il sole 24 ore

Selezionare gli obiettivi per combattere la burocrazia

Selezionare gli obiettivi per combattere la burocrazia

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Poche idee ma chiare. Spesso, per quanto apparentemente banale, questa può rivelarsi la formula di maggior successo nelle policy per il supporto all’economia reale. E mai come su un argomento come quello degli investimenti esteri questa regola aurea torna limpidamente attuale. In questo campo abbiamo assistito a più di qualche errore e a un difetto generale di scarso coordinamento: troppi attori in campo e spesso tra loro concorrenti nelle decisioni. Come non pensare, a questo proposito, a grandi investimenti coccolati da membri del governo – senza distinzione tra esecutivi o schieramenti politici – nella fase di negoziazione e sgambettati nella fase decisiva da un veto locale o, peggio ancora, da un repentino cambiamento delle normative statali.

I marchi di British Gas, Ikea, Decathlon sono solo alcuni che potremmo consultare nel catalogo dei grandi investimenti bloccati, frenati o comunque rallentati dalle brutte sorprese che si sono via via manifestate nella disavventura con la burocrazia made in Italy. A tutt’altro catalogo – quello delle opportunità da presentare ai grandi fondi stranieri – si lavora ora tra Palazzo Chigi, ministero dell’Economia, ministero dello Sviluppo e ministero degli Affari esteri. La prima mossa sembra essere quella di tutelare le regole che hanno determinato la scelta dell’Italia per un grande investimento. In altre parole minimizzare i rischi regolatori che, secondo uno studio condotto dalla Camera di commercio italo-americana, frenano soprattutto gli investimenti nell’industria chimica e farmaceutica, nel settore energetico e nei servizi finanziari.

Numeri alla mano, a prescindere dalla graduatoria che scegliamo di analizzare, l’Italia è chiamata a un recupero molto impegnativo. Al 65esimo posto per il Doing Business, al 146esimo secondo il World economic forum che analizza il peso della regolamentazione assumendo come benchmark Singapore. Troppo spesso, per un Paese ad alta capacità manifatturiera e turistica, nell’ipertroia regolatoria a restare incastrati sono capitali di provenienza estera. Secondo uno studio I-Com, su oltre 33 miliardi di grandi investimenti sul territorio italiano oltre la metà è a carico di investitori stranieri, ma il 21% (quasi 7 miliardi di euro) risulta attualmente completamente arenato per ragioni amministrative. Tutti dati ed elementi ben noti a Renzi e ai suoi collaboratori, ora dall’analisi si dovrà passare ai risultati concreti.

L’addio al segreto, ultima possibilità

L’addio al segreto, ultima possibilità

Roberto Lugano e Salvatore Pedullà – Il Sole 24 Ore

La firma dell’accordo per lo scambio di informazioni tra Italia e Svizzera, attesa nelle prossime settimane, ha un duplice significato e lancia un importante messaggio. Nell’immediato, consente di sapere quali saranno le regole e i costi per la regolarizzazione delle attività e degli investimenti detenuti dai cittadini italiani nella confederazione elvetica. In una prospettiva più generale, le nuove regole di cooperazione in arrivo segnano probabilmente la fine di un’epoca: un’epoca caratterizzata da un lato dall’esportazione di ricchezza oltre confine e dall’altro dall’assoluta riservatezza che il sistema del segreto bancario elvetico ha fin qui largamente garantito.

Si tratta di due aspetti importanti rafforzati dal messaggio di fondo che questa nuova prospettiva di collaborazione finisce per trasmettere. Qui, probabilmente, non cade solo il segreto svizzero ma viene messa in dubbio l’idea stessa che nel mondo attuale possano ancora esistere territori sicuri dove occultare ricchezze sottratte a tassazione in Italia (o in qualsiasi altro paese). D’altra parte, l’offensiva lanciata dall’Ocse e dai maggiori Paesi per la trasparenza fiscale qualche risultato lo sta producendo. Gli accordi sottoscritti a livello internazionale spesso prevedono addirittura lo scambio automatico di informazioni. Certo, servirà ancora un po’ di tempo per mandare tutto a regime ma non si può ignorare che tra i firmatari di queste intese figurano Paesi quali il Lussemburgo, San Marino, il Lichtenstein, le isole Cayman, Hong Kong, Singapore, Monaco, la stessa Svizzera. Sono gli stessi Paesi che in questi anni hanno offerto un rifugio sicuro dai controlli del Fisco, e che oggi si dichiarano pronti a trasmettere tutte le informazioni su conti correnti e movimentazioni finanziarie.

È una prospettiva alla quale molti non credevano. Basti pensare agli scudi fiscali del 2002 e del 2009-10. Nonostante la grande convenienza alla regolarizzazione e al buon successo di quelle operazioni, molti contribuenti scelsero comunque di non aderire perché convinti che mai e poi mai i Paesi “opachi” – la Svizzera ma non solo – avrebbero rinunciato al segreto e reso di fatto trasparente il rapporto con i clienti italiani. Molti hanno scelto di continuare a rischiare e a detenere oltre confine le ricchezze senza segnalarne provenienza, proventi e consistenza nella dichiarazione dei redditi.

La legge sul rientro dei capitali sta in qualche modo accelerando un processo di per sé irreversibile. La necessità di chiudere ulteriori accordi bilaterali per lo scambio di informazioni entro 60 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento (e quindi entro il 2 marzo) ha dato solo l’impulso per accelerare la sottoscrizione dei patti. E a ben giudicare, anche la circostanza che l’accordo con la Svizzera (senza dubbio il più importante) sia prossimo alla firma ha una valenza ulteriore, quasi a significare che si è fatto in fretta perché questa è l’unica strada percorribile in un sistema globale moderno.

La voluntary disclosure rappresenta la nuova e, presumibilmente, ultima opportunità per regolarizzare la propria posizione. Il mondo sta diventando una scatola trasparente, i pochi Stati che ancora non si sono adeguati saranno costretti a farlo, è solo questione di tempo. Scegliere oggi di mantenere le attività illegalmente in questi luoghi presenta incognite enormi: dal rischio–paese all’impossibilità pratica di recuperare le somme estere. Si può obiettare che in alcuni casi il costo della disclosure può essere elevato, ma d’altro canto non approfittarne espone a un duplice effetto negativo: perdere la disponibilità concreta dei propri mezzi finanziari ed esporsi ai sempre maggiori rischi di essere accertati e sanzionati (anche penalmente) in modo ancor più aspro.

Persi a novembre altri 48mila posti di lavoro

Persi a novembre altri 48mila posti di lavoro

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Secondo calo, consecutivo, del numero di occupati: a novembre (su ottobre) sono stati persi altri 48mila posti (già a ottobre, su settembre, il calo era stato di 65mila unità). Il tasso di disoccupazione è salito al 13,4%, un nuovo massimo storico, (mentre nell’area Euro, sempre a novembre, è rimasto stabile all’11,5% – peggio di noi, tra i principali Paesi nostri competitor, solo la Spagna che ha registrato un tasso di persone senza lavoro al 23,9%).

Doccia fredda anche sul fronte under25: la quota dei giovani disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca è schizzata al 43,9%, in aumento di 0,6 punti percentuali sul mese, e di 2,4 punti nel confronto tendenziale. In Eurolandia siamo quart’ultimi (dietro di noi solo Spagna, Grecia e Croazia). Le performance migliori si sono avute in Germania (7,4% di disoccupazione giovanile), Austria (9,4%) e Olanda (9,7%). Il numero complessivo di persone senza un impiego ha raggiunto i tre milioni e 457mila unità (+40mila in un mese, +264mila in un anno). Il numero persone inattive (anche perché scoraggiate) è invece in calo: 12mila unità in meno rispetto a ottobre e meno 312mila nel confronto tendenziale.

I dati sul lavoro diffusi ieri da Istat ed Eurostat hanno confermato tutte le difficoltà del nostro mercato del lavoro; che si è, di fatto, “allineato” con il quadro economico generale. Da febbraio, mese di insediamento del governo Renzi, a novembre, il numero di occupati è diminuito complessivamente di 14mila unità. Negli ultimi due mesi si è praticamente azzerato l’aumento di circa 100mila posti annunciato a settembre dal Governo (in parte frutto del decreto Poletti che ha semplificato i contratti a termine e, in quota minore, l’apprendistato).

Ora in campo ci sono le nuove norme contenute nel Jobs act sul contratto a tutele crescenti, l’Aspi rafforzata, e i forti incentivi sul tempo indeterminato; ma gli effetti di queste misure sull’occupazione «si vedranno solo nei prossimi mesi», hanno sottolineato i ministri Giuliano Poletti e Pier Carlo Padoan. Per questo è «ancora più urgente andare avanti con le riforme», hanno aggiunto il responsabile Economia e Lavoro del Pd, Filippo Taddei e il sottosegretario, Teresa Bellanova. Anche perché, ha spiegato il numero uno di ItaliaLavoro, Paolo Reboani, le aziende sono ora in attesa «della piena operatività» delle norme appena varate, prima di riprendere a fare nuove assunzioni (quelle stabili sono agevolate da una robusta riduzione del cuneo fiscale). Si sconta, quindi, una fase di “stand-by” che potrebbe proseguire anche nel mese di dicembre.

Dal ministero del Lavoro fanno sapere che, comunque, il «numero assoluto di occupati nella fascia d’età 15-24 anni è rimasto stabile rispetto ai mesi precedenti»; e che la crescita del tasso di disoccupazione è influenzata «dal costante aumento dei cittadini che si attivano per cercare un lavoro, tanto è vero che il numero di inattivi a novembre è il più basso degli ultimi due anni». Ma è il secondo calo consecutivo degli occupati a preoccupare gli esperti: «Ciò dimostra che la crescita dell’occupazione nei mesi precedenti ha interessato la parte marginale del mercato del lavoro, cioè soprattutto donne e giovani, che per aumentare il reddito familiare si sono rimessi in cerca di un impiego e hanno trovato soprattutto rapporti temporanei, part-time», ha evidenziato l’economista del lavoro, Carlo Dell’Aringa. Analizzando, infatti, la contrazione mensile di 48mila occupati a novembre spicca come ben 41mila di questi siano posti femminili andati persi. Il tasso di occupazione è risultato pari al 55,5%, in calo di 0,1 punti sul mese; gli under25 disoccupati sono 729mila (+18mila in un mese), e ciò dimostra tutte le difficoltà di «Garanzia giovani» a creare occupazione. La forbice con la Germania continua ad allargarsi: secondo l’ufficio di statistica tedesco a dicembre il tasso di disoccupazione è sceso al minimo storico del 6,5%.

Ecco perché, oltre agli incentivi sui contratti stabili, serve una «coraggiosa riforma della regolazione dei rapporti di lavoro», ha incalzato Maurizio Sacconi (Area Popolare). Ma la strada «non può essere quella dei licenziamenti facili», ha ribattuto Cesare Damiano (Pd), che ha ricordato come, anche, nel 2014 le ore di cassa integrazione autorizzate abbiano superato il miliardo di ore. Le tutele non vanno quindi abbassate».

Delega fiscale, in 10 mesi attuazione ferma al 15%

Delega fiscale, in 10 mesi attuazione ferma al 15%

Saverio Fossati – Il Sole 24 Ore

I tempi non ci sono proprio e una proroga sembra necessaria. Ma quello che va rivisto è il sistema della comunicazione tra Governo e Parlamento, che ha subito un evidente corto circuito e che è stato, in sostanza, all’origine del pasticcio ma anche dei ritardi. Attualmente la delega è stata realizzata al 15,5% in dieci mesi, quindi appare davvero difficile che venga completata in tempo. Più in dettaglio, solo un decreto legislativo è entrato in vigore: quello sulle semplificazioni, mentre quello sulle commissioni censuarie catastali (prodromico alla riforma del catasto) è ancora nei cassetti di Palazzo Chigi a un mese dall’approvazione definitiva; stessa sorte è toccata a quello sui tabacchi, per il quale non sono mancate le polemiche a causa di un ritocco sulle accise.

Per gli altri provvedimenti che devono dare attuazione ai principi della delega, invece, siamo in alto mare. A partire dalla riforma del catasto, il cui decreto chiave, quello sulle «funzioni catastali» che devono assicurare nuovi valori a 60 milioni di immobili, è stato elaborato dall’agenzia delle Entrate sulla base di una sconsolante considerazione: dato che non ci sono abbastanza dati per costruire una statistica territoriale, si devono ampliare a dismisura gli ambiti territoriali stessi.Tutti aspetti di cui la mini bicamerale non è stata informata ma che, al momento in cui la bozza del decreto vedrà la luce, susciteranno un vespaio. O dal principio sulla lotta all’evasione, che per ora ha prodotto solo l’obbligo (previsto in modo estemporaneo dal Dl 66/2014) di inviare un rapporto alle Camere sulle strategie adottate.

L’ambizioso obiettivo di impiegare un solo anno per rinnovare il sistema fiscale italiano aveva trovato da subito l’assist dei presidenti delle commissioni Finanze della Camera e Finanze e Tesoro del Senato, che avevano costituito una mini bicamerale informale con i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. Questo organo ha il compito di esaminare le bozze dei decreti legislativi in via preventiva e di farne emergere le criticità prima che arrivino all’esame ufficiale delle Commissioni, in modo che il Governo possa poi contare su un’approvazione senza problemi. Il meccanismo ha funzionato a fasi alterne per i primi quattro provvedimenti, suscitando anche malumori per il modo approssimativo in cui a volte le bozze venivano portate alla bicamerale. Ma, in sostanza, il meccanismo di filtro è servito. Tranne che nel caso del decreto sulle commissioni censuarie catastali, che ha visto due ribattute di ping pong sulla questione della rappresentanza obbligatoria delle associazioni di categoria del mondo immobiliare: il Governo non voleva garantirla ma le commissioni parlamentari hanno tenuto duro. Del resto i tempi sono lunghi anche perché è proprio la delega a prevedere un parere parlamentare delle commissioni competenti entro i 30 giorni della trasmissione del decreto e un eventuale secondo parere qualora il Governo decida di non conformarsi alle indicazioni arrivate dalle Camere.

Le reazioni dei presidenti delle commissioni parlamentari sono diversi nel tono. Daniele Capezzone (Camera) in una lettera aperta ha invitato il premier «a riprendere il meccanismo informale ma di grande buon senso, che era stato politicamente accettato dal Governo e che era stato rispettato per i primi tre decreti, a indicare un cronoprogramma preciso e far sapere alla commissione e al Parlamento se il Governo intenda avvalersi delle proposte di proroga della delega che sono state presentate». Mauro Marino (Senato) ribatte che «Capezzone sbaglia nel definire deludenti i decreti delegati già in Gazzetta ma ha ragione nell’invocare la continuità del metodo della consultazione informale sugli schemi di decreto legislativo in preparazione»; e sulla proroga invita a a una valutazione «solo dopo aver vagliato l’adeguatezza dei tempi necessari al completamento della delega».

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Laura Serafini – Il Sole 24 Ore

L’Istat si cimenta in un arduo calcolo che sinora aveva trovato solo risposte vaghe, nonostante esso sia al centro di una della maggiori potenziali operazioni di spending review pubblica. L’Istituto di statistica ha pubblicato ieri un rapporto in cui tenta una quantificazione meticolosa del numero di società a partecipazione pubblica, sia statale che a livello locale. La fotografia, scattata sui dati 2012, inquadra 11.024 società con un totale di addetti che sfiora il milione di persone, per la precisione 977.792.

Il lavoro dell’istituto scaturisce dall’incrocio dei dati di sei fonti: Consob, registro delle imprese delle Camere di Commercio, bilanci civilistici e consolidati delle società di capitali, la banca dati Consoc del dipartimento della Funzione pubblica, le dichiarazioni delle partecipazioni pubbliche al ministero del Tesoro, le dichiarazioni delle partecipazioni detenute dagli enti locali alla Corte dei conti. E per la prima volta fissa un numero laddove prima c’erano piuttosto stime: 7.726 le partecipate degli enti locali che risultano nella banca dati del Tesoro, dato sul quale il commissario Carlo Cottarelli aveva impostato la sua proposta di spending review che avrebbe dovuto portare al taglio di 7mila municipalizzate su 8 mila nell’arco di 4 anni, con un risparmio di 2 miliardi. Anche se Cottarelli riteneva, ora si scopre a ragione, più veritiera la stima della presidenza del Consiglio, che calcolava in 10mila l’universo delle partecipate a matrice pubblica.

L’indagine Istat racconta che le realtà di maggiore dimensione (con più di 250 addetti) sono società per azioni, occupano circa 780mila addetti e sono realtà presenti soprattutto nel settore trasporto e magazzinaggio (116) e nel settore dell’acqua (quindi in sostanza municipalizzate). Il 68,7% delle 11mila realtà censite da Istat è controllata da un solo socio pubblico; quelle però controllate al 100% sono il 25,6 per cento; quelle controllate con quote entro il 50% rappresentano il 29,1%; quelle in cui la quota pubblica è inferiore al 20% sono il 25,6 percento.

Il dato che colpisce di più è il numero delle partecipate che risultano non considerabili tra le imprese attive. Le realtà attive sono complessivamente 7.685. E le altre 3.339 partecipate cosa sono? L’indagine rivela che 1.454 unità sono imprese non attive (dunque con zero addetti) ma che nel corso del 2012 hanno comunque presentato un bilancio o una dichiarazione dei redditi (e tra queste ce ne potrebbero essere alcune in fase di liquidazione). Altre 994 unità sono unità agricole o no profit, con un totale di 16.579 addetti e per le quali l’Istat ha potuto ottenere informazioni attraverso i censimenti 2011. Le restanti 891 unità, con 9.963 addetti, sono definite dal rapporto «non classificabili, che saranno oggetto di ulteriori analisi».

L’indagine si sofferma inoltre sui settori di attività economica dove è presente il maggior numero di partecipate: è quello delle attività professionali, scientifiche e tecniche, con il 13,4 per cento delle imprese e il 2,8% degli addetti. Segue nella classifica il settore del trattamento dell’acqua (con l’11,9% delle società) e poi le attività amministrative e servizi di supporto (con il 10,9% delle società). Nel 23,8% dei casi la sede delle imprese partecipate è situata nel Centro (53,4% degli addetti), con una dimensione media di 278 addetti per impresa, la gran parte è localizzata nel Lazio. La ripartizione territoriale con il maggior numero di partecipate è il Nord-ovest: 27,7% di imprese partecipate, 21,1% di addetti e una dimensione media di 94 addetti per impresa.

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Li “scarteremo” sotto l’albero. I decreti attuativi del Jobs act sono in fase di elaborazione avanzata e verranno divulgati nel Consiglio dei ministri di mercoledì. Alle parti sociali è stato detto poco. C’è il sospetto che, via via che si entra nel dettaglio delle complessità del mercato del lavoro, la riforma prenda atto dei rischi possibili se l’approccio è poco sistemico e troppo contingente. Il contratto a tutele crescenti fa il conto con la fatidica soglia dei 15 dipendenti e costringe il Governo a pensare a una forma “scontata” per gli indennizzi a carico delle piccole imprese, altrimenti penalizzate dalla nuova disciplina. E ciò naturalmente riproporrà una nuova forma di dualismo nel mercato che già sconta quello tra vecchi e nuovi assunti perché la riforma non si è spinta fino a generalizzare le nuove regole. E si affianca all’altro dualismo tra contratti a termine, versione riforma Poletti, e i contratti a tempo indeterminato senza contribuzione che il Governo vuole più convenienti e che entreranno in vigore dal 1° gennaio.

Il pendant del superamento dell’articolo 18 è la creazione di nuovi ammortizzatori sociali e il disboscamento delle forme di precariato. Ma anche in questo caso sono possibili rischi di incongruenza. L’aver annunciato di voler superare i contratti di collaborazione e, allo stesso tempo, di volerli includere tra i possibili beneficiari del nuovo ammortizzatore sociale universale (l’Aspi) non sembra improntato a coerenza e, soprattutto, rischia di avere un costo che nessuna Ragioneria generale potrà mai bollinare. La riforma è un importante passo avanti; va però inserita in un orizzonte più generale. È tempo di ripensare l’idea di ammortizzatori sociali che ha portato ai paradossi di lavoratori con anzianità aziendale di 20 anni dei quali solo 6 o 7 lavorati effettivamente. Non ha senso immaginare vite lavorative fatte di un rosario di cassa integrazione ordinaria, straordinaria, contratti di solidarietà, mobilità, mobilità lunga, prepensionamenti. La riforma deve diventare l’occasione per rendere efficiente il mercato del lavoro e viverlo come tale, un bacino dove si creano e si distruggono posizioni in continuazione, e dove conta facilitare al meglio l’incontro tra domanda e offerta tramite la collaborazione tra pubblico e privato. Più facile a dirsi che a farsi. Ma il riformismo vero sta tutto nel far coincidere il detto con il fatto.

Ai giovani si dà poca garanzia

Ai giovani si dà poca garanzia

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il ministro Giuliano Poletti ha dichiarato di voler apportare correttivi a Garanzia giovani per aiutare di più l’occupazione. «Bene le aperture del Governo. Non è un mistero, infatti, che il primo bilancio del programma Ue, finanziato fino al 2015 con 1,5 miliardi di euro, sia stato finora piuttosto modesto. E soprattutto poco attrattivo per le imprese». Il problema, spiega al Sole 24 Ore il direttore generale di Assolombarda, Michele Angelo Verna, è che Youth Guarantee è stata lanciata con una parola chiave: «occupabilità», come espressamente indicato nelle raccomandazioni europee, con l’obiettivo cioè di «offrire una risposta ai ragazzi al di sotto dei 25 anni, che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro dopo la conclusione degli studi, rafforzandone le competenze a vantaggio delle opportunità di un impiego». E invece cosa è successo? Che il programma è stato esteso anche agli under 29 «Neet», snaturandone così l’obiettivo iniziale e, nei fatti, rivolgendo Garanzia giovani esclusivamente ai ragazzi con maggiori difficoltà a entrare a contatto con le aziende», spiega Verna.

E i numeri, purtroppo, stanno parlando chiaro: finora da maggio 2014, quando è partito il piano Ue anti-disoccupazione, le opportunità di lavoro rese disponibili sono state 27.094, pari ad appena 38.528 posti, sufficienti a coprire solo l’11% degli iscritti complessivi (poco più di 355mila under 29) e l’1,6% dei «Neet» stimati dall’Istat (oltre 2,4 milioni). È chiaro che c’è stato anche un problema di «execution», ancor più grave considerato che qui siamo in presenza di un piano europeo largamente finanziato (degli 1,5 miliardi a disposizione infatti, oltre 1,1 miliardi arrivano direttamente da Bruxelles, poi c’è il co-finanziamento nazionale). Ci sono troppi meccanismi “tecnico-burocratici”. Qualche esempio? «È molto difficile accedere ai bonus occupazionali per la presenza di filtri che impediscono di destinare a tutti i giovani questa misura – osserva Verna -. Inoltre, il sito internet ministeriale è poco funzionale e l’attività di informazione è affidata essenzialmente agli youth corner che di solito sono situati nei centri per l’impiego, non certo luoghi frequentati da ragazzi».

Quanto disposto sul bonus occupazionale è, a dir poco, paradossale: «Le regole ministeriali hanno imposto una serie di limitazioni all’incentivo – dice il dg di Assolombarda -. Esso è riconosciuto esclusivamente per i contratti a tempo indeterminato e per quelli a tempo determinato e di somministrazione. Per questi ultimi con due ulteriori vincoli: che abbiano una durata già inizialmente prevista pari o superiore a 180 giorni; che i giovani siano profilati in fascia di aiuto “alta”o “molto alta”». L’aspetto peggiore è che non è previsto alcun bonus per le assunzioni in apprendistato professionalizzante, che è tipicamente un contratto di formazione sul lavoro e che doveva essere lo strumento principale di Garanzia giovani.

L’impatto di questi lacci e lacciuoli è evidente: in Lombardia su oltre 3mila giovani assunti, solo 270 hanno diritto al bonus occupazionale. Questo perché, principalmente, il profiling del ministero del Lavoro colloca il 95% dei giovani in fascia di aiuto “bassa” o “media” e quindi non titolari di bonus per le assunzioni a tempo determinato. Il rischio, molto concreto, è che, se le norme non dovessero cambiare, il bonus occupazionale di Youth Guarantee potrebbe rimanere inutilizzato, anche a fronte del nuovo sgravio contributivo triennale previsto dal Job Act per le assunzioni a tempo indeterminato a tutele crescenti. Un peccato, specie in regioni come la Lombardia, che premia e incentiva direttamente le imprese (e non finanzia la formazione fine a stessa). La vera scommessa deve essere la formazione finalizzata al lavoro, che di fatto è la formazione on the job. Per questo «c’è bisogno di modificare le regole. Il bonus occupazionale dovrà essere assegnato per i contratti a tempo determinato di 180 giorni, considerando anche le proroghe. Inoltre, va riconosciuto alle imprese che assumono giovani (a prescindere da filtri e discriminazioni) e deve essere utilizzato pure per i contratti di apprendistato professionalizzante».

Anche il sito ministeriale è da rivedere. Dovrebbe essere una “vetrina”. Invece basta aprirlo per capirne l’inefficacia, come sottolinea Verna: «I giovani dovrebbero trovarci offerte di lavoro, ma gli annunci non sono filtrabili né per tipologia di contratto né per titolo di studio,che è l’unica cosa che i ragazzi conoscono con certezza. Mancano sezioni specifiche per chi ha maturato esperienze lavorative. Manca, inoltre, una sezione per individuare l’offerta formativa nei territori: il primo vero canale di “ritorno in attività” dei giovani soprattutto se la formazione è di tipo professionalizzante e maggiormente orientata al lavoro». Senza considerare, poi, che le aggregazioni giovanili non profit sono state totalmente escluse da Garanzia giovani. Come, pure, è mancata la valorizzazione del ruolo delle scuole e delle università.

«Occorre correggere il tiro – aggiunge Verna – e prevedere l’istituzione obbligatoria di servizi di placement all’interno delle scuole sul modello di quanto finora ha attivato la sola Regione Lombardia. C’è anche una scarsa attenzione alla collaborazione pubblico-privato, che in molti territori non valorizza le Agenzie per il lavoro che sono essenziali per garantire la riuscita di Youth Guarantee. Vanno liberalizzati i servizi per l’impiego in un’ottica premiale: chi più aiuta i giovani a inserirsi in azienda, più deve essere finanziato. In nove regioni l’accreditamento delle agenzie per il lavoro non è stato ancora avviato». Insomma, il ministro Poletti, che finora ha mostrato grande capacità di ascolto, «deve dare forti segnali di discontinuità conclude Verna. «È vero, i giovani registrati al programma Ue sono pochi. Nei prossimi mesi cresceranno. Per loro Garanzia giovani rappresenta un’occasione per l’ingresso nel mercato del lavoro. Il Paese non può permettersi di deluderli».

Immobili, 12 decreti in ritardo

Immobili, 12 decreti in ritardo

Raffaele Lungarella – Il Sole 24 Ore

Per la semplificazione e l’accelerazione delle pratiche edilizie all’appello mancano ancora diversi decreti e regolamenti attuativi delle norme di legge che negli ultimi due anni hanno puntato a rendere più fluidi i meccanismi per i lavori e a rilanciare il mercato della casa. Anche in questo campo, l’urgenza che i governi chiamano in causa per giustificare l’emanazione di decreti legge spesso svanisce quando arriva il momento di emanare direttive e decreti ministeriali per dettagliare le misure da adottare, individuare i beneficiari di eventuali agevolazioni, stabilire criteri e modalità operative. Il record nel ritardo di attuazione, in questo campo, spetta alla semplificazione per i piccoli interventi su beni vincolati.

Autorizzazione paesaggistica
Entro il 10 febbraio del 2013 il ministero per i Beni culturali avrebbe dovuto emanare un regolamento per semplificare ulteriormente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità. A maggio di quest’anno, il termine è stato spostato allo scorso 30 novembre, cioè a 32 mesi dall’entrata in vigore del decreto legge 5/2012, che per primo prevedeva il nuovo intervento. Se tutto procederà come previsto, il contatore dei mesi di ritardo dovrebbe fermarsi sul numero 37: il calendario dell’agenda per la semplificazione 2015-2017 del ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia annuncia che il regolamento sarà predisposto entro marzo 2015 . Il testo dovrà disciplinare anche gli interventi minimi per i quali l’autorizzazione paesaggistica non sarà più necessaria. Nel frattempo, il procedimento semplificato esistente oggi continuerà ad essere applicato agli interventi di lieve entità elencati nell’Allegato al Dpr 139/2010.

Ambiente
Continuano a essere applicati i criteri e le regole vigenti anche per la mancata emanazione di decreti e regolamenti in materia energetica e ambientale. La legge di stabilità per il 2014 (legge 147/2013) fissò alla fine dello scorso giugno il tempo a disposizione del ministero dell’Ambiente per dire ai Comuni come calcolare le tariffe per la copertura totale dei costi del servizio relativo ai rifiuti urbani. Ma i criteri non sono ancora stati decisi. Non è, invece, prevista scadenza per il decreto interministeriale con cui rivisitare le metodologie di calcolo per le prestazioni energetiche degli edifici e per l’installazione di fonti energetiche alternative, ma il decreto legge che ne prevede l’adozione (Dl 63/2013) è di giugno 2013.

Alberghi e condo-hotel
La mancata emanazione degli atti amministrativi può anche bloccare sul nascere la realizzazioni di alcuni programmi. È il caso di alcuni interventi da realizzare nel campo della ricettività alberghiera. Entro lo scorso 31 ottobre era atteso un decreto interministeriale con le indicazioni di beneficiari, tipi di opere ammissibili per riqualificare gli alberghi riconoscendo un credito d’imposta sulle spese sostenute per realizzare gli interventi. Inoltre, finché non arriverà il Dpcm (per la cui emanazione non c’è scadenza) di dettaglio delle iniziative, resta bloccata anche la norma, introdotta dal decreto legge Sblocca Italia, che favorisce gli investimenti per la trasformazione in hotel fino al 40% della superficie di un condominio (i cosiddetti condo-hotel).

Aiuti per la casa
Ferme per ora anche le iniziative nel settore della casa previste dal piano casa Renzi e dal recente Sblocca Italia. I ministri delle Infrastrutture e dell’Economia, con loro decreti, devono definire le caratteristiche dei contratti sottoscritti da proprietari e inquilini che vogliono beneficiare delle agevolazioni fiscali, previste dal Dl 47/2014, per favorire l’acquisto di una casa dopo almeno sette anni di affitto. L’assenza di un decreto ministeriale congela anche gli investimenti dei privati intenzionati ad acquistare, avvalendosi di una deduzione dal reddito del 20% su un prezzo fino a 300 mila euro, un’abitazione da affittare per otto anni a canone concordato o comunque più basso di quello di mercato. In entrambi questi casi non è prevista scadenza per gli atti di attuazione.

Imu e cedolare secca
Anche il Cipe è in ritardo. Entro lo scorso 27 giugno avrebbe dovuto aggiornare la lista dei Comuni ad alta tensione abitativa dove applicare la cedolare secca con aliquota al 10% alle case affittate a canone concordato, come prevede il Dl 47/2014. Intanto, resta valido l’elenco del 2004. Devono ancora attendere, infine, i contribuenti che hanno versato erroneamente la quota statale dell’Imu: i Comuni non possono rimborsarla perché, a un anno dall’approvazione della norma che lo prevede, mancano le indicazioni ministeriali.

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il tax-day delle imposte sugli immobili – entro oggi almeno 30 milioni di proprietari e inquilini devono chiudere i conti con il saldo di Imu e Tasi per il 2014 – restituisce l’istantanea di una delle stagioni più buie del nostro sistema fiscale. Una stagione di caos e grandi complicazioni che non sta risparmiando nessuno e che purtroppo ripropone il vecchio copione dell’ingorgo di scadenze e di versamenti, delle norme retroattive, delle proroghe sul filo di lana, dei controlli di fine anno, redditometro compreso. Una stagione anche di grandi aspettative, che purtroppo, per l’ennesima volta, conferma quanto sia ancora lungo il cammino verso quel “fisco dal volto umano” che continua ad affermarsi solo tra i buoni propositi, con una riforma fiscale che fatica a trovare lo slancio per la sua effettiva attuazione e un livello del prelievo, tra balzelli vecchi e nuovi, che non accenna affatto a diminuire.

La vicenda delle tasse sulla casa è, in questo senso, emblematica. E concentra al suo interno proprio due tra i principali peccati originali del sistema: complicazioni, da un lato; pressione fiscale elevata, dall’altro. Molti contribuenti, in queste ore, hanno toccato con mano non solo che le tasse immobiliari sono più pesanti rispetto al passato ma anche che le difficoltà per trovare aliquote, eventuali esenzioni o detrazioni, codici tributo, modelli per i pagamenti ecc ecc., sono ancor più insidiose dello scorso anno (quando in molti avevano giustamente pensato di aver toccato il fondo). La stessa Rossella Orlandi, durante una delle sue prime uscite pubbliche dopo la nomina alla guida dell’agenzia delle Entrate la scorsa estate, confessò candidamente di aver impiegato un intero pomeriggio per capire come calcolare l’Imu della sua abitazione. Benvenuta tra noi, verrebbe da dire al direttore delle Entrate. Benvenuta tra chi ogni giorno deve fare i conti non solo con il peso del fisco ma anche con le sue regole non sempre trasparenti, con i suoi criteri non sempre limpidi, tanto per non voler infierire. E qui non stiamo più parlando solo di tasse immobiliari. Gli operatori, le imprese, i professionisti sanno bene a quali acrobazie li costringa il fisco, al di là dell’Imu e della Tasi. È appena arrivato un decreto sulle semplificazioni che, a sentire gli addetti ai lavori, risolve solo una parte infinitesimale delle quotidiane difficoltà tributarie. Per il resto poco è cambiato.

Certo, i problemi non finiscono qui. Nonostante le promesse, il nostro paese continua ad avere un sistema fiscale poco orientato alla crescita, che non premia chi investe e chi scommette sull’innovazione e sulla ricerca. È un sistema dove persino il contenzioso tributario non brilla certo per trasparenza e dove manca una reale parità in giudizio tra amministrazione e contribuenti. Il tutto appesantito da livelli di prelievo sempre più insostenibili, con una pressione fiscale sul Pil che raggiunge il 44%, che supera il 50% se si esclude l’economia sommersa (che per definizione non paga tasse) e che totalizza un prelievo reale sulle Pmi pari a 68 euro ogni 100 euro di utili. Sono numeri che conosciamo bene ma che vale sempre la pena di ricordare.

Se questa è la fotografia, che cosa dobbiamo aspettarci per il 2015? Sulla casa, come sappiamo, c’è poco da stare allegri. Il 2015 riproporrà il binomio Imu-Tasi (la local tax sembra destinata a slittare al 2016) e con esso tutte le criticità che abbiamo visto in questi mesi. Con il rischio che nei prossimi mesi si ripresenterà il copione che ha portato alla lievitazione delle tasse locali, con il governo che taglia le risorse ai sindaci e i sindaci che alle riduzioni di spesa rispondono con l’aumento di tasse e tariffe, vuoi per comodità vuoi per effettiva impossibilità a comprimere ulteriormente le spese. Qualche buona notizia arriverà con la legge di stabilità che potrà offrire una prima boccata d’ossigeno alle imprese, grazie al taglio della componente lavoro dall’Irap, e con la conferma del bonus da 80 euro per i dipendenti con reddito medio basso. Ma certamente con maggiore coraggio sui tagli alla spesa i risultati avrebbero potuto essere ben altri.

Sullo sfondo, resta il complicato cammino della delega fiscale. Ieri, su questo giornale, abbiamo messo in luce come a 100 giorni dal termine per l’attuazione della legge delega, i lavori stiano procedendo davvero a rilento (tra l’altro, in un paese in cui si proroga tutto, non sarebbe certo uno scandalo una norma finalizzata a dare più tempo al governo per emanare i decreti legislativi per la riforma, come hanno proposto alcuni parlamentari, tra i quali anche il presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone). L’attuazione della delega non cambierà probabilmente il volto (e il peso) del nostro sistema fiscale. Ma condurla in porto sarà comunque un segnale importante che, una volta tanto, sarebbe bene non farsi sfuggire.

Soltanto investire fa rima con ripartire

Soltanto investire fa rima con ripartire

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Un grande sistema economico che abbia subìto i danni di una lunga guerra e che abbia ritrovato occupazione e reddito rapidamente, senza aver fatto leva sugli investimenti, pubblici e privati, non si è mai visto. Il discorso può valere in generale per l’Europa, che al suo interno presenta casi diversi, diverse velocità di uscita dalla crisi e profondi divari innovativi, ma che comunque si ritrova nel complesso più che un passo indietro rispetto agli Stati Uniti. Di sicuro il problema investe l’Italia, che dentro di sé – nel Mezzogiorno – rintraccia i numeri di una catastrofe demografica e sociale e un orizzonte di abbandono non solo industriale.

Senza investimenti può esistere un presente che compra un po’ di tempo per la sopravvivenza giorno per giorno, ma non c’è futuro. Così la fiducia dei cittadini e delle imprese, entrambi contribuenti super tartassati, non corre e non si propaga. E se poi a tutto questo aggiungiamo (si veda l’inchiesta su Mafia Capitale) il carico delle evidenze che emergono in tema di corruzione e di pubblica amministrazione, nessuno può meravigliarsi se il Paese non dà segni visibili di ripresa.

È probabilmente questo il quadro che ha fatto (e fa) da sfondo al tentativo del governo Renzi di alzare la domanda interna con i famosi 80 euro in busta paga (rinnovati anche per il 2015), il taglio del fisco sul lavoro e la riforma del mercato del lavoro prevista dal Jobs Act. Una scommessa difficile mentre procede, sempre sul filo del rasoio, il confronto con l’Europa e in un’Europa dove rispuntano gli incubi del caso Grecia, e mentre la carta del “piano Juncker” da oltre 300 miliardi di investimenti (ma solo sulla carta, come sappiamo) a tutto fa pensare meno che a un jolly vincente. Certo il nuovo, possibile corso della politica monetaria espansiva della Bce firmata da Mario Draghi può darci una mano. Ma sarebbe un errore molto grave pensare che la svolta di Francoforte possa sostituirsi a una politica riformista e innovativa. Dove gli investimenti sono a questo punto una componente decisiva e non incidentale.

L’economista Jeffrey Sachs ha parlato di recente di «sciopero degli investimenti» (in particolare nel settore dell’energia sostenibile) negli Usa e in Europa e di come questa paralisi è stata interpretata dai neo-keynesiani e dai sostenitori dell’offerta. I primi finiscono per promuovere “espedienti” (tassi d’interesse zero e incentivi) invece di incoraggiare l’adozione di politiche ben definite e “liberare” gli investimenti pubblici e privati intelligenti. I secondi sono indifferenti alla dipendenza degli investimenti privati dagli investimenti pubblici complementari e auspicano una riduzione della spesa pubblica «pensando, ingenuamente, che il settore privato possa magicamente colmare le lacune, ma riducendo gli investimenti pubblici non fanno altro che ostacolare gli investimenti privati».

Dibattito intenso. Nella pratica l’Italia, oggi anche in nome di un pareggio di bilancio costituzionale che non prevede però tetti né per l’aumento delle tasse né per quello delle spese, ha fatto per anni e anni la scelta peggiore e più miope: giù gli investimenti pubblici strategici per il futuro del Paese, su le spese correnti e la pressione fiscale. E quanto alla “ricaduta” sugli investimenti privati, che questi, i privati, si arrangino (ma loro fanno anche assai di più, come dimostra il progetto per la Grande Milano degli industriali lombardi). In un quadro dove l’aumento dei costi burocratici e amministrativi si accompagna, nel rapporto con lo Stato e i suoi bracci operativi, a un assetto giuridico incerto, mobile e improntato alla più ampia discrezionalità anche sul terreno dei diritti proprietari.

Investimenti: una parola abusata, ricorrente all’infinito, che fatica però a ritrovarsi nei numeri che servono e soprattutto nei fatti. Non è una sorpresa, ma deve essere chiaro che senza questi non si esce dall’economia di guerra.