasi dovunque raggiunge l’aliquota massima dello 0,8%. La Tari, invece, colpisce soprattutto a Sud: considerando sempre un’abitazione di tipo civile A2 abitata da tre persone, a Cagliari si pagheranno 653 euro, a Napoli 522 euro mentre a Firenze 217. Per la Tasi infine, solo Aosta, tra i capoluoghi di regione, ha applicato l’aliquota base dell’1 per mille. Ben nove capoluoghi (su 18) hanno deciso direttamente di applicare il valore massimo consentito per le abitazioni principali (3,3 per mille). Veri e propri salassi per i cittadini che, negli ultimi anni, hanno visto crescere esponenzialmente le imposte comunali nonostante servizi non esattamente impeccabili. Tutta colpa, a giudizio di Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, «dei pesantissimi tagli ai trasferimenti che lo Stato centrale ha praticato nei confronti degli enti locali». Negli ultimi cinque anni, come segnala la Cgia, a Roma sono arrivati 667 milioni in meno, a Milano 317,7, a Napoli 199,6, Torino 158,9 e a Genova 110,8.

I contribuenti intanto si preparano ad affrontare il rompicapo della Tasi, l’unica imposta sul valore dell’immobile che si paga a livello locale e forse le tasse più odiate per la poca chiarezza sui termini di pagamento. Per la stragrande maggioranza degli italiani mancano, infatti, pochi giorni alla scadenza prevista per legge per il versamento della prima rata della Tasi (50% del dovuto su base annua). Eppure non tutti i dubbi sono stati risolti. Entro giovedì 16 ottobre dovranno pagare l’acconto sulla Tasi tutti coloro che hanno in proprietà o possiedono a qualunque titolo immobili e aree edificabili nei comuni che hanno deliberato le aliquote entro il 10 settembre (in caso di mancato invio delle deliberazioni entro il termine previsto, il versamento della Tasi è effettuato in un’unica soluzione entro il 16 dicembre 2014, data di scadenza anche per la seconda rata dell’imposta, con l’aliquota minima dell’1 per mille). Il provvedimento riguarda tra l’altro Roma, Milano, Verona, Bari, Firenze e Palermo, ma fortunatamente sul web si può trovare l’elenco completo. Il tributo varia da città a città. La base imponibile è la rendita catastale, rivalutata del 5%, a cui si applicano i moltiplicatori a seconda della tipologia immobile. Le aliquote tuttavia sono stabilite a livello locale entro tetto massimo fissato dalla legge. Il risultato? Iniquo. Per Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, con la Tasi, prevista dalla Legge di Stabilità 2014, «pagherà un po’ di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate».

Tanto rumore per nulla

Tanto rumore per nulla

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Cominciamo col dire che non è vero che il governo ha varato una riforma del lavoro, come oggi qualcuno vorrà fare intendere. Al di là della propaganda, Renzi ieri si è solo fatto dare dai senatori – con la forza, mettendo cioè la fiducia sul voto – l’autorizzazione a pensare una riforma del lavoro, che è cosa utile ma ben diversa. Siamo quindi lontani sicuramente mesi, probabilmente anni, da beneficiare eventualmente di effetti concreti che nuove norme, una volta varate davvero, dovessero produrre.

Per ora del contenuto della riforma conosciamo solo le linee guida allegate alla richiesta di fiducia: parliamo di un libro dei sogni generico e già n partenza depotenziato dell’effetto-svolta: non c’è traccia infatti, nelle parole, dell’abolizione dell’articolo 18. All’ultimo, quindi, Renzi non se l’è sentita di andare allo scontro vero e decisivo con l’ala sinistra del suo partito e conla Cgil: non cita l’articolo 18 ma anche sì, nel senso che nei fatti il divieto di licenziare potrebbe saltare per altre vie. È la solita storia: a noi Renzi piace nei preliminari: deciso, enuncia principi liberali e striglia i post comunisti, annuncia sfracelli, litiga con i sindacati e dice di rottamare il vecchiume. Sulla riforma del lavoro, per esempio, ci aveva quasi convinto. Il problema è che quando si arriva al dunque l’uomo svicola, divaga e si fa risucchiare dal suo mondo, che tra l’altro lui detesta (ben ricambiato).

La verità è che ieri, in un gioco delle parti probabilmente concordato in ogni dettaglio, la sinistra ha superato senza gravi danni uno scoglio non da poco. Si salvano il premier, il governo, il partito, la legislatura e, scommetto, alla fine anche i sindacati, perché ognuno può sostenere di averle cantate agli altri. Il problema è che, al momento, gli unici a non salvarsi sono il mondo del lavoro e quello dell’impresa, che restano ben inchiodati a riti e regole del secolo scorso. Un mondo che non c’è più, difeso in Senato, con le solite sceneggiate, oltre che dai comunisti, dai grillini e dai leghisti. Che tanto a fare casino, anche contro l’interesse dei tuoi elettori, un bel titolo sui giornali lo porti sempre a casa. È un lavoro anche questo.