il secolo xix

L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

L’unica via d’uscita è trasformare i risparmi in lavoro

Giuseppe Berta – Il Secolo XIX

La crisi, in cui siamo entrati nell’autunno di sei anni fa e di cui non riusciamo a vedere la fine, presenta una differenza fondamentale rispetto alle precedenti: non è un passaggio congiunturale, una fase che una volta superata lascia ritenere che le cose riprenderanno più o meno come prima. No, la crisi attuale rappresenta una distruzione tale di ricchezza e, soprattutto, di capacità produttiva che prepara un declino strutturale del sistema economico del nostro Paese. L’Italia già oggi non assomiglia più alla realtà che era ancora pochi anni fa. Ieri ce lo ha detto con inconsueta chiarezza e drammaticità il Cnel (a proposito, non era uno degli enti soppressi dal governo in carica? Fino a quando farà ancora sentire la sua voce?). Dal punto di vista occupazionale, non si tornerà alla situazione precedente alla crisi. Mancano all’appello due milioni di posti di lavoro e non si sa come potrebbero essere creati, dal momento che sono venute meno le basi economiche da cui dipendevano. L’Istat non è stato più rassicurante, anche se ha usato toni meno drammatici: prezzi e consumi continuano a flettere e segnali di ripresa non si vedono. Il mercato interno prosegue nel suo ripiegamento. L’occupazione complessiva ha fatto registrare un lievissimo miglioramento, ma quella giovanile è scivolata ai suoi minimi.

Questi gli indicatori che fanno da sfondo alla discussione politica sul Jobs Act. Ma a questo punto bisognerebbe mettere gli italiani di fronte alla vera questione che abbiamo davanti: se non cambieremo il corso della nostra economia, l’Italia tomerà a essere il Paese povero che era stato negli ultimi secoli, fino alla seconda guerra mondiale. Ciò vorrebbe dire che la popolazione attuale ha avuto la sorte di vivere una parentesi felice, quei cinquanta-sessant’anni inaugurati dal “miracolo economico” che per un po’ ci hanno fatto credere che potessimo diventare “ricchi”, assimilandoci progressivamente al nucleo forte dell’Europa. Ora stiamo scoprendo che è stata un’illusione. A meno che…

A meno che ci decidiamo finalmente a mobilitare i nostri risparmi e a impiegarli nello sviluppo di una serie di attività in grado di ricostituire la ricchezza della nazione, dando un posto di lavoro decente ai nostri concittadini, specie quelli più giovani, che hanno diritto a coltivare una speranza. Serve un’operazione in grande stile, cui non siamo abituati. Serve un grandioso esercizio di leadership condotto non sui particolari (come l’articolo 18), ma sulla sostanza. Nelle condizioni in cui l’Italia è oggi, bisognerebbe varare qualcosa di analogo alla Commissione economica della Costituente del 1946: consultare gli operatori economici e chiedere quale via di sviluppo potremmo seguire per uscire dalle sabbie mobili. E poi mobilitare risparmio e lavoro per una strategia di investimento che rilanci la nostra economia, ma su basi nuove rispetto a quelle del passato (che in buona parte non esistono più). In altre parole, invece di amministrare con cautela e parsimonia un patrimonio destinato a consumarsí, significherebbe investirlo, essendo disposti a rischiare. Sta a noi tutti – e non solo alla nostra carente classe dirigente – decidere se farlo oppure se rassegnarci al grigiore del declino.

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Massimo Scotton – Il Secolo XIX

Il sistema fiscale del nostro Paese necessita da tempo di essere riformato, è un tema che da anni, meglio decenni, ascoltiamo dibattere tra le forze politiche di ogni tendenza, con particolare intensità in periodi di campagna elettorale, nei quali spesso si sente parlare di semplificazione forse senza conoscerne a fondo il significato. Risultati concreti tuttavia non se ne sono visti, anzi. La crisi economica porta alla ribalta l’eccessiva onerosità del carico fiscale su cittadini e imprese oltre alla continua difficoltà di reperire gettito a copertura della spesa pubblica. Fa sorridere, per inciso, leggere la proposta di adeguamento dell’imposta di successione ai più alti standard europei, laddove non si ricorda a memoria di uomo che vi siano mai stati adeguamenti al ribasso in numerosi altri settori impositivi nei quali siamo leader indiscussi a livello europeo, se non mondiale. Ho inteso pertanto riferirmi al sistema fiscale, piuttosto che a questa o quell’imposta nel particolare, per il fatto che è l’intero impianto a dover essere riformato affinché possa costituire una infrastruttura su cui possa basarsi l’attività economica, produttiva e sociale per lo sviluppo del Paese nei prossimi decenni.

L’attuale condizione ha generato inoltre la tangibile compromissione del rapporto di fiducia tra i cittadini, lo Stato e nel particolare la sua amministrazione finanziaria. Quali fattori hanno determinato questa situazione? Un sistema fiscale complesso, fatto di norme per la maggior parte emanate con decretazione di urgenza, che non si inseriscono in maniera organica in alcun disegno globale di tassazione bensì alterano di volta in volta le precedenti condizioni. Un legislatore fiscale che spesso dimostra di non conoscere la materia lasciando ampi varchi a postume interpretazioni. Un sistema sostanzialmente mutante, instabile, spesso persecutorio, mai precettivo, che si traduce in una tassazione ormai insopportabile sia in termini diretti che in termini di oneri indiretti e costi di compliance a carico di imprese e cittadini. Una condizione di incertezza costante non più sostenibile che penalizza altresì gravemente l’immagine del nostro Paese.

L’Italia infatti è stabilmente accreditata di un “deficit di attrattività” per quanto riguarda gli investimenti esteri che preferiscono altre sedi europee, anche in uscita dall’Italia. Le recenti statistiche hanno preso in esame l’ultimo ventennio con raffronti allarmanti: un gap di uno a cinque tra noi e la Gran Bretagna ad esempio, ma non solo, Francia e Germania quasi il triplo rispetto a noi. Tutte le altre nazioni europee riescono a vendere il loro sistema molto meglio dell’Italia, con una legislazione semplice, certezza e stabilità del diritto, poca burocrazia, bassa pressione fiscale e non certo favorendo l’evasione, attraendo quindi, inesorabilmente, capitali ed investimenti. È un mercato anche questo, globale, sul quale è obbligatorio competere. Gli indirizzi espressi alla stampa dal nuovo Direttore dell’Agenzia delle Entrate all’atto del suo insediamento hanno posto in evidenza un rinnovato approccio di valutazione nei confronti di ciò che effettivamente concretizza fenomeni di evasione fiscale rispetto ad errori di interpretazione o applicazione delle norme esistenti. Non si può che condividere tale approccio auspicando ancora una volta che le leggi in materia fiscale diventino più chiare, semplici, a tutto vantaggio di un concreto sostegno all’attività di contrasto a comportamenti chiaramente orientati al compimento di illeciti.

A livello comunale abbiamo assistito ad un notevole inasprimento della tassazione con l’introduzione di nuovi tributi locali il cui pagamento è in scadenza nei prossimi mesi. A questi si aggiunge la rateazione delle imposte a saldo e acconto per le annualità 2013 e 2014. Un impegno pressante per i cittadini e le imprese. Gli enti locali hanno emanato una normativa regolamentare improvvisata, per nulla omogenea sul territorio nazionale, istituendo nuovi tributi Iuc,Tari, Tasi, in parte sostitutivi di altri, le vecchie Ici e poi Imu. Il risultato allo stato attuale è devastante in termini di oneri a carico del cittadino nel reperire aliquote comunali, esenzioni, detrazioni ed altro al fine di poter adempiere con una qualche minima tranquillità all’obbligazione tributaria. Alcune municipalità provvedono, e bene fanno, ad inviare a domicilio bollettini precompilati, altre devono ancora decidere le aliquote. Davvero complicato adempiere da parte del cittadino e di chi professionalmente lo assiste. Benvenuti siano quindi gli 80 euro in busta paga, anche se la maggior parte finisce verosimilmente in pagamento dei tributi comunali nel prossimo mese e la rimanente in pagamento delle rate di prestiti al consumo 60 mesi con i quali è stata comprata la produzione industriale degli anni 2008/2009. Per quella di oggi non ci sono più soldi. Per il legislatore nazionale c’è veramente spazio per una riforma del sistema fiscale italiano, purché davvero abbia voglia di cominciare.

Come riscrivere l’articolo 18 senza ideologie

Come riscrivere l’articolo 18 senza ideologie

Massimo Baldini – Il Secolo XIX

L’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 serve davvero per aumentare l’occupazione? Oppure avverrà l’esatto contrario, visto che gli imprenditori saranno liberi di licenziare? Rispondere a queste domande è difficile, anche perché la riforma che pare il governo abbia in programma non riguarda solo l’articolo 18, ma tutta la normativa su rapporti di lavoro e ammortizzatori sociali.

Nel nuovo sistema, per i nuovi assunti vi sarebbero solo due contratti di lavoro dipendente: a termine e a tempo indeterminato a tutele crescenti. Con il primo si pagherebbero contributi più alti, cosi da limitarlo ai soli casi in cui vi siano ragioni effettive per un rapporto di durata fissa. Peraltro, si prevede una prima fase di ampia flessibilità. Passato un certo numero di anni, le tutele aumentano, e il punto è proprio questo: tra le tutele deve esservi anche l’articolo 18? Oppure in caso di licenziamento c’è solo (oltre al sussidio di disoccupazione) un indennizzo monetario?

L’articolo 18 è già stato modificato due anni fa dal governo Monti: in breve, oggi non si può licenziare per motivi discriminatori (sesso, opinioni politiche o sindacali, ecc.), ma se vi sono ragioni economiche il licenziamento è ammesso pagando un indennizzo (da 1 a 2 anni di stipendio). Il lavoratore può ricorrere al giudice, il quale può imporre la reintegra al lavoro se ritiene falso il motivo economico. La riforma del 2012 ha sicuramente ampliato la possibilità di licenziare, ma si ritiene che vi siano ancora molti margini di ambiguità nella norma che rendono incerto l’esito di un contenzioso. Molti quindi suggeriscono di precisare meglio nella legge cosa si intenda per motivo economico, in modo da ridurre l’incertezza interpretativa.

Qualsiasi riforma dovrà comunque mantenere la possibilità di ricorso al giudice, come in tutti i Paesi europei, per ottenere il reintegro se davvero c’è discriminazione o puro arbitrio. Si tratta quindi di scrivere meglio una norma ancora confusa, avendo comunque in mente che quando ci sono valide ragioni (un cambiamento della domanda, la necessità di una diversa competenza) è sbagliato e miope cercare di salvare con una sentenza un posto di lavoro non più giustificato da esigenze effettive dell’azienda. Riscrivere la norma in questo senso è sicuramente difficile, e richiede anche il contributo dei sindacati, ma vi sono margini per farlo in modo da soddisfare tutte le sensibilità della maggioranza. Invece sembra si preferisca usare l’articolo 18 per l’ennesimo scontro interno al Pd.

La modifica dell’articolo 18, da sola avrà effetti modesti. È solo un ingrediente, per quanto importante, di un ben più ampio insieme di riforme per un mercato del lavoro più moderno (ed anche più equo), dalla semplificazione dei contratti all’allargamento degli ammortizzatori, alla fine degli eccessi della cassa integrazione in deroga, le quali a loro volta si inseriscono in un processo di cambiamento che deve rendere il Paese più favorevole all’attività imprenditoriale e al lavoro. Oggi solo 56 persone su 100 tra 15 e 64 anni hanno un’occupazione, quasi 10 punti in meno della media europea. Se vogliamo aumentare questa percentuale servono all’Italia sia politiche per aumentare la domanda che riforme. Quella del mercato del lavoro è una delle più importanti, e sarebbe un peccato se finisse travolta da polemiche ideologiche.

L’uomo dei risparmi ora aumenta il bus

L’uomo dei risparmi ora aumenta il bus

Roberto Onofrio – Il Secolo XIX

Un taglio netto alle società partecipate, che in Italia sono più di 10 mila. Bene. Nel giro di un anno se ne potrebbero eliminare almeno 2 mila, garantendo a Regioni e Comuni 500 milioni di minori spese. Ottimo. Una politica anti-sprechi che in 3 anni assicurerebbe dai 2 ai 3 miliardi di risparmi. Fantastico. Il programma snocciolato ieri dal commissario alla spendíng review, Carlo Cottarelli, a proposito di società partecipate, ha un tono convincente, armonico. Giusto. Èpiù che corretto voler

sfoltire una giungla di municipalizzate che la politica italiana ha fatto crescere in questi anni in modo sconsiderato, per moltiplicare esponenzialmente incarichi, poltrone, consulenze. È più che legittimo volersi almeno avvicinare un po’ a Paesi molto più virtuosi, su questo fronte, come la vicina Francia, che non ha più di mille società partecipate.

Quello che stona, però, nel ragionamento proposto da Cottarelli, è il richiamo riferito al trasporto pubblico locale, perennemente deficitario. Che cosa “inventa” il commissario per risanare i bilanci in rosso di queste partecipate? L’aumento di ticket e abbonamenti. Per allinearsi ai parametri europei, dice, che contemplano prezzi più alti di quelli italiani. Peccato: c’è un sentore di già visto e

già sentito in questa ricetta, che difficilmente può disegnare un futuro diverso. Il cittadino, così, continua ad avere la sensazione – che è più di una sensazione – di dover essere comunque il terminale a cui chiedere il vero sacrificio per risanare i deficit di chi ha ideato e gestito (male) le varie aziende del trasporto pubblico. Non solo. Il paragone con i costi più alti richiesti in altri Paesi europei, che dovrebbe giustificare gli aumenti, è improprio. Per essere corretto dovrebbe mettere a confronto anche l’efficienza del servizio, l’ampiezza della rete, i tempi di percorrenza, la puntualità, la pulizia e il decoro dei mezzi e delle strutture. Tutte condizioni che, se realizzate anche in Italia, allargherebbero la platea degli utenti e quindi anche gli incassi.

Pagare il biglietto è giusto, cosi come trasformare i controllori in pubblici ufficiali, se può servire a scoprire chi fa il furbo. Meno nobile (e fin troppo semplice) sembra l’intenzione di chiedere un sovrapprezzo a chi continua a sopportare in silenzio disagi e disservizi.

La scelta delle banche che non aiutano il paese

La scelta delle banche che non aiutano il paese

Andrea Monticini – Il Secolo XIX

Nonostante innumerevoli provvedimenti legislativi (salva Italia, cresci Italia, sblocca Italia) di crescita, in Italia negli ultimi 15 anni, ce ne è stata ben poca. Una delle ragioni che permettono di spiegare una recessione e il declino di un’economia è la cattiva allocazione del risparmio privato. In altre parole, il risparmio di famiglie e imprese viene utilizzato per finanziare settori produttivi che operano in mercati a basso tasso di crescita e soprattutto a basso valore aggiunto, invece di finanziare quelle attività in grado di generare maggiore ricchezza. 

Per comprendere le ragioni della crisi italiana occorre quindi analizzare quali siano stati i settori produttivi finanziati dalle banche italiane negli ultimi 15 anni: in Italia infatti la fonte principale per il finanziamento degli investimenti è senza dubbio il canale del credito bancario, in quanto purtroppo gli scandali dei bond Parmalat, Cirio ecc. hanno distrutto il mercato obbligazionario corporate, privando così le imprese italiane di una fonte di finanziamento alternativa al credito bancario. Incrociando questa informazione con l’andamento del valore della produzione (è ragionevole assumere che gli impieghi siano correlati con il valore della produzione piuttosto che al valore aggiunto) di tali settori si può quindi capire se il sistema bancario abbia indirizzato in modo corretto (o meno) il risparmio privato. A questo proposito, nell’anno 2000, circa il 4-1% degli impieghi bancari era indirizzato al settore industriale ed in misura quasi equivalente, il 43%, al settore dei servizi. I restanti impieghi si concentravano per circa il 4% nel settore agricolo e per circa il 12% nelle costruzioni. Questi impieghi permettevano, rispettivamente, al settore industriale di contribuire per circa il 40% e dai servizi per circa il 51% del valore della produzione totale italiana.

La situazione nel 2013 è notevolmente cambiata. Infatti, gli impieghi bancari sono per il 28% orientati al settore industriale e per circa il 50% ai servizi, che è aumentato in buona ragione per l’aumento dei servizi immobiliari. Gli impieghi nel settore agricolo sono rimasti stabili a circa il 4 e, infine, il 18 al settore delle costruzioni. Si evidenza quindi un aumento considerevole dell’allocazione del credito al settore dei servizi, il cui finanziamento passa dal 43% al 50%,e al settore delle costruzioni (dal 12% al 18%), a scapito principalmente del settore industriale. Ci si aspetterebbe quindi un aumento proporzionale del contributo dei servizi alla produzione totale italiana. Invece, nel 2013, il settore industriale contribuisce per circa il 39%, mentre il settore dei servizi per circa il 52%. Quindi, nonostante un notevole incremento degli impieghi bancari nel settore dei servizi (dal 43% al 50%), il contributo di questo aumento alla creazione di beni e servizi è stato modesto, passando dal 51% al 52%.

Questi numeri ci permettono di effettuare due considerazioni. In primo luogo, l’economia italiana dal 2000 al 2013 è sempre più caratterizzata per la presenza dei servizi ed è quindi fondamentale che in tale settore avvengano ulteriori liberalizzazioni volte ad aumentarne l’efficienza e la concorrenza. In secondo luogo, le banche in questi 13 anni hanno finanziato un settore, quello dei servizi (in particolare sono aumentati i finanziamenti al settore dei servizi immobiliari), non troppo esposto alla concorrenza internazionale e a basso tasso di crescita. Così facendo hanno senza dubbio assolto il loro fine di imprese private che massimizzano i propri profitti, magari sfruttando settori protetti, ma il rendimento di tali investimenti è stato modesto ed ha ulteriormente posto le basi per la profonda recessione che stiamo vivendo.