il messaggero

Spesa PA, contratti al setaccio per un piano di risparmi da 7 miliardi

Spesa PA, contratti al setaccio per un piano di risparmi da 7 miliardi

Andrea Bassi – Il Messaggero

La lettera a firma congiunta inviata a sindaci e governatori dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli e dal super-commissario anticorruzione Raffaele Cantone per segnalare gli sprechi negli acquisti è stata solo «l’antipasto». Nei prossimi mesi tutti i contratti siglati da Comuni, Regioni, Asl e da tutte le altre articolazioni della macchina pubblica, saranno messi al setaccio attraverso l’incrocio di quattro banche dati: quella dell’Authority di vigilanza sui contratti (oggi Anac), quella della Consip, la società per la razionalizzazione della spesa, il Siope e il Sicoget, che sono due database gestiti dalla Ragioneria dello Stato e registrano tutti i giorni ogni spesa pubblica. Chiunque sarà pescato a pagare un bene o un servizio più della Consip (il decreto sui benchmark è stato appena pubblicato) o ad un prezzo più alto di quello di riferimento che sarà presto stabilito dall’Anac, sarà costretto a rinegoziare il contratto e ad adeguarlo ai prezzi di riferimento. Il governo va avanti sulla strada della spending review, dalla quale conta di ricavare nel 2015 fino a 7 miliardi di euro attraverso risparmi ed efficienze. Un obiettivo possibile? «Certo», spiega a Il Messaggero Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, «ma ad alcune condizioni». Quali è presto detto. «Si dovrebbe introdurre una norma», dice Casalino, «che obblighi tutti gli enti ad effettuare una programmazione annua dei loro fabbisogni di acquisto di beni e servizi».

Uno dei principali problemi che si frappone alla razionalizzazione della spesa sono le continue proroghe ai contratti in essere. «Spesso sindaci e assessori, spiega Casalino, «vengono informati che un contratto sta per andare a scadenza solo pochi giorni prima che questo accada, e a quel punto l’unica strada resta la proroga». Una programmazione annuale con un piano delle gare da fare, insomma, permetterebbe di superare questo ostacolo. La seconda condizione e che «si parta subito con la riduzione delle centrali d’acquisto». Matteo Renzi ha preso l’impegno a ridurle da 32 mila a sole 35. La norma che prevedeva il taglio, tuttavia, è slittata al 2015. «Bisogna recuperare il tempo perduto», aggiunge Casalino, «il cronoprogramma prevedeva per quest’anno la riduzione delle centrali d’acquisto, per il prossimo la messa a bando delle gare e per il 2016 i risparmi». La montagna della spesa per beni e servizi (132 miliardi) è ancora alta, ma la scalata e cominciata. La Consip presidia 40 miliardi di questa spesa con 16 miliardi di gare in corso. Alla fine dell’anno riuscirà a garantire 5 miliardi diretti di risparmi, che salgono a 8 miliardi se si considerano le altre efficienze (ogni gara in meno che viene bandita da un Comune o da una Regione lo Stato risparmia tra 50 e 500 mila euro).

Intanto ieri sulla spending review è intervenuto anche il commissario Cottarelli. «Stiamo lavorando», ha detto ascoltato in audizione al Senato, per inserire in legge di Stabilità «una proposta organica di riordino delle partecipate locali». Del pacchetto delle sue proposte ancora non è certo cosa sarà inserito: la scelta, ha sottolineato, «spetta alla politica». Nel suo dossier il commissario aveva stimato risparmi possibili per 500 milioni di euro il primo anno e di 2-3 miliardi a regime nel triennio. Cottarelli ha anche proposto di mettere un limite di nove anni agli incarichi dei manager pubblici per evitare che si consolidino posizioni.

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

Romano Prodi – Il Messaggero

Nella sua visita in California il Presidente del Consiglio ha incontrato un nutrito gruppo di giovani imprenditori italianiche, a migliaia di chilometri di distanza, sono andati a costruire delle “start up”, cioè delle nuove imprese che nascono a grappoli dove esiste un ambiente favorevole. Dove sono disponibili risorse finanziarie e, soprattutto, energie umane giovani e coraggiose. In fondo anche noi abbiamo avuto il periodo delle nostre start-up quando, dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta, fiorivano i nostri distretti industriali, con sempre nuove aziende che fra di loro si integravano e nello stesso tempo si facevano feroce concorrenza. Questo era allora possibile perché le imprese si fondavano su tecnologie semplici e su accessibili fenomeni imitativi, mentre la tumultuosa crescita del mercato permetteva un rapido ritorno degli investimenti. Il tutto era molto adatto all’Italia di allora: pur con tutti i nostri problemi si è perciò potuto parlare di miracolo italiano e vedere le nostre piccole e medie imprese indicate come esempio di efficienza e di innovazione nei manuali di tutte le Business School del mondo.

Oggi viviamo in un pianeta diverso: le imprese fondate sull’imitazione non reggono più di fronte ai nuovi concorrenti mentre le nuove iniziative si fondano su tecnologie raffinate, hanno bisogno di nascere e vivere vicino a università e laboratori di ricerca d’avanguardia e, anche nei casi in cui richiedono capitali modesti, il ritorno del capitale di rischio è a lungo termine. Questo in conseguenza della complessità delle conoscenze da mettere insieme, delle laboriose prove sperimentali e delle autorizzazioni pubbliche necessarie. Il tutto senza tenere conto della difficoltà di reperire credito bancario, data la maggiore facilità nel giudicare il rischio di un prestito concesso a una fabbrica di piastrelle o di abbigliamento che non a un laboratorio che propone nuove molecole o raffinati processi di software. D’altra parte queste sono le aziende del futuro e la loro esistenza condiziona anche la vita e lo sviluppo delle aziende tradizionali.

Non è quindi sorprendente dovere constatare le difficoltà della nostra industria, presa nella tenaglia fra i Paesi a basso costo del lavoro e quelli che fanno tanta ricerca, soprattutto ricerca applicata. Tuttavia, come capita in tutti i casi della vita, se si vuole cambiare qualcosa bisogna prima di tutto partire dalle risorse che abbiamo e cercare di utilizzarle al meglio, sperando di potere in seguito preparare il complesso ecosistema che caratterizza i distretti dove nascono le nuove imprese. Partiamo dal fatto che le nostre risorse spese in ricerca applicata sono scarse, anzi infime, rispetto agli altri Paesi moderni. Abbiamo tuttavia centri di dimensioni non trascurabili, almeno attorno aI politecnici di Torino e Milano, alle università di Bologna e Pisa e al complesso delle università romane e napoletane. Senza nominare la non trascurabile presenza del CNR e dell’Enea. Ho inoltre in mente l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) che è stato opportunamente creato proprio per promuovere la ricerca applicata dedicata a fare avanzare il nostro sistema produttivo e che sta facendo bene il suo mestiere.

Ebbene quando mi sono messo ad analizzare se questi centri di ricerca promuovono nuove imprese sono rimasto profondamente deluso. Le imprese generate sono pochissime e quasi sempre abbandonate a se stesse. E quindi non si sviluppano. I contatti fra le università e le imprese sono scarse, le “start up” non sono capite e non nascono le strutture dedicate a farle vivere. Strutture che, non a caso, nel linguaggio internazionale, sono chiamate “angeli“. Certo gli impedimenti burocratici e le regole allucinanti a cui sono sottoposte le nostre università e le nostre imprese costituiscono la prima difficoltà, ma ho dovuto constatare come siano difficili e complessi i rapporti perfino fra i laboratori d’avanguardia come quelli dell’IIT e la città di Genova che ne ospita le strutture portanti. Ancora ostacoli burocratici ma anche un quasi totale disinteresse del mondo produttivo per capire che cosa si può ricavare da quei ricercatori e da quei laboratori d’eccellenza. Almeno in questi casi la colpa non è certo tutta del governo. Sappiamo che i nuovi business sono difficilmente individuabili, altamente rischiosi e diversi fra di loro. Tra le nuove imprese solo una su cinque (o forse una su dieci) avrà successo ma sappiamo anche che, come accade in tutti gli altri Paesi, il guadagno che deriva dall’impresa di successo costituisce una remunerazione del capitale impiegato molto più elevata della media, anche tenuto conto del costo dei fallimenti.

Mi chiedo perciò come mai, intorno a questi ed altri centri di ricerca, non nascano gli “angeli” in grado di adempiere il complesso compito di legare le imprese all’ecosistema della ricerca, della finanza e delle altre imprese. E mi chiedo perché le autorità pubbliche non ne aiutino in modo prioritario la nascita, impegnandosi anche a contribuire in modo proporzionale agli impegni degli operatori privati. Parlo naturalmente di una presenza minoritaria, perché questo non è un mestiere adatto al pubblico. Ma quanti e dove sono gli operatori privati disposti a rischiare? Ben pochi! Eppure in Italia vi sono sufficienti persone che hanno preparazione, esperienza e conoscenza di uomini per aiutare i giovani ricercatori che si vogliono fare imprenditori, per consigliare a loro gli specialisti di cui hanno bisogno nelle nuove imprese e per dotare le imprese stesse delle necessarie risorse finanziarie. In Italia i potenziali “angeli” non mancano. E non mancano di certo le risorse finanziarie.

Nelle città indicate, ma non solo in queste, basterebbe una infima (ma proprio infima) percentuale delle risorse immobiliari o mobiliari parcheggiate all’estero per dare un contributo concreto all’occupazione giovanile, per rallentare la fuga dei cervelli e per fare si che almeno i colleghi migliori degli imprenditori che Renzi ha incontrato in California possano operare con successo in Italia. Diamo pure alla burocrazia le colpe che si merita ma non dimentichiamo che il coraggio ed il senso del futuro hanno importanza determinante per costruire il nuovo. Ricordiamo Inoltre che i nostri padri, al loro tempo, lo hanno avuto. E, soprattutto, ricordiamo che senza “angeli”non si può arrivare in paradiso.

Lo stato faccia la sua parte rilanciando gli investimenti

Lo stato faccia la sua parte rilanciando gli investimenti

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Secondo il vocabolario le parole fiducia e credito possono avere lo stesso significato. In economia sono due facce della stessa medaglia. Se c’è fiducia ci sono investimenti, e se ci sono investimenti c’è credito. Ma se la fiducia manca, il credito latita. Non c’e dunque da stupirsi che di fronte al protrarsi della recessione, ora per di più abbinata alla deflazione, sia sceso il tasso di fiducia degli imprenditori italiani – a settembre quello calcolato dall’Istat è arrivato a 86,6 il livello più basso dell’ultimo anno – e che, di conseguenza non ci sia domanda di credito. Già, proprio mentre la Bce punta a rilanciare la spesa in conto capitale, privata e pubblica, spingendo le banche a dare più credito, il segnale che arriva alimenta più di un dubbio sulle future intenzioni d’investimento.

Siamo dunque nella paradossale situazione in cui la liquidità è enorme – mentre solo due anni fa parlavamo di credit crunch – ma rimane inutilizzata perché in giro non ci sono nuovi progetti. O meglio, in banca c’è la fila di chi vorrebbe credito per sistemare debito, e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di aziende decotte, la cui crisi è stata solo accelerata dalla pessima congiuntura. Spiace dirlo, ovviamente, ma è bene che le banche, un tempo troppo generose come dimostra il livello delle sofferenze, non aprano quei rubinetti, perché quasi mai ci sono le condizioni del risanamento e del rilancio e quasi sempre si può al massimo prolungare di qualche tempo l’agonia, illudendo imprenditori e lavoratori.

Dunque, è infondata e sterile la polemica contro il sistema bancario che sento fare. Oggi le banche avrebbero tutto l’interesse ad azionare la leva degli impieghi, ma per farlo ci deve essere domanda di credito per nuovi investimenti, e non c’è. E quella poca che c’è finisce per dover pagare interessi elevati, che le banche devono praticare proprio per l’esiguità dei loro impieghi. Certo, ci può essere anche un eccesso di prudenza per paura di commettere i vecchi errori, ma il tema centrale è e rimane la mancanza di progetti. E allora, come si possono rimettere in moto gli investimenti e rilanciare la domanda? Occorre riaccendere la speranza che le cose possono cambiare davvero. E per farlo, dopo la stagione ormai consumata dei gesti simbolici, ci vogliono respiro programmatico e azioni concrete. Per esempio – e qui siamo alla seconda chiave di volta- lo Stato deve tornare a mettere mano al portafoglio. Per fare le cose strategiche, a cominciare dalle infrastrutture materiali e immateriali, che i privati non fanno. Come, visti i problemi di bilancio? Trasformando patrimonio pubblico e spesa corrente in spesa in conto capitale. È il modo più sicuro per dare credito alla fiducia.

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

Oscar Giannino – Il Messaggero

Raffaele Bonanni anticipa la sua successione alla guida della Cisl nel culmine della battaglia sull’articolo 18. E dà in questo un epilogo a una vita di passione sindacale che l’ha visto spesso impegnato in battaglie molto difficili. Se Pierre Carniti l’ha rimproverato di aver troppo rimarcato la “differenza” riformista della Cisl, rispetto all’antagonismo spesso risorgente nella Cgil e nella Fiom, al contrario è per il senso di responsabilità di Bonanni e di chi lha sostenuto alla Cisl su molti accordi innovativi – una per tutte la vicenda Fiat- che, ancora recentemente, purtroppo la confederazione si è trovata ad avere sedi vandalizzate e dirigenti minacciati.

Ora che l’addio di Bonanni è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un Paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo sente di potersi battere per difendere il suo posto sui mercati mondiali.

È invece il suo rapporto con il mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia. In Italia i fatti non sono andati come si poteva immaginare ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un Paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni.

Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i Paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite Iva e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

È in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani, cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’Acta, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

È questa la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni di stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. È un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte. Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

Alessandro Campi – Il Messaggero

Ora o mai più. La minoranza di sinistra del Pd, che era rimasta come tramortita dalla trionfale vittoria riportata da Renzi alle elezioni europee, dopo un periodo di smarrimento e confusione ha trovato nella difesa dell’articolo 18 e nell’opposizione al Jobs Act proposto dal governo la sua ultima ed estrema frontiera di lotta. Se vince, tornerà ad essere condizionante e potrà prendersi la rivincita su chi ne aveva auspicato l’estinzione. Se perde, sarà per sempre e in Italia, bene o male che sia, si imporrà una sinistra diversa da quella conosciuta per decenni. La battaglia che essa ha deciso di combattere presenta una valenza duplice: strategica e tattica. Lo scontro sul lavoro è culturale in senso nobile e politico-parlamentare nel suo significato più contingente. L’esito, fallimentare o vincente, sarà il frutto convergente di queste due linee d’azione.

Partiamo dal primo aspetto. All’inizio quella di Renzi è parsa una propaganda tutta giocata sul tema del ricambio generazionale fine a se stesso: dentro i giovani, fuori i politici di lungo corso. Ma presto si è capito che erano in ballo altre prospettive e tematiche. La rottura renziana rispetto alla sinistra che governava il Pd, di matrice post-comunista e post-democristiana, riguardava anche il linguaggio, l’estetica e la visione della società. Renzi è un rappresentante dell’era televiso-digitale, ha introiettato i valori dell’individualismo, vive la politica come scontro tra leadership, non sente il peso delle appartenenze ideologiche. Renzi è intellettualmente un semplificatore, ha una cultura di governo che inclina al pragmatismo, non considera la società come una realtà da disciplinare o da indirizzare secondo modelli pedagogici dall’alto, nutre un’istintiva insofferenza per tutto ciò che è apparato o burocrazia, coltiva il mito giovanilistico della velocità e dell’immediatezza. Tutto ciò lo ha messo in urto con la sinistra storica italiana, le sue strutture organizzative, i suoi schemi mentali e i suoi valori di riferimento: il partito come luogo di discussione e confronto tra anime, correnti e gruppi, ma anche come “casa comune” alla quale subordinare la propria personalità; l’ideologia di appartenenza come fattore identitario e strumento privilegiato di analisi della realtà; una tradizione culturale intrisa di pauperismo e avversione per la ricchezza; la subordinazione dell’individuo (e delle sue aspirazioni) alla dimensione collettiva del vivere associato; il moralismo portato al limite dell’intransigenza nel rapporto con gli avversari; una visione socialmente statica e stratificata della società; una relazione sentimentale-emotiva con la propria base elettorale di riferimento vissuta come strutturalmente stabile; la complessità dei ragionamenti e delle analisi sino a sconfinare nell’intellettualismo e nell’astrattezza.

Quella di Renzi, proprio per queste differenze, è stata spesso definita dai suoi critici interni una sinistra, per così dire, troppo di destra, aliena rispetto alla visione convenzionale che si ha di una politica orientata in senso progressista e riformistico. Ma a spazzare i dubbi sull’autenticità e, al tempo stesso, sulla novità della sua proposta ci hanno pensato prima i militanti dello stesso Pd, che lo hanno incoronato segretario attraverso le primarie, poi gli elettori, che gli hanno consegnato percentuali di consenso mai toccate prima da quel mondo e dai suoi rappresentanti. Ma sul nodo del lavoro – che rappresenta in effetti il dna storico-ideologico della sinistra in tutto il mondo, sin dalle origini – si è pensato di poter nuovamente riproporre l’idea che Renzi, con la sua ansia innovatrice, sia in realtà prigioniero di pregiudizi ideologici e di una visione dei rapporti sociali che lo imparenterebbero addirittura con la signora Thatcher, l’esponente del liberismo più nerboruto e aggressivo. Bloccare il Jobs Act, in Parlamento o addirittura ricorrendo ad un referendum tra gli iscritti al partito, è diventato a questo punto un modo – l’ultimo e definitivo – per dimostrare l’eccentricità di Renzi rispetto alla tradizione della sinistra su una tematica che per quest’ultima riveste un valore simbolico prima che politico. Facile vantarsi di essere riformisti quando si combattono gli sprechi della pubblica amministrazione. Ma il bluff ideologico viene a galla quando si tolgono ai lavoratori i loro diritti costituzionali.

Oltre quella identitaria e ideale, c’è poi la battaglia tattica e strumentale. Renzi pensava, dopo essersi impossessato del partito, di poter indirizzare anche il voto dei gruppi parlamentari: scelti quanto Bersani era segretario, ma tenuti per disciplina ad un atteggiamento di lealtà verso il nuovo leader. Si è scoperto che così non è. Per aver gruppi politicamente disciplinati e culturalmente allineati, Renzi dovrà aspettare le prossime elezioni. Nel frattempo deve accettare una guerriglia parlamentare che – alla luce di ciò che è successo ieri: quaranta senatori del Pd hanno firmato gli emendamenti che puntano a bloccare la riforma dell’articolo 18 – potrebbe costringerlo, se vuole tirare dritto sul suo progetto di riforma, ad accettare i voti in aula di Forza Italia. Nascerebbe a quel punto una nuova maggioranza de facto. Ciò autorizzerebbe i suoi avversari interni – che alle pulsioni antiberlusconiane non hanno mai rinunciato, essendosi politicamente formati col mito negativo del Cavaliere nero – a trarne le ovvie conseguenze: una crisi di governo che nei loro piani non dovrebbe però preludere ad elezioni anticipate (del resto esclude dallo stesso Capo dello Stato). L’obiettivo è quello di liberarsi di Renzi, da sostituire magari con l’ennesimo tecnico, non offrirgli l’occasione per un referendum sulla sua persona che, anche senza cambiare l’attuale legge elettorale, vincerebbe a mani basse.

Da un lato, sottraendogli in Parlamento i voti del suo partito, si vuole spingere Renzi tra le braccia di Berlusconi. Dall’altro – come sembra mostrare la vicenda delle votazioni a vuoto sui giudici costituzionali – si vuole fare saltare l’accordo politico tra i due, che la sinistra interna non ha mai digerito ritenendolo innaturale. Sembrano prospettive contrastanti, si tratta in realtà di due strade finalizzate allo stesso traguardo: porre fine al disegno egemonico di Renzi, impedire che un fenomeno politico-culturale che gode di largo credito nel Paese ma ancora in via di strutturazione possa radicarsi alla stregua di un progetto organico. Resta naturalmente da chiedersi quanto in questo disegno demolitore, che unisce spinte ideali a un manifesto cinismo, risponda ad un calcolo politico razionale, che gli elettori progressisti, una volta uscito Renzi di scena, potranno persino apprezzare, o più semplicemente ad una pulsione fratricida, suicida e nichilista, che è la vocazione più autentica della sinistra italiana.

Cassa integrazione, un meccanismo da smontare

Cassa integrazione, un meccanismo da smontare

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Caro Renzi, già che hai intenzione di fare 30, fai 31. O meglio, se fai 18 (quel solo articolo o addirittura l’intero Statuto dei lavoratori), fai allora un passo in più e smonta la cassa integrazione. Proprio ieri la Uil ci ha fornito gli ultimi dati: nei primi otto mesi di quest’anno si sono consumate circa 714 milioni di ore, corrispondenti a mezzo milione di posti di lavoro mantenuti artificialmente in vita. A fine anno si conteggerà poco meno di un milione c mezzo di lavoratori bisognosi di tutele.

L’altra faccia della medaglia di questi dati è rappresentata da quelli relativi alle imprese. La produzione industriale dal 2007 è scesa del 25%. Una perdita ormai consolidata e che nulla fa prevedere possa essere non dico assorbita ma almeno ridotta. E questo nonostante il forte rimbalzo delle scorte: per la prima volta da oltre un anno, le imprese segnalano un’eccedenza dei magazzini, il cui saldo sale ai massimi dal 2011. Un segnale del fatto che le aspettative di ripresa della domanda non si stanno concretizzando. E la premessa che una volta riempiti i magazzini, si dovrà ulteriormente rallentare la produzione.

Ora, in una condizione come questa, che dura da sette anni, è difficile credere che siamo di fronte ad imprese momentaneamente in difficoltà, che si stanno ristrutturando e in tempi ragionevoli torneranno in piena attività. Dunque, perché spendere una montagna di quattrini per tenere in vita posti di lavoro che solo in pochi casi si potranno dawero salvare? Non è meglio usare queste risorse per sostenere i lavoratori con un sussidio di disoccupazione? È non solo inutile, ma controproducente immaginare che la ripresa della nostra economia passi dal mantenimento in vita di aziende che non hanno più le caratteristiche giuste per competere. Meglio accelerare la loro morte e creare le condizioni per farne nascere di nuove, profilate sulle esigenze dei mercati di oggi. Pensate forse che se non fosse intervenuta la recessione quel quarto di produzione industriale che abbiamo perso sarebbe rimasta in vita? Forse per qualche mese, un paio d’anni, poi avrebbe dovuto soccombere perché quella che attraversiamo non è una crisi congiunturale, ma una stagione di cambiamenti epocali. Allora, mettiamo al riparo i lavoratori – non i posti di lavoro – sostenendoli con un welfare adeguato, che vada loro incontro ma che nello stesso tempo cessi qualora il sussidiato dovesse rifiutare offerte di impiego. E mettiamo le imprese nella condizione di affrontare la crisi con tutta la flessibilità possibile.

La libertà di licenziamento, con indennizzo ma senza clausola di reintegro, è uno strumento utile, ed è un riflesso ideologico pensare che gli imprenditori siano interessati ad abusarne. Anzi, essa li spingerebbe ad evitare tutte quelle forme contrattuali che in questi anni sono state inventate per evitare le rigidità del tempo indeterminato. Ma non basta. Occorre che il Welfare non induca gli imprenditori a voler essi stessi mantenere in vita aziende decotte. Una rivoluzione darwiniana, ecco quello che serve.

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Roberta Amoruso – Il Messaggero

L’ultimo giorno d’estate è arrivato. E Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo: non dovrà andare a piedi da Firenze a Monte Senario. Perché il premier Matteo Renzi non ha mantenuto la promessa. Gli ormai famosi 57 miliardi di debiti della pubblica amministrazione non sono stati pagati fino all’ultimo euro entro il giorno di San Matteo, il 21 settembre, come aveva firmato e sottoscritto il premier, seppure soltanto a parole, nella ormai storica puntata di «Porta a Porta» del 13 marzo scorso. Non solo. Per la verità non è una questione di spiccioli. Mancano all’appello ben 26 miliardi a fronte dei 57 miliardi di risorse messi già a disposizione dai governi a fronte di debiti della Pa stimati intorno a 60 miliardi alla data del 31 dicembre 2013.

Certo, sono stati pagati più debiti della Pa di quelli rimasti ancora in sospeso visto che lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha fatto sapere nei giorni scorsi che ai 26 miliardi di euro di debiti certificati e già pagati secondo il sito del Mef andrebbero aggiunti almeno altri 5 miliardi (per arrivare a circa 31 miliardi). Ma la promessa di Monte Senario è diventata ormai un simbolo, soprattutto perché nella stessa puntata nel salotto di Vespa lo stesso Renzi ricordava una frase storica di Walt Disney: «La differenza tra un progetto e un sogno è la data». E dunque le date contano, ricordano da Confartigianato e dalla Cgia di Mestre. Ma non perde l’occasione per un tweet anche Renato Brunetta, capogruppo Fi alla Camera: «Domani è 21 settembre (San Matteo): il Mef aggiornerà il sito? Saranno stati pagati tutti i 68 miliardi di debiti Pa promessi da Matteo Renzi?».

A questo punto sarà difficile mettere sul tavolo una nuova data. Ma fonti vicine al Mef parlano di poche settimane, forse un paio di mesi, per portare a termine un percorso già avviato anche per i restanti 26 miliardi. Una buona fetta di debiti sarebbe infatti già in fase di istruttoria. Un passaggio obbligato, questo, con un tempo di 30 giorni per le verifiche, che scatta non appena le imprese fanno domanda di certificazione dei crediti. Il punto è proprio questo infatti per il Mef. Se arriveranno in fretta tutte le richieste di certificazione, ingorghi permettendo, il saldo dei debiti arriverà. Seppure con un rinvio sulla tabella di marcia. Insomma, le risorse stanziate per gli anticipi di liquidità agli enti locali ci sono (circa 57 miliardi appunto). Ma per usufruire delle garanzie dello Stato c’è tempo fino a ottobre e molte imprese si sarebbero mosse in ritardo, a quanto pare. Di qui lo slittamento. Si spera che nel frattempo non si siano accumulati altri debiti. Ma anche su questo, il meccanismo introdotto con l’obbligo di certificazione elettronica (introdotto dal decreto 66) sembrerebbe mettere al riparo da nuovi accumuli.

Intanto, però, i conti non tornano e oltre 20 miliardi rimangono nel limbo. Secondo il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti, mancano all’appello 21,4, vale a dire il 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014, se si considera che al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, stando al sito del Mef. Lo stesso Merletti riconosce gli sforzi fatti negli ultimi due anni «con un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti della Pa (il 3,3% del Pil)». Restano da saldare altri 24-25 miliardi, invece, secondo i conti della Cgia di Mestre che parte dai 56,8 miliardi messi a disposizione dei governi negli ultimi due anni. La cifra è sottostimata, avverte però la Cgia: se dallo stock dimensionato dalla Banca d’Italia (75 miliardi di debiti commerciali) si tolgono gli 8,4 miliardi ceduti pro soluto a intermediari finanziari, la Pa deve pagare ancora 35 miliardi».

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Il falso mito delle garanzie sul lavoro e i veri numeri

Oscar Giannino – Il Messaggero

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 è un mito, e per questo da decenni è diventato un tabù da non toccare. Perché i miti hanno forza evocativa, sono bandiere di valori, stendardi di visioni ideologiche. Per questo è così difficile mutarli. Non si piegano alla logica dei numeri. Rimbalzano sulla realtà dei fatti. Perché si misurano con il metro delle utopie, non della realtà che per definizione non soddisfa l’idealista. Ecco perché da una parte è buona cosa che Matteo Renzi abbia dato un forte impulso alla possibilità di modificarlo, usando a sua volta termini «valoriali», e proclamando «basta con l’apartheid dei diritti». Dall’altra parte però bisogna saperlo: ora per una parte non trascurabile della sinistra e per i sindacati si ripropone lo stesso campo di battaglia sul quale hanno vinto e rivinto da 50 anni a questa parte, respingendo ogni volta chi voleva scalfire il mito.

Se guardiamo alla realtà, i termini della questione dovrebbero essere del tutto diversi. Per evitare l’ennesima riforma al margine delle regole sul lavoro – ogni governo italiano pasticcia con incentivi e disincentivi per questo o quel contratto, credendo di far bene e complicando solo la distorsione generale che su domanda e offerta di lavoro esercitano migliaia di pagine di norme – pochi numeri dovrebbero essere posti al centro. Se guardiamo alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era fermo al 49,9%, mentre quello tedesco era al 72,3 percento. Se depuriamo i dati dai cassintegrati e disoccupati “ufficiali” che risultano come lavoratori, “attivi” che cercano lavoro, e assumiamo come base l’intera popolazione nazionale, da noi lavora un italiano su tre, in Germania due tedeschi su tre. Questo è il problema numero uno: abbiamo un’enorme gap di occupabilità rispetto al quale rimuovere ostacoli. a cominciare da giovani, donne e over-55. Secondo problema, altrettanto grave: la produttività. Da noi i salari registrano da molti anni un andamento totalmente scollegato rispetto alla produttività: se guardiamo alla manifattura e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita solo verso quota 110 e i salari orari sono arrivati oltre quota 155, mentre nell’eurozona la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dunque deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità sia quelli alla produttività.

Naturalmente, per gli idealisti dell’utopia questi numeri sono invece da respingere. Descrivono un mondo sbagliato perché vuole remunerare anche il capitale per produrre, mentre bisogna che le norme affermino un mondo dove non contano gli interessi, ma solo i valori. Se fate loro osservare che l’articolo 18 si applica oggi a una minoranza netta rispetto ai 22,4 milioni di lavoratori italiani ufficiali – visto che i dipendenti a tempo pieno e parziale sopra la soglia dei 15 per azienda sono circa 9,4 milioni, e dunque ha ragione Renzi a dire «basta apartheid» visto che ne sono esclusi i contratti a termine, i cocopro, gli autonomi, le partite Iva – ti rispondono che al contrario è un buon motivo per estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori: perché è questione di principio. E poco importa se l’estensione delle forme di lavoro meno tutelate per intere generazioni di più giovani è stata dovuta all’effetto-disincentivo rappresentato dall’elevato costo-fisso del rapporto di lavoro acceso «per sempre», in aziende che oggi devono rispondere a una domanda che varia a settimana. Ti diranno che è colpa della globalizzazione, e a quel punto non c’è più confronto possibile, visto che è proprio sull’export verso il mondo che l’Italia deve puntare a breve per tornare alla crescita, mentre per rianimare la domanda interna serviranno tempi più lunghi. Di conseguenza. la battaglia sarà dura. E il rischio è che ancora una volta si perda di vista l’obiettivo più importante.

Con la delega emendata dal governo – e che in Parlamento susciterà un duro contrasto anche nel Pd – si mira a un codice semplificato del lavoro che prevede un contratto d’inserimento triennale incentivato fiscalmentee a tutele crescenti, che prevede per i nuovi assunti in caso di licenziamento il superamento della reintegra giudiziale, che nella riforma Fornero convive ancora con la possibilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici. Resterebbe solo l’indennizzo, proporzionato alla durata dell’impiego sinora svolto. Ma senza più distinzione di soglia dei 15 dipendenti, ed esteso anche agli ambiti di lavoro e contrattuali oggi esclusi.

Non è ancora chiaro se l’indennizzo resterebbe per i licenziamenti economici anche dopo i tre anni. Se si limita l’indennizzo per i licenziamenti economici a soli 30 mesi, come sembra di capire, in realtà si segmenterebbe ulteriormente l’apartheid italiana del lavoro. Ma il governo intende questo come “uno” dei pilastri, non “il” pilastro: perché si affianca a un nuovo strumento universale di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, volto alla formazione e alla rioccupabilità tramite il nuovo “contratto di ricollocazione”, superando cioè in toto il sistema Cig e la sua illusione di difendere il lavoro “com’era e dov’era”; e alla rivisitazione profonda – speriamo coraggiosa – dei vecchi uffici provinciali del lavoro, creando un sistema di incrocio tra domanda e offerta aperto agli intermediari privati accreditati, e incentrato anch’esso su crediti di formazione per il reimpiego.
Da questo schema resta ancora fuori la produttività: occorre una svolta vera a favore dei contratti decentrati, dando loro la possibilità di prevalere sul contratto nazionale di categoria anche per la parte salariale, lasciando alla contrattazione nazionale solo le tutele e i minimi salariali, cioè i “diritti”, ma scegliendo di trattare turni, orari e salari nelle aziende, compartecipando ai lavoratori premi retributivi sostanziosi quando le cose vanno bene, e decrementi a tutela dell’occupazione quando le cose vanno male.

E c’è anche un’altra insidia. Perché il nuovo contratto d’inserimento sarà interpretato dagli utopisti come una forma che deve sfociare comunque nell’assunzione a tempo indeterminato per tutti. Sbagliando due volte. Primo perché le imprese hanno bisogno anche dei contratti a tempo determinato. E secondo perché la strada maestra per l’inserimento al lavoro dovrebbe essere quella dell’apprendistato professionalizzante, affiancando scuole e università alle imprese sin dall’istruzione superiore, come avviene con enorme successo in Germania.

Siamo reduci dal fallimento degli incentivi al tempo indeterminato voluti da Letta e Giovannini, ed è in corso una colossale presa per i fondelli a 200 mila giovani che avevano creduto a Garanzia Giovani, e che in nove casi su dieci non hanno ottenuto sinora neanche un colloquio di orientamento. Ecco i nuovi frutti dell’utopismo calato dall’alto su troppe regole disincentivanti. Poiché è molto difficile aspettarsi dal governo un energico taglio delle imposte su imprese e lavoro, almeno ci si risparmino scioperi generali sull’articolo 18. Perché, con rispetto parlando, davvero non è il problema centrale dell’Italia, ma solo un mito che i numeri respingono.

Conti pubblici, entrate in affanno

Conti pubblici, entrate in affanno

Luca Cifoni – Il Messaggero

Il segno è negativo: di poco, ma comunque negativo. Più esattamente, nei primi sette mesi di quest’anno le entrate tributarie si sono ridotte di 1,3 miliardi owero dello 0,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013. Il modesto incremento del solo mese di luglio (247 milioni in più, pari ad un +0,7 per cento) non è bastato ad invertire una tendenza non brillante che deriva da un lato dalla mancata crescita (e dallo stesso basso livello di inflazione) dall’altra dalla scelta del precedente governo di maggiorare gli acconti dovuti alla fine dell`anno scorso, penalizzando inevitabilmente gli incassi del 2014.

Di questo andamento non potrà non prendere atto la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def), attesa per l’inizio di ottobre. Nel Def dello scorso aprile, in un contesto di previsioni economiche ben più ottimistiche, il Tesoro aveva stimato per quest’anno un incremento nominale delle entrate tributarie (a livello di conto delle amministrazioni pubbliche) intorno al 3 per cento. Un ritmo che ora appare irrealistico, anche se naturalmente è possibile che ci siano dei miglioramenti nei mesi successivi.

In realtà ci sono grandi preoccupazioni per quanto riguarda il 2014: si ritiene che le minori entrate saranno compensate da altre voci positive come la minore spesa per interessi indotta dal forte calo dei rendimenti di mercato. Ma la flessione del gettito si farà sentire anche negli anni successivi, a partire dal prossimo, nel quale andranno trovate le risorse per finanziare una serie di sgravi fiscali a partire da quello sull’Irpef. Più dettaglio, da gennaio a luglio si è ridotto il gettito delle imposte dirette, che si è fermato a 128,2 miliardi (quasi 4,9 in meno con una flessione del 3,7 per cento). La variazione negativa è dello 0,6 per cento per l’Irpef, anche se c’è stato un miglioramento dei versamenti in auto-liquidazione; molto più marcato il calo dell’Ires pagata dalle società, che riflette essenzialmente i minori saldi versati in particolare da banche e assicurazioni che si erano viste portare al 130 per cento la percentuale dell’acconto. Ha invece fruttato 1,7 miliardi l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia, una voce una tantum collegata alla decisione di rivedere gli assetti proprietari della banca centrale.

È invece positiva la tendenza delle imposte indirette, che arrivano a 104,4 miliardi con un incremento del 3,5 per cento (3,6 miliardi in più). Va abbastanza bene l’Iva (+3,1 per cento) ed in particolare quella sugli scambi interni che cresce del 4,1, mentre resta negativa quella sulle importazioni da Paesi extra-Ue che pure ha avuto un segno positivo nel solo mese di luglio.

Sul buon risultato dell’imposta sul valore aggiunto incide naturalmente anche l’aumento di un punto, dal 21 al 22 per cento, dell’aliquota ordinaria. Il ministero dell’Economia segnala infine un incremento del gettito derivante dalle attività di accertamento e controllo che hanno portato 528 milioni in più.

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

Mauro Calise – Il Messaggero

Sul lavoro che sta compiendo il governo Renzi resta ancora da capire quanto il premier sia davvero bravo nel gestire i dossier più scottanti, dal lavoro all’economia e alla giustizia. Per non parlare dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, come le grandi riforme che sono, per definizione, incompiute. Tutti continuano a ripetere che i risultati tardano a venire, come se tutti ce l’avessero in tasca, la ricetta miracolosa. Dimenticando che i predecessori hanno fallito pur disponendo di maggioranze bulgare: politica per Berlusconi, tecnica per Mario Monti, bipartisan per Enrico Letta. E che i pari-grado all’estero versano in acque ben peggiori: Hollande continua a cambiare i titolari dei ministeri chiave, e a scendere in picchiata nei sondaggi. Ma a Renzi, anche per la giovane età, tocca almeno un esame al giorno. E i voti si van facendo più severi. Al premier, però, tutto questo non dispiace. Anzi, gli va a pennello. Ciò che conta, per i prossimi mesi, non è sfornare improbabili vittorie sul fronte dei dati duri di una ripresa economica che – Draghi ce l’ha fatto capire – non darà frutti prima di un paio di anni. Ma restare ben piantato al centro dei riflettori mediatici, tenendone saldamente il monopolio. Inventandosi ogni giorno un evento, un cambiamento di agenda, uno slogan accattivante. O un repentino cambio di passo, da sprinter a maratoneta. 

Ed ecco serviti tutti quelli che si erano adagiati sull’immagine di un Renzi obbligato a correre, costantemente proteso al sorpasso delle sue stesse iniziative. Il premier, da oggi, rallenta. Si prende tutto il tempo necessario a rimettere in pezzi un Paese scassato da cima a fondo. Da piè veloce Achille a tartaruga. Tanto, per dirla con Zenone, chi è in grado di superarlo? L’asso nella manica di Renzi resta questo: non ha concorrenti. Non c’e nessuno oggi in grado di sfidarlo sul grande palcoscenico mediatico, prima ancora che su quello politico. Ed è questa la principale dote di cui il premier ha dato prova straordinaria. Una gestione geniale, impeccabile della comunicazione personale col grande pubblico trasversale. 

In questo, gli va dato atto, è andato oltre lo stesso Berlusconi, che certo l’ex sindaco ha studiato in ogni minimo dettaglio. Il Cavaliere aveva un suo partito e proprie reti televisive. Renzi agisce da battitore libero. Si è inventato tutto da solo. E chi pensa che questa capacità non rientri tra le qualità di uno statista, non ha capito niente di quello che è successo in questi ultimi decenni. Col passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella incentrata sul leader. E sulla sua capacità di catturare l’immaginario collettivo. 

Rientra in questo stesso scenario anche la scelta, difesa coi denti, di ottenere per la Mogherini – una renziana d’acciaio – il ruolo di portavoce agli Esteri dell’Unione Europea. Una scommessa che riguarda la possibilità che, nel caotico panorama internazionale che si va sempre più surriscaldando, si creino spazi per sortite – coraggiose, fuori dal coro – ad alto potenziale di impatto sulla opinione pubblica, italiana e più in generale occidentale. E’ improbabile che il premier si faccia illusioni che nostre eventuali proposte riescano a condizionare play-maker ben più pesanti, come gli Usa o la Germania. Ma al carnet del suo agenda-setting, fino ad oggi ristretto all’ambito nazionale, Renzi ha aggiunto un teatro a visibilità illimitata. Schierando una donna giovane, con mestiere e temperamento, che suscita curiosità e simpatia. All’immagine di un’Europa impantanata nel proprio passato, non potrà che giovare questa incursione di futuro.