il mattino

Il nuovo che spaventa un sindacato vecchio e la sinistra immatura

Il nuovo che spaventa un sindacato vecchio e la sinistra immatura

Pietro Reichlin – Il Mattino

L’opposizione della sinistra del Pd al contratto a tutele crescenti è la prova definitiva che sul lavoro si gioca una battaglia politica che ha poco a che fare con l’obiettivo di portare il nostro paese fuori dal ristagno economico. Tutti sanno che l’articolo 18 non crea e non conserva neanche un posto di lavoro, soprattutto per i giovani e nelle aree del paese dove esiste una vasta economia sommersa. Poche imprese sono oggi disposte a offrire un contratto a tempo indeterminato a chi entra sul mercato del lavoro. Pesano le incertezze legate all’inserimento e alle capacità dei nuovi assunti, la difficoltà di dimostrare la giusta causa nel caso di risoluzione del contratto per motivi economici e, soprattutto, i costi fiscali e contributivi che gravano sui contratti a tempo indeterminato. La conseguenza è che i giovani si devono accontentare di contratti a termine o a progetto o sono costretti ad aprire una partita IVA sopportando costi esorbitanti. Il contratto a tutele crescenti potrebbe contribuire a facilitare un’assunzione regolare, eliminare il percorso a ostacoli del rinnovo sequenziale di contratti a termine, portare il rapporto tra giovani e datori di lavoro su un sentiero di stabilità e reciproca fiducia, rendere più conveniente l’addestramento professionale. La via giudiziaria alla difesa del posto di lavoro, viceversa, non fa che incrementare il sommerso e scoraggiare la creazione di nuove imprese, soprattutto dove è già difficile essere competitivi, come nel Mezzogiorno. Tutto ciò determina nuove iniquità e una spaccatura crescente tra le diverse aree del paese.

Naturalmente, ciò non significa che il contratto a tutele crescenti sia una panacea. Basterà ad eliminare l’abuso dei contratti atipici? Il recente decreto Poletti che semplifica l’uso dei contratti a termine è coerente con l’ipotesi di fare del contratto a tutele crescenti la strada maestra per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro? Non è detto che tutto funzionerebbe come promesso dagli estensori del progetto. Non bisogna dimenticare che la chiave di volta del successo della Germania sul versante della ripresa economica e dell’occupazione è stata principalmente il decentramento della contrattazione e la flessibilità invece, di agitare lo spettro dell’articolo 18. Un atteggiamento speculare a quello del Centrodestra, che vede, invece, nell’articolo 18, un’occasione per aprire nuove ferite a sinistra. Ma quale sarebbe la lesione dei diritti che il contratto a tutele crescenti verrebbe a creare? Si crede veramente che la preoccupazione di non essere adeguatamente protetti da un giudice in caso di licenziamento per ragioni disciplinari immotivate, o per discriminazione sindacale, sia in cima ai pensieri di un giovane interessato a un rapporto di lavoro stabile e duraturo? È forse meglio rinunciare a ogni cambiamento e rimanere con un vero precariato senza neanche un indennizzo monetario per chi perde il lavoro?

Si può comprendere che il sindacato veda nel contratto a tutele crescenti il pericolo di indebolire la propria forza contrattuale. Si tratta di una reazione poco lungimirante ma, tuttavia, tipica di un’organizzazione che rappresenta principalmente gli interessi di lavoratori stabilizzati. Viceversa, il fatto che la sinistra del Pd sposi in pieno la visione del sindacato su tale questione è frutto di una mancanza di maturità politica. Chi si oppone a Renzi all’interno del Pd ha scelto di farlo sulla base di una divisione ideologica e astratta tra destra e sinistra. Ma una sinistra lontana dai problemi veri del paese rischia di apparire conservatrice e minoritaria di fronte ad un’opinione pubblica sempre più consapevole che il lavoro non si crea con avvocati e carta bollata e che le riforme strutturali sono ormai ineludibili.

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Bruno Vespa – Il Mattino

Matteo Renzi ha un obiettivo chiave. Dire ai rappresentanti europei riuniti l’8 ottobre a Milano per il vertice sul lavoro che l’Italia sta facendo finalmente i compiti a casa. Per questo vuole che il Senato approvi la delega sulla riforma dello Statuto dei lavoratori. Approvare una legge delega non significa tuttavia aver tolto le garanzie dell’articolo 18 della vecchia legge per i nuovi assunti e per un periodo limitato. Dice infatti l’emendamento del governo a un vecchio testo ancora più generico: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Che significa? Tutto e niente. È solo una cornice, com’è appunto una legge delega. I contenuti dovranno esservi inseriti dal governo con un provvedimento autonomo che non dovrà essere approvato dal Parlamento, ma solo inviato per un parere non vincolante.

Il cuore dell’articolo 18 è il reintegro nelle stesse funzioni del lavoratore licenziato senza giusta causa. La volontà del governo è di sostituire il reintegro con un indennizzo economico proporzionato agli anni di lavoro, garantendo al lavoratore un’assistenza e una possibilità di reimpiego assai più efficaci della vecchia cassa integrazione. Ma questa per ora è soltanto una intenzione. Le polemiche degli ultimi due giorni stanno montando per evitare che l’intenzione venga attuata. Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro del Senato per il NCD e già ministro del Welfare di Berlusconi, sostiene che l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti e per tre anni è cosa fatta. Cesare Damiano, già ministro del Welfare di Prodi, e leader dell’ala CGIL del Pd dice che non se ne parla. Giuliano Poletti, ministro del Welfare di Renzi, dice che c’è tempo per parlarne. E ieri Deborah Serracchiani, vice segretario del Pd, ha dichiarato: “Nel testo attuale, il contratto a tutele crescenti non contiene la previsione della reintegra, ma questo non vuol dire che non possa contenerla nelle prossime versioni”. Come dire: non preoccupatevi, abbiamo scherzato.

Dinanzi a questo scenario, Matteo Renzi non può pretendere che i suoi colleghi europei si fidino delle promesse italiane. Siamo convinti che lui voglia portare a compimento l’opera in modo davvero innovativo. È vero che il reintegro forzoso nel posto di lavoro riguarda ogni anno soltanto qualche migliaio di lavoratori. Ma è un simbolo: e la politica, nel bene o nel male, vive anche di simboli. Il reintegro è sostituito in tutti i principali paesi europei da una compensazione economica. E nessuno dei tecnici che hanno scritto le leggi è stato ammazzato come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, né vive scortato da anni come Pietro Ichino e Maurizio Sacconi, che di Biagi fu la sponda politica.

Un’anomalia italiana dovrà pur finire un giorno se vogliamo passare dall’inferno al purgatorio. Renzi ha detto che se entro la fine di ottobre la legge delega non sarà approvata, il governo procederà con un decreto legge. Ma il decreto è peggio della de lega, perché dovrà essere convertito dalle Camere, mentre per 1 attuazione della delega è sufficiente un atto del governo. È possibile perciò che si arrivi a un nuovo voto di fiducia, perché Renzi non può permettersi di far passare la legge con il voto decisivo di Forza Italia. Ma poi che cosa si scrive dentro la delega? La confusione è grande sotto il cielo. E noi abbiamo un disperato bisogno di chiarezza. Renzi pure. Anche a costo di affrontare uno sciopero generale.

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Il Mattino

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136esimo su 144censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del «Centro studi ImpresaLavoro» sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni. L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011. Tra i Paesi delI’Europa a 27 siamo ultimi per la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). E siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario.

Ma cinquant’anni fa l’inflazione negativa non era un problema

Ma cinquant’anni fa l’inflazione negativa non era un problema

Angelo Cremonese – Il Mattino

Era dal 1959 che in Italia non si assisteva al fenomeno della deflazione. Ad agosto, secondo le stime preliminari dell’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo, al lordo dei tabacchi, è aumentato dello 0,2% rispetto al mese precedente e diminuito dello 0,1% nei confronti di agosto 2013. Questa dinamica tendenziale fatta registrare dall’indice generale è da imputare, secondo l’Istituto di Statistica, principalmente all’accentuarsi della flessione del costo dei carburanti. La riduzione dei prezzi si sta estendendo, però, anche al carrello della spesa: i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona registrano una flessione tendenziale (-0,2%), più contenuta rispetto a quella rilevata a luglio (-0,6%), ma che giustifica una certa apprensione. Se non si riuscirà presto a trasmettere stimoli concreti all’economia reale, se gli acquisti e la fiducia dei consumatori non daranno segni di ripresa, se non si spezzerà il legame tra banche e titoli del debito pubblico, se gli effetti degli strumenti non convenzionali di politica monetaria predisposti dalla Bce non riusciranno a raggiungere le imprese, si potrebbe profilare all’orizzonte lo spettro di una vera e propria spirale deflazione-recessione-disoccupazione. 

Cos’è in concreto la deflazione? Con il termine deflazione gli economisti definiscono il fenomeno, opposto all’inflazione, in cui si verifica, per un certo lasso di tempo, una riduzione dei prezzi. Non sempre la deflazione ha effetti negativi e, anzi, può avere anche effetti positivi, soprattutto per i consumatori che possono comprare beni e servizi a prezzi inferiori rispetto al passato. Questa ipotesi si inquadra, però in un contesto in cui i costi di produzione si riducono per effetto della diminuzione dei singoli fattori produttivi dovuta, ad esempio, all’avvento di nuove tecnologie ovvero ad un miglior funzionamento dei mercati divenuti più concorrenziali. Nello scenario attuale, invece, la causa della deflazione va ricercata, purtroppo, nella debolezza della domanda aggregata che ha provocato una riduzione della produzione e dell’occupazione. 

Quali sono le possibili conseguenze? Quando sul mercato si verifica una riduzione della domanda di beni e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e aziende, i prezzi scendono e gli operatori sono incentivati a posporre gli acquisti non indispensabili, con l’aspettativa di ulteriori cali  dei prezzi. Questo comportamento rischia di innescare una spirale negativa: le imprese, infatti, non riuscendo a vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi, cercano di collocarli a prezzi inferiori. Questa riduzione dei prezzi si ripercuote sui ricavi e sui profitti delle aziende, che reagiscono con il tentativo di abbatterei costi, attraverso la diminuzione degli ordini per l’acquisto di beni e servizi da altre imprese e la riduzione del costo del lavoro, con conseguenti tagli all’occupazione e ai salari. I lavoratori a loro volta si ritrovano in condizioni d’incertezza e tagliano gli acquisti, con la conseguenza di un ulteriore indebolimento della domanda, di una più marcata riduzione della produzione.

Cos’è la spirale deflazionistica e come si può spezzare? In sostanza la minore domanda delle famiglie, dovuta al momento di crisi, genera minore offerta delle imprese che reagiscono contraendo l’occupazione dei salari, per effetto di ciò si provoca una ulteriore riduzione di spesa da parte dei consumatori e così via. La via d’uscita da questo circolo vizioso passa dall’approntamento di opportune politiche economiche da parte dello Stato che riescano a riportare la fiducia nel futuro e i presupposti per lo sviluppo economico. La strada di una politica espansiva, basata sulla domanda generata dalla spesa pubblica e da molti considerata una strada obbligata e i vincoli di bilancio imposti dalla partecipazione all’euro, rischiano di rendere più tortuosa questa via. A questo proposito andrebbe considerata con più attenzione dalle autorità europee il ruolo della spesa pubblica, differenziando quella destinata a far crescere e progredire i vari paesi, rispetto a quella improduttiva e clientelare. Per questo è necessario dare segnali di autorevolezza e di serietà varando importanti riforme strutturali. 

Com’era l’economia italiana nel 1959? Nel 1959 in Italia era esploso il “boom”, si registrata una sorprendente crescita di efficienza e prosperità del potenziale produttivo. Dopo la fase della ricostruzione postbellica (1946-48) e il decennio di crescita del capitale (1948-58) gli italiani conoscevano il benessere e il consumismo, la forza delle esportazioni, lo sviluppo della piccola impresa, le emigrazioni dal sud al nord. Il tessuto industriale era ricco di nomi di potenti gruppi come: Fiat, Eni, Olivetti, Pirelli, Falck, Italsider, Snia, Montecatini, Edison, Borletti. Dal 1955 al 1958 il reddito nazionale era aumentato in media del 7,5 per cento all’anno, l’industria privata cresceva al ritmo del 6,8 per cento, i titoli di Stato rendevano attorno al 5,5 per cento. Il confronto con i giorni nostri è improponibile soprattutto in tema di consumi: nel quadriennio del miracolo, dal 1959 al 1963, le famiglie in possesso d’un frigorifero passarono dal 13 al 55 per cento, quelle provviste di apparecchi televisivi dal 12 al 49 per cento, nello stesso periodo si triplica il numero di automobili in circolazione: da 1.392.525 nel 1958 a 3.912. 597 nel 1963. La breve stagione della deflazione in quell’anno così lontano non preoccupò davvero nessuno.

Pochi fondi e burocrazia, riutilizzo flop

Pochi fondi e burocrazia, riutilizzo flop

Giuseppe Crimaldi – Il Mattino

Quanto impiega un bene confiscato alla camorra a trasformarsi in un bene di pubblica utilità? Tanto, anzi troppo. Non c’è solo l’esempio del palazzo di tre piani di Cupa dell’Arco, a Secondigliano, nel quale la famiglia Di Lauro pianificava le proprie strategie di morte, oltre a quelle imprenditoriali della holding degli stupefacenti. I casi di un mancato riutilizzo di immobili sottratti alla “camorra Spa” e mai giunti in dirittura d’arrivo per quel che riguarda la destinazione d’uso con finalità sociali (e ovviamente legali) sono tantissimi.

Al termine della visita nel Casertano e a Napoli è stata la stessa presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi a sottolineare come i meccanismi di assegnazione risultino più che mai inceppati. «C’è uno scarto eccessivo tra beni sottratti e beni utilizzati – ha detto. La magistratura e le forze di polizia fanno la loro parte ma dobbiamo rafforzare la capacità delle istituzioni di assegnare questi beni. Giovedì avremo in Commissione l’audizione del nuovo direttore appena nominato e chiederemo a lui i motivi della mancata attuazione della banca dati, perché non abbiamo una tracciabilità di beni e questo vale anche per le aziende confiscate. Non possiamo permettercelo perché lì c’è il lavoro delle persone a rischio». Ancora più netta la posizione della parlamentare del Partito democratico Luisa Bossa: «Perché la legge regionale sui beni confiscati, approvata due anni fa, non trova attuazione? E perché la Regione Campania non ha chiesto e non utilizza nessuno dei beni confiscati sul territorio alla criminalità organizzata?».

La verità sta nei fatti. Ci sono voluti quattro mesi per nominare il nuovo direttore dell’Agenzia per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (Anbsc): Umberto Postiglione, ex prefetto di Agrigento, poi di Palermo ed ex commissario straordinario per la provincia di Roma. L’ultimo atto di assegnazione di un bene confiscato risale al febbraio scroso, quando il vecchio direttore (il prefetto Caruso) ha affidato alcuni immobili al comune di Eboli, al Corpo Forestale dello Stato, ai Vigili del Fuoco e all’Arma dei Carabinieri. Da quel provvedimento ad oggi, la macchina dell’Agenzia si è fermata.

I numeri da gestire sono enormi: oltre 11mila beni immobili e 1.708 aziende confiscati direttamente. Ma il vero problema, oltre a quello delle assegnazioni e al riutilizzo dei beni, riguarda le aziende che nel 90 per cento dei casi, al momento della confisca definitiva, sono in stato di insolvenza con un grave impatto sui lavoratori e il futuro stesso delle attività. Se poi consideriamo che non esistono solo gli immobili ma anche le aziende, allora il fenomeno si trasforma in un vero e proprio caso. Cominciamo dai numeri, che già da soli indicano quanto delicata sia la situazione. Perché è tanto più cocente la delusione che deriva dal mancato reimpiego delle risorse e delle imprese che – grazie alle indagini delle forze dell’ordine e della magistratura inquirente – si riesce a sottrarre alle mafie. In Italia le aziende confiscate sono 1.708 di cui 623 sono in Sicilia, 347 in Campania, 161 in Calabria e 131 in Puglia. Circa la metà operano tra commercio (471) e costruzioni (477), seguite da quelle alberghiere e dalla ristorazione (173). Tra le imprese confiscate, 497 sono uscite dalla gestione dell’Agenzia nazionale e liquidate. Delle 1.121 ancora gestite, invece, 393 sono ancora da destinare, 342 sono destinate alla liquidazione, 198 hanno un fallimento aperto durante la fase giudiziaria e per 189 è stata chiesta la cancellazione dal registro imprese e/o dall’anagrafe tributaria. Una situazione dinanzi alla quale è chiaro che c’è bisogno di un serio intervento per garantire la continuità d’impresa e salvaguardare i lavoratori. L’eccessiva burocrazia e la crisi economica che getta tutti in uno stato d’incertezza non può essere un alibi. E se è vero che la crisi facilita l’ingresso delle mafie nell’economia sana, è vero anche che devono essere messi in campo tutti gli strumenti per cambiare lo stato delle cose.

Dopo la fase del sequestro e della confisca non si può consentire che un’azienda fallisca. Quel fallimento coinvolge la credibilità delle istituzioni, il concetto di legalità nell’opinione pubblica che potrebbero ritenere la confisca come un danno più che un diritto. In quel fallimento si perdono posti di lavoro. E dire che di proposte sensate se ne fanno, e tante. Molte partono proprio dalle rete del volontariato e dell’associazionismo. Una per tutte: dare alle stesse associazioni presenti sul territorio la gestione di immobili e aziende confiscate.