il sole 24 ore

Né stop né retromarce

Né stop né retromarce

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Come una coperta corta il Jobs Act scopre le contraddizioni della maggioranza sul tema del lavoro. Mettere d’accordo Maurizio Sacconi, da una parte, e Cesare Damiano, dall’altra, su un tema ostico come l’articolo 18 è impresa difficile anche per un tessitore abile come Matteo Renzi. Non c’è da sorprendersi, quindi, se al momento di tirare le somme emergano quelle divergenze. Il tema della riforma del lavoro, come ribadito tra gli altri in queste ore dal presidente della Bce Mario Draghi, è però troppo importante per restare ostaggio delle divisioni. È sulla capacità di portare a termine entro la fine dell’anno le nuove regole dell’impiego, infatti, che si gioca la credibilità della capacità riformista non tanto di questo governo, ma dell’Italia nel suo complesso. Tanto più che dal 1° gennaio entrerà in vigore la decontribuzione per chi assume a tempo indeterminato e saranno disponibili nuove risorse per chi perde il posto di lavoro, così come è previsto nella Legge di stabilità.

Non è il momento perciò di stop o di inciampi. Nello stesso tempo va ribadito che non è una riforma purchessia quella che serve. Già ai tempi del governo Monti si è sacrificata l’efficacia della riforma del lavoro sull’altare della mediazione politica. La conseguenza sono stati tre anni di regole che hanno penalizzato e non favorito la creazione di posti di lavoro. Rifare lo stesso errore sarebbe un delitto. È presto per dire se l’accordo interno al Pd configuri appunto un passo indietro. Il testo sull’articolo 18 uscito dalla direzione del Partito democratico, che riapriva al reintegro nel caso dei licenziamenti disciplinari, lo era certamente rispetto all’impostazione originaria di Renzi. Ma la materia si presta a molte sfumature e a molte interpretazioni. Perciò bisognerà aspettare la formulazione degli emendamenti del governo per capire quanto l’esigenza di mediare con la sinistra del Pd possa comportare un effettivo indebolimento della riforma.

Le rassicurazioni che ieri sono arrivate dal premier, e dal suo delegato alla trattativa Filippo Taddei, fanno ben sperare sulle reali intenzioni del governo. Nessuno dalle parti di Palazzo Chigi sembra intenzionato a riallargare in modo ampio e pericoloso le tipologie per le quali ritorna il reintegro in caso di licenziamento. Tanto che anche la posizione del Nuovo centrodestra, dopo il primo allarme, si è fatta in serata più prudente e più ottimista sull’esito finale della trattativa. Il Jobs act ha un suo equilibrio che non va snaturato. Poi toccherà ai decreti attuativi, che saranno il vero cuore della riforma. E su questi il governo potrà avere le mani più libere. Purché, appunto, il Parlamento non introduca in extremis vincoli in una direzione conservatrice.

Recessione, Europa svegliati dal torpore

Recessione, Europa svegliati dal torpore

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

L’eurozona rischia la terza recessione nel breve spazio di cinque anni, accompagnata questa volta dalla deflazione. Nella migliore delle ipotesi l’economia nel prossimo biennio registrerà una crescita compresa tra lo 0,5% e l’1%, mentre gli Stati Uniti correranno a un ritmo superiore al 3%. L’avvertimento arriva dagli analisti di Standard & Poor’s. Ma è solo la prima delle docce fredde regalate dalla giornata di ieri. La Bce non vede altrettanto nero ma condivide l’analisi secondo cui la bilancia dei rischi pende verso il basso, che si parli di inflazione o di crescita, corretta all’1,2% (dall’1,5%) per l’anno prossimo. Grosso modo in linea (1,1%) con le ultime previsioni di Bruxelles che hanno dato una netta sforbiciata alle cifre di sei mesi fa, senza escludere nuove correzioni all’ingiù e riconoscendo candidamente che l’area euro è la zona del mondo che cresce meno di tutte.

In vista del G-20 che si riunisce domani a Brisbane, in Australia, si è fatto sentire anche l’Fmi parlando di crescita graduale ma squilibrata, con la Spagna in ripresa ma Italia, Germania e Francia, le tre maggiori economie dell’euro, in arretramento. Sullo sfondo, uno scenario dai rischi elevati: il calo dei prezzi fa lievitare i tassi reali minacciando uno sviluppo già debole e insieme la sostenibilità del debito.

Evidentemente né la politica monetaria sempre più accomodante della Bce di Mario Draghi, né la previsione di un prezzo del petrolio stabile intorno ai 90 dollari al barile, né la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, che sostiene l’export, sono stimoli sufficienti a scuotere l’eurozona dal torpore in cui è caduta e dal quale non riesce a uscire. Ancora più delle cifre deprimenti che non cessano di susseguirsi giorno dopo giorno, allarma la beata indifferenza, meglio, la placida inedia con cui l’Europa vive le proprie disgrazie economiche come se non fossero le sue ma quelle di qualcun altro. Certo, si insiste di continuo e a ragione sulle riforme strutturali, che sono l’arma vincente per aumentare il potenziale di crescita. Peccato che richiedano tempo non solo per essere attuate ma anche e soprattutto per dare frutti.

Certo, si parla e straparla anche dell’ormai famosissimo piano Juncker da 300 miliardi in tre anni per dare una decisa spinta agli investimenti, soprattutto privati. La proposta arriverà prima di Natale. Poi però andrà discussa e negoziata dai ministri finanziari, approvata e chissà quando sarà pronta all’uso. Scetticismo eccessivo? Speriamo. Purtroppo di piani Ue per la crescita pieni di parole ma vuoti di risorse e alla fine incapaci di volare fuori dalla retorica se ne sono visti troppi. Certo, anche il rigore diventa un po’ più flessibile ma sempre senza esagerare per non indurre i governi riluttanti a staccare la spina dimenticando gli impegni europei assunti. I fatti e le cifre però hanno ampiamente dimostrato che si questo passo l’eurozona non va da nessuna parte: vivacchia, sopravvive ma non ritrova dinamismo, non si mette al passo con i suoi grandi concorrenti globali. Semplicemente li subisce. Anche la Germania, la superpotenza economica dell’eurozona, è in affanno con il fiato sempre più corto. Fuori nel mondo globale la Cina stringe accordi con Russia, Giappone e SudCorea, sbriciola inimicizie secolari per farsi baricentro del nuovo potere economico e geo-strategico dell’Asia che contende la supremazia all’Occidente. Ma la stessa Cina non esita poi a stringere patti tecnologici con l’America di Barack Obama, da sempre attratta dalla frontiera del Pacifico, dalle sue complementarietà potenziali.

L’Europa invece appare del tutto assente dal grande gioco globale, addirittura incerta sulle promesse del Ttip, il grande accordo economico transatlantico che pure, attraverso una maggiore integrazione e complementarietà con l’economia Usa, potrebbe dare una sferzata salutare alle sue anemiche potenzialità di crescita. Per il momento preferisce trastullarsi appagata dal suo vecchio mondo: non importa se è ormai un cantiere in fase di smobilitazione e di desertificazione industriale. Non importa se può permettersi soltanto uno stato sociale a pezzi e assediato da 26 milioni di disoccupati, una tragedia umana e insieme uno scandaloso sperpero di risorse. Non importa se le care regole di Maastricht sono nate e avevano un senso in un’altra Europa, quella che 30 anni fa correva al ritmo medio del 3-4% annuo… Quella di oggi è fatta da un club di Paesi sfiduciati e stanchi di stare insieme. Che pensano di potersi concedere impunemente il lusso di flirtare con la recessione o di vivere a lungo con una crescita media sotto l’1% nel prossimo decennio. Senza accorgersi che, così, lentamente organizzano il proprio suicidio politico, economico e finanziario. Svegliati Europa, è ora di trovare il coraggio di cambiare strada. Altrimenti di questo passo, senza crescita, si rischia di morire risanati. A che pro?

Legge concorrenza ancora in stand by: le lobby frenano

Legge concorrenza ancora in stand by: le lobby frenano

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Una legge attesa dal 2009 è ancora ferma ai box. Per la presentazione del provvedimento annuale sulla concorrenza, un obbligo che ricade sul governo fin dalla legge sviluppo 99/2009, non si possono presumere date senza rischiare di essere smentiti. Si sa di certo, però, che le lobby sono partite all’attacco già al solo comparire delle primissime bozze frutto del lavoro dei tecnici dei vari ministeri. Ormai da qualche mese un susseguirsi di dichiarazioni allarmate e proteste preventive arrivate ufficiosamente sui tavoli dell’esecutivo sta accompagnando silenziosamente – e probabilmente frenando – la stesura del disegno di legge. Gestori di carburanti, carrozzieri, avvocati, notai, farmacisti sono solo alcune delle categorie che potrebbero essere interessate dalla legge e le cui reazioni sono particolarmente considerate o in alcuni casi temute dall’esecutivo. Le bozze del testo, coordinato dal ministero dello Sviluppo economico, recepiscono molte delle indicazioni contenute nell’ultima relazione inviata dall’Antitrust a governo e Parlamento.

Messi insieme, se arrivassero al Consiglio dei ministri indenni di fronte alle pressioni delle lobby e superassero senza ripercussioni l’iter parlamentare, gli interventi di liberalizzazione dei mercati potrebbero rappresentare un pacchetto significativo perl a competitività favorendo anche l’afflusso di investimenti dall’estero. Nei giorni scorsi un gruppo di 9 senatori del Pd – il partito del premier – ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere una rapida redazione della legge, citando anche i richiami della Ue. In particolare, a giugno, nel documento di valutazione del Programma nazionale di riforma (Pnr) e del programma di stabilità 2014 dell’Italia, la Commissione europea, ricordando che il Pnr prevedeva l’adozione della legge annuale entro il settembre 2014, definiva il provvedimento «un importante passo avanti» che avrebbe messo «inoltre in moto un meccanismo positivo per il futuro».

Il lavoro tecnico procede. Ma per ora il governo sembra intenzionato a tenere un profilo basso, per non pubblicizzare troppo le misure e non accendere ulteriormente gli animi delle categorie interessate. Non si puo escludere dunque che, passata l’emergenza della legge di Stabilità, il disegno di legge venga varato a “sorpresa” da Palazzo Chigi. Sulla carta gli interventi esaminati, anche alla luce di segnalazioni di Authority diverse dall’Antitrust, coinvolgerebbero una ventina di settori. Ampio spazio viene dato all’Rc auto, con l’obiettivo di recuperare le norme di un precedente disegno di legge rimasto impantanato ma va fronteggiata l’opposizione dei carrozzieri alle nuove norme sui risarcimenti.I gestori dei carburanti frenano su misure per la liberalizzazione delle forme contrattuali che contrastino con il tavolo di lavoro avviato giada tempo con il ministero. Troppo «dirompente» poi, secondo ambienti di governo, l’idea pur valutata di trasformare l`attuale numero massimo di farmacie in numero minimo.

Delicatissimo anche il capitolo sulle professioni. Esaminato un pacchetto di ipotesi per aumentare la concorrenza tra i notai, anche con la previsione che ad ogni posto notarile corrisponda non «una popolazione di almeno 7mila abitanti» ma «una popolazione al massimo di 7mila abitanti». Ma l’esecutivo, nei documenti interni, non nasconde «la probabile opposizione dei notai», ipotizzando come alternativa un’autorizzazione agli avvocati perché svolgano compiti oggi riservati ai notai. Un altro tipo di considerazioni, invece, impatta sulla possibile deregulation nel settore postale (ad esempio con l’eliminazione della riserva postale sulle notifiche degli atti giudiziari). In questo caso, nelle valutazioni ministeriali, sono finiti i possibili «effetti e la compatibilità con l’operazione di privatizzazione» delle Poste.

Pessimismo giustificato sul calo della benzina

Pessimismo giustificato sul calo della benzina

Il Sole 24 Ore

Il prezzo del greggio è sempre più sobrio. I consumatori già pregustano nuovi ribassi di benzina e gasolio al distributore. Ma il pessimismo della ragione dice che forse non sarà così. I listini del petrolio infatti sono uniti con quelli dei carburanti da un legame lieve (e molto, molto elastico quando si tratta di ribassare). Per esempio martedì, mentre a New York le quotazioni petrolifere scendevano a rotta di collo, sui mercati italiani all’ingrosso la benzina e il gasolio rincaravano e anche in modo orgoglioso, cosi ieri alcuni distributori hanno alzato i prezzi, molti altri invece li hanno limati. Da gennaio però – segnala l’Unione petrolifera – i tributi sui carburanti potrebbero aumentare di quasi otto centesimi di euro il litro per la Legge di stabilità e altre normative. L’automobile, bancomat del Fisco, porterebbe nelle casse statali 2,4 miliardi in più.

L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa potrebbe dirci “no, cara Italia, così non ci siamo, stai deviando troppo dal percorso di rientro dal debito pubblico, correggi la rotta e insisti nel consolidamento fiscale…”. Oppure i mercati, sempre in fiduciosa attesa della svolta della Bce a trazione Mario Draghi, potrebbero improvvisamente svegliarsi facendo un paio di conti: “l’Italia continua a non crescere, l’inflazione è troppo bassa, il debito non si riduce…”. In entrambi i casi potrebbero aprirsi scenari da incubo. Per non dire della terza ipotesi, quella che vedrebbe perfettamente allineati il giudizio negativo di Bruxelles (dal lato del debito crescente) con quello dei mercati (dal lato della mancata crescita).

Quanto prima l’Italia deve uscire da questa spirale, ma non basterà dire “stop alle lezioni di Bruxelles, le vostre valutazioni non ci preoccupano, siamo in linea”. Il Rapporto sui (persistenti) squilibri macroeconomici – alto debito e competitività esterna debole – suona come un primo allarme ancorché basato sui numeri del Def (Documento di economia e finanza) presentato dal Governo Renzi a settembre. Numeri poi corretti dallo stesso esecutivo con il programma di Stabilità per il 2015 e per gli anni a venire. Tra il 24 ed il 25 novembre è attesa (dopo le nuove stime su Pil, deficit e debito di qualche giorno fa) la prima valutazione della Commissione europea sulla Legge di Stabilità e a inizio 2015 scatterà una nuova missione per aggiornare il report sugli squilibri macroeconomici. In primavera ci sarà infine il “verdetto” finale.

Anche il calendario assomiglia insomma ad un “closed loop”, ad un anello chiuso che lascia pochi e sorvegliatissimi varchi. Il Governo squadernerà a Bruxelles le riforme messe in cantiere e cercherà di ottenere la massima flessibilità nel quadro delle regole esistenti riconfermando di stare sotto la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil. Ma potrebbe non essere sufficiente: per l’Europa e per l’esecutivo stesso “a caccia” di crescita per abbassare il debito e rassicurare i mercati. Che Renzi, messo alle strette da dosi crescenti di rigorismo unilaterale, possa trovarsi nelle condizioni di uscire dalla morsa tra mancata crescita e alto debito con un “cambiaverso” sul deficit? Nulla è da escludere.

Il copione di sempre, sperando nella riforma

Il copione di sempre, sperando nella riforma

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il 2014 si chiuderà con il consueto ingorgo di scadenze e versamenti fiscali. Tutti aspettano il “nuovo fisco”, quello della riforma che non arriva, e trovano invece il copione di sempre. Le cronache della scorsa settimana raccontano di un’importante riunione, a Palazzo Chigi, per accelerare l’attuazione della delega fiscale. In effetti, solo tre provvedimenti sono arrivati al traguardo: si tratta dei decreti legislativi su semplificazioni, catasto e tabacchi. Per il resto, la delega fiscale marcia davvero a rilento. Con qualche preoccupazione: mancano meno di 140 giorni alla scadenza del termine per l’emanazione dei decreti legislativi di riordino. In effetti, sembra che alcuni provvedimenti siano in rampa di lancio, in particolare quello sull’abuso del diritto potrebbe arrivare entro fine mese, ma sul resto la strada resta molto lunga.

A complicare il quadro si è aggiunto il fatto che il Governo ha scelto di “trasferire” all’interno del Ddl di Stabilità una parte molto attesa della delega quale è il riordino dei regimi fiscali. In realtà, il cambio di contenitore rischia di mortificare le aspettative che la delega aveva generato, se non altro perché all’idea di un riordino complessivo dei regimi fiscali, da completare con l’introduzione della nuova imposta – Iri – per la tassazione delle persone fisiche che svolgono attività di impresa, si sostituisce la sola riforma del regime dei contribuenti minimi (tra l’”altro, con qualche perplessità sulla reale convenienza del nuovo regime per alcune tipologie di contribuenti, come i professionisti).

Insomma, il tempo stringe. Ed è sotto gli occhi di tutti il fatto che sia quanto mai urgente una scossa tale da consentire la completa attuazione della delega fiscale. Sulle semplificazioni, ad esempio, il primo decreto approvato contiene, con poche eccezioni, le stesse misure già promesse due anni fa. Ma molto di più si può e si deve fare. D’accordo, arriverà la dichiarazione precompilata (una domanda: sarà davvero utile o saranno solo nuove complicazioni?). Eppure, guardando il calendario da qui a fine anno, con questa serie infinita di adempimenti e scadenze, non era difficile capire che anche qui c’è un gran lavoro ancora tutto da fare.

Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Marco Fortis – Il Sole 24 Ore

L’Italia aspetta invano la ripresa da oltre due anni. Immancabilmente ogni trimestre è sembrato essere quello buono per la ripartenza ma le previsioni sono state sempre brutalmente smentite. Il Pil ha continuato a calare, affondato da consumi e investimenti, e fatica a ripartire. La principale ragione di ciò è che l’economia non invertirà la tendenza negativa fintanto che l’occupazione non ricomincerà a crescere. Allora, con la fine dell’agonia del mercato interno, ci sarà la svolta.

Da ottobre 2008 ad aprile 2014 gli occupati, secondo le serie destagionalizzate dell’Istat, sono diminuiti di oltre 1 milione e 100mila unità. Metà dei posti di lavoro persi hanno riguardato i giovani dai 15 ai 24 anni. Ma da aprile a settembre di quest’anno forse le cose stanno finalmente cambiando. Gli occupati totali sono cresciuti di 153mila unità, 82mila dei quali soltanto nell’ultimo mese, dopo la ripresa dalle ferie. Inoltre, la caduta degli occupati tra i giovani sembra essersi fermata.

Che cosa sta succedendo? Valutazioni più precise saranno possibili soltanto tra alcuni giorni quando l’Ista pubblicherà i dati trimestrali sull’occupazione aggiornati a settembre, con un elevato grado di dettaglio sia per macro-settori sia per macroaree geografiche. Per intanto, disponiamo delle rilevazioni Istat relative al secondo trimestre di quest’anno, che già indicavano linee di tendenza piuttosto chiare. Infatti, considerando le variazioni tendenziali, nel secondo trimestre 2014 si rilevava una crescita di 124mila addetti nell’industria in senso stretto rispetto al secondo trimestre 2013 e una crescita di 15mila addetti nell’agricoltura nello stesso periodo. Presentavano invece ancora cali tendenziali significativi i servizi (-92mila addetti) e le costruzioni (-61mila addetti). Se poi analizziamo le statistiche per aree geografiche, notiamo che nel secondo trimestre 2014 il Nord presentava già una modesta crescita degli occupati totali rispetto al secondo trimestre 2013 (+36mila), così come il Centro (+40mila), mentre risultava an cora in forte calo il Mezzogiorno (-90mila).

Da questi dati appare chiaro che l’occupazione italiana non si smuoverà stabilmente dal fossato in cui è sprofondata durante la crisi se non ricominceranno ad aumentare a livello nazionale gli addetti nei servizi e nelle costruzioni, o almeno in uno dei due comparti (fermo restando che industria e agricoltura mantengano i precedenti recuperi). A livello geografico serve invece che riparta l’occupazione nel Mezzogiorno, altrimenti il dato nazionale resterà zavorrato a dispetto dei miglioramenti nel Nord e nel Centro. Incrociando i segnali disaggregati dei dati trimestrali sull’occupazione italiana, fermi per ora a giugno con quelli mensili aggiornati a settembre, possiamo dedurre che qualcosa di positivo sta effettivamente accadendo. E cioè che dopo l’industria e l’agricoltura qualche altro macro-settore (i servizi? le costruzioni?) probabilmente si è ripreso nel terzo trimestre di quest’anno e che forse l’emorragia di posti di lavoro nel Mezzogiorno si è arrestata o è, quantomeno, diminuita.

Se queste impressioni dovessero essere convalidate dalle prossime rilevazioni trimestrali dell’Istat sull’occupazione aggiornate al terzo trimestre 2014, ne risulterà che finalmente l’attesa svolta dell’economia italiana è cominciata. A quel punto l’ attenzione si sposterà sui mesi a cavallo tra la fine di quest’anno e l’inizio dell’anno prossimo. Cruciale sarà il miglioramento del clima di fiducia di famiglie e imprese (con la stabilizzazione degli 80 euro in busta paga, il taglio della componente lavoro dell’Irap e gli incentivi fiscali sulle nuove assunzioni). E non secondario risulterà il prevedibile impatto positivo sul quarto trimestre 2014 e sul primo trimestre del 2015 degli investimenti in macchinari favoriti dalla nuova legge Sabatini. Se tutti gli ingranaggi fin qui inceppati (lavoro, consumi e investimenti) ricominceranno a muoversi nel modo giusto, forse il motore del nostro Pil riuscirà finalmente a scaricare un po’ di potenza sul circuito ad handicap della

Manovra, la Ue riflette

Manovra, la Ue riflette

Beda Romano – Il Sole 24 Ore

Da qui a fine mese, la Commissione europea presenterà la sua attesa opinione sul bilancio previsionale italiano. La partita è complessa. Incrocia dati economici e analisi politica. L’Esecutivo comunitario dovrà tenere conto di numerosi fattori. Non si limiterà a valutare il mero rispetto delle regole di bilancio. Dovrà prendere in considerazione anche l’andamento dell’economia, tanto che le previsioni di Bruxelles in questo campo potrebbero essere di aiuto al governo Renzi.

La Finanziaria prevede un aggiustamento strutturale del deficit dello 0,3% del prodotto interno lordo. Secondo le regole europee, un paese nella situazione dell’Italia, con un disavanzo sotto al 3,0% del Pil ma con un debito elevato, dovrebbe ridurre il deficit di almeno lo 0,5%. Dovrà l’Italia introdurre nuove misure di risanamento dei conti? È possibile. Nel presentare le sue stime economiche, Bruxelles ha lasciato la porta aperta a questa possibilità (si veda Il Sole/24 Ore del 5 novembre). «La valutazione della Finanziaria non è terminata», spiegava ieri sera un funzionario europeo. Aggiungeva un altro esponente comunitario: «Al netto dell’analisi della Finanziaria, c’è un dibattito all’interno della Commissione sull’opportunità o meno di chiedere nuovi sforzi ad alcuni paesi tra cui l’Italia». In una conferenza stampa qui a Bruxelles giovedì scorso il nuovo commissario agli affari economici Pierre Moscovici ha assicurato che la Commissione avrà «un approccio intelligente».

Tra gli aspetti negativi per l’Italia, Bruxelles considererà le sue previsioni sul deficit strutturale italiano, destinato a scendere dallo 0,9% del Pil nel 2014 allo 0,8% nel 2015, per poi tuttavia risalire all’1,0% nel 2016. Nel contempo, la Commissione ha respinto l’ipotesi che la situazione economica possa essere considerata, a livello di zona euro, una circostanza eccezionale, tale da consentire ai singoli stati membri di disattendere le regole europee, secondo quanto previsto dal Patto di Stabilità e di Crescita. Chi tra i commissari vuole chiedere maggiori sforzi all’Italia intende anche difendere la credibilità delle regole europee ed evitare eventuali ricorsi dinanzi alla Corte di Giustizia del Lussemburgo contro una Commissione ritenuta troppo benevola (soprattutto in Germania). C’è da chiedersi peraltro quale potrebbe essere l’impatto sulle scelte di Bruxelles della debolezza politica del presidente Jean-Claude Juncker, sulla scia degli scandali fiscali in Lussemburgo, suo paese d’origine.

Tra i fattori favorevoli all’Italia, l’esecutivo comunitario è pronto a prendere in considerazione le riforme economiche, come attenuanti a misure troppo impegnative sul versante del risanamento delle finanze pubbliche. Ma anche su questo aspetto i risultati italiani sono in chiaroscuro. Alcune riforme sono state adottate, ma spesso sono mancati i necessari atti amministrativi e decreti legge perché i pacchetti legislativi potessero entrare in vigore. A favore di una posizione più accomodante ci sono anche preoccupanti previsioni economiche della stessa Commissione, in un contesto politico italiano molto fragile e mentre si torna a parlare di elezioni anticipate. L’output gap, ossia il divario tra crescita reale e crescita potenziale, è elevata: del 4,5% del Pil nel 2014 e del 3,4% del Pil nel 2015. Per questo anno, Grecia, Spagna, Cipro e Portogallo sono messi peggio. Per il prossimo, solo Grecia, Cipro e Spagna hanno valori superiori a quelli italiani.

Raddoppiano i contratti a termine tra gli immigrati

Raddoppiano i contratti a termine tra gli immigrati

Rossella Cadeo – Il Sole 24 Ore

Hanno un tasso di occupazione superiore rispetto agli autoctoni, ma frequentemente svolgono attività disagevoli, e sono pronti ad accettare orari “asociali”. Inoltre, nonostante siano disposti ad accettare una retribuzione sotto la media, si dichiarano poco propensi a spostarsi in altre città o ad abbandonare l’Italia per trovare un impiego. E, comunque, anche gli stranieri in Italia – contrariamente a quel che si tende a credere – risentono di un generale peggioramento del quadro generale rispetto a sette anni fa, prima dell’inizio della grande crisi.

A grandi linee è questa la fotografia che emerge dalla ricerca realizzata dalla Fondazione Leone Moressa su «Come è cambiato il lavoro negli anni della crisi» che, sulla base dei dati Istat, ha messo a confronto la situazione lavorativa attuale degli stranieri e degli italiani nel 2013, rapportandola anche ai dati relativi al 2007, ultimo anno positivo prima dell’ingresso nel tunnel della crisi. «La crisi ha inciso profondamente sugli indici occupazionali dei lavoratori nel nostro Paese – osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione Leone Moressa -. A rimetterci maggiormente sono stati gli immigrati, in quanto prevalentemente occupati nei settori più esposti alla crisi. Tra gli effetti di questa difficoltà troviamo la crescita dei contratti a tempo determinato e l’aumento della disoccupazione di lunga durata. Tuttavia, i cittadini stranieri dimostrano una adattabilità maggiore rispetto agli italiani, come conferma la disponibilità a lavorare negli orari più scomodi».

Gli indicatori ci dicono prima di tutto che il tasso di occupazione degli immigrati è molto più alto rispetto a quello degli italiani (57,1 contro 41,8%). Questo fatto però si spiega facilmente se si pensa che si tratta di soggetti mediamente più giovani rispetto alla popolazione autoctona (dove c’è un’elevata componente di pensionati) e che per rinnovare il permesso di soggiorno devono dimostrare di avere un lavoro. Dal 2007 a oggi però la crisi ha colpito più duramente gli immigrati: infatti per loro il tasso di disoccupazione è peggiorato di 9 punti, mentre “soltanto” di 5,6 per gli italiani.E se è vero che oltre un occupato su dieci oggi è straniero (quando nel 2007 erano circa il 6%) è anche vero che dall’inizio della crisi è raddoppiata la percentuale di immigrati assunti con un contratto a tempo determinato (sono il 13% dei lavoratori stranieri, sei punti in più rispetto al 2007, contro il 9,5% degli italiani) ed è ferma al 13% la quota di chi riesce a mantenersi cimentandosi in un’attività autonoma o da collaboratore.

L’obiettivo “permesso di soggiorno” spiega anche la maggiore disponibilità degli stranieri ad accettare i lavori meno qualificati, ma soprattutto posti con minori tutele, orari disagevoli e retribuzioni sotto la media. Elaborando le rilevazioni delle forze di lavoro dell’Istat, la ricerca di Fondazione Moressa mette in luce la forte presenza di stranieri in imprese piccole e medie, ossia in realtà dove non trova applicazione l’articolo 18: tra i dipendenti nel settore privato quelli che possono ricorrere alla protezione dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa sono solo meno di un terzo tra gli stranieri (contro una media complessiva del 55%).

Quanto al maggior grado di adattabilità, lo si evince dalla percentuale di immigrati che accettano di lavorare in orari asociali, nei fine settimana, di sera o di notte: il 53% (contro il 46,6% tra gli italiani), un dato peraltro in aumento su entrambi i segmenti di lavoratori e chiaro sintomo della crisi in atto. Anche sulla busta paga lo straniero è disponibile a fare più di un passo indietro: al mese la media si aggira sui 960 euro contro i 1.250 di un lavoratore italiano, circa un quarto di differenza. Una volta arrivato in Italia, comunque, chi viene da un Paese straniero non sembra trovarsi poi tanto male: pur di avere un impiego, quasi un disoccupato italiano su tre sarebbe disposto a trasferirsi in un’altra città nella penisola (17%) o all’estero (13%). Invece, tra gli stranieri, meno del 20% si muoverebbe di nuovo per un’altra destinazione in Italia (10%) o all’estero (8,5 per cento).

Una bomba a orologeria di cui la Ue non ha bisogno

Una bomba a orologeria di cui la Ue non ha bisogno

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Una vicenda che, soprattutto, potrebbe scatenare l’ennesima crisi in un’Europa che finora si è già ampiamente dimostrata incapace di risolvere quelle, troppe, che ha e si trascina dietro irrisolte da troppo tempo. Per questo ieri a Bruxelles si sono messi all’opera gli artificieri. Nel corso dell’Ecofin i ministri finanziari hanno moltiplicato i segnali mirati a trasformare un potenziale gioco al massacro di Juncker non nella sua difesa incondizionata ma in una sorta di salvataggio programmato. O almeno questo sembra.

Nessun ministro, nemmeno il presidente di turno Piercarlo Padoan, in una riunione chiamata tra l’altro a discutere di tassazione delle società europee e di come evitare in futuro evasione, frodi ed elusione, ha ritenuto di attaccare il neo-presidente della Commissione Ue. Al contrario. Il francese Pierre Moscovici, oggi responsabile a Bruxelles del Fisco oltre che delle Politiche economiche e finanziarie europee, ha annunciato prossime proposte per l’armonizzazione della normativa Ue «in pieno accordo con il presidente Juncker». E ha ricordato che della questione si discuterà settimana prossima anche al vertice del G-20 a Brisbane.

Parallelamente il tedesco Wolfgang Schauble ha annunciato investimenti per 10 miliardi a sostegno della crescita: un’implicita apertura di credito al piano Ue da 300 miliardi in tre anni proposto da Juncker in luglio e in arrivo in dicembre sul tavolo dei 28 capi di Governo dell’Unione. Fino a ieri era stato proprio Schauble il grande oppositore dell’iniziativa, nella convinzione che solo rigore e riforme siano i mattoni di una crescita sana e duratura. Naturalmente è il rallentamento dell’economia in Germania a consigliargli la correzione di rotta. Però in questo momento l’annuncio rappresenta un assist indiretto al presidente della Commissione in difficoltà.

Nemmeno il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, noto castigamatti di evasione, corruzione e economie nere nell’Unione, ha del resto mobilitato l’artiglieria pesante. Tutt’altro. Allora scampato pericolo? Troppo presto per dirlo. Però sembra accertato che, in un momento di profonda crisi economica e politica dell’Europa, i suoi Governi tutto desiderino fuorché aprire un nuovo fronte tellurico. D’altra parte i regimi fiscali compiacenti per le società oggi non solo sono legali ma non sono affatto appannaggio esclusivo del Lussemburgo. Anche Irlanda e Olanda sono nel mirino della stessa inchiesta europea, che si limita ad appurare l’esistenza o meno di aiuti di Stato distorsivi della concorrenza.

Nemmeno Gran Bretagna e Belgio, Malta e Cipro risultano senza peccato. Per questo, a meno che emergano nuovi elementi al momento ignoti, la “criminalizzazione” solitaria di Juncker potrebbe rivelarsi una scelta-boomerang per molti. Meglio allora affrontare la vicenda guardando al futuro invece che al passato e al presente, puntando sull’armonizzazione della fiscalità in Europa. L’impresa finora è stata impossibile, perché ogni decisione in questo caso va presa a 28 e all’unanimità. Ma i tempi cambiano, i bilanci nazionali piangono, i capitali fuggono e i cittadini non possono oltre un certo limite sostenere con le loro tasse il peso dell’«ottimizzazione» fiscale per le imprese. Comunque finirà, la Commissione Juncker che si voleva un interlocutore forte dei Governi, l’antitesi di quella guidata da Josè Barroso, un ponte verso cittadini europei sempre più scettici e incattiviti verso le politiche Ue, rischia però di perdere la sua scommessa ancora prima di aver avuto il tempo di lanciarla.