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Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Giovanni Scanagatta – Il Sole 24 Ore

Il Terzo Rapporto UCID 2013/2014 “La coscienza imprenditoriale nella costruzione del bene comune” (Libreria Editrice Vaticana, 2014) afferma che per il nostro futuro abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa, ma di una Europa diversa. È più che mai valido il vecchio dilemma di Thomas Mann: si riuscirà ad abbandonare l’idea di «un’Europa tedesca» per sviluppare invece una «Germania europea», più aperta alle esigenze degli altri popoli?

I destini dell’Italia e della Germania sono incrociati e i tedeschi sono il nostro primo partner commerciale. Ma un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro più vicino a 1,50 che a 1,00, risponde certamente molto di più agli interessi della Germania che a quelli dell’Italia.

Nonostante queste condizioni ed altre fortemente penalizzanti come il fisco e la burocrazia asfissiante, le nostre imprese riescono ad esportare circa il 30% del prodotto interno lordo, una percentuale simile a quella della Cina.
Dal 2000, la nostra competitività rispetto alla Germania in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (clup) è molto penalizzata, in relazione ad una dinamica della produttività molto bassa.

Migliora invece in modo notevole la nostra competitività rispetto alla Germania, se misurata rispetto ai prezzi alla produzione, mediante la contrazione dei margini di profitto che però non è sostenibile nel medio-lungo periodo perché viene intaccato il risparmio di impresa e le possibilità di accumulazione e sviluppo.
Un ruolo cruciale, ai fini della competitività, gioca la qualità delle esportazioni italiane decisamente superiore a quella delle esportazioni tedesche. In questi ultimi anni, il contributo delle nostre esportazioni nette alla crescita del prodotto interno lordo è stato largamente positivo, a fronte di un contributo negativo della domanda interna per consumi e investimenti. Senza il contributo delle esportazioni, la crescita della nostra economia sarebbe precipitata su valori negativi pericolosi.
Di fronte a questo quadro e a quello altrettanto difficile dei paesi del Sud dell’Unione europea, la Germania deve essere più europea e meno rigida sulla moneta e sui parametri di Maastricht, soprattutto quelli fiscali (deficit e debito pubblico rispetto al Pil), per favorire la crescita e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Nel nostro paese il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 40 % e nel Sud il 60 per cento.

Un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro vicino alla parità, darebbe una forte spinta alle nostre esportazioni e alla crescita, senza temere per i prezzi perché ora siamo in deflazione. Per il futuro dell’Europa abbiamo bisogno di leader, come è avvenuto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con la nascita della Ceca e poi del Mercato Comune, ad opera di statisti illuminati dal cristianesimo come Adenauer, De Gasperi e Schuman. Altrimenti, come stiamo vedendo, prevalgono i burocrati della Commissione europea che ingessano e soffocano tutto con un eccesso di regole e direttive.

Dicevamo prima che i destini dell’Italia e della Germania sono incrociati, anche se gli italiani non amano i tedeschi ma ammirano la Germania, mentre i tedeschi non ammirano gli italiani ma amano l’Italia, come è avvenuto per Goethe e oggi per Angela Merkel che sceglie Ischia per le proprie vacanze. La Germania ha veramente una grandissima responsabilità verso l’Europa. Molti sono coloro che non la ritengono all’altezza del compito: a cominciare dal filosofo tedesco Habermas. Volenti o nolenti, dobbiamo riporre le nostre speranze nella Germania. Se poi la Germania non volesse o non potesse realizzarle, sarebbe un disastro per tutti, a cominciare dai tedeschi destinati a soccombere, ancora una volta, ai sogni di grandezza.

Imprese, risale la fiducia

Imprese, risale la fiducia

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

A luglio è risalito verso i massimi degli ultimi tre anni l’indicatore di fiducia dell’insieme delle aziende italiane, passando a quota 90,9 da 88,2 di giugno (il 2005 è base=100). È un segnale positivo e lascia sperare che, dopo due trimestri di stagnazione, nel terzo trimestre del 2014 possa rendersi percepibile qualche refolo di ripresa economica. L’Istat precisa tuttavia che dietro al miglioramento complessivo delle attese, vi sono in realtà aspettative diverse nei vari settori dell’economia: «L’indice complessivo – spiega infatti l’Istituto di statistica – è la sintesi di aumenti della fiducia delle imprese dei servizi, delle costruzioni, del commercio al dettaglio e della lieve diminuzione della fiducia delle imprese manifatturiere». In effetti, se si considera il solo settore manifatturiero, che era stato il primo nei mesi scorsi a registrare dei miglioramenti di aspettative, si vede che quello di luglio è il secondo calo consecutivo, perché peggiorano le valutazioni delle imprese sull’andamento corrente degli ordini (in particolare di quelli sul mercato interno) e della produzione; quanto al futuro, sono stabili le aspettative delle aziende manifatturiere sugli ordinativi mentre migliorano le attese sulla produzione; peggiorano, però, le valutazioni sull’economia in generale e sull’occupazione. Il tono del sentiment delle imprese manifatturiere è inoltre piuttosto differenziato sia se si considerano i raggruppamenti principali di industrie sia se si fa riferimento alle aree geografiche: a luglio la fiducia peggiora in tutti i macrosettori, tranne che in quello dei beni di consumo; sale nel Nordest e nel Centro Italia, mentre scende nel Nord ovest e nel Mezzogiorno.

Le note davvero positive del report dell’Istat si rintracciano invece nei dati trimestrali sulla capacità produttiva (il grado di utilizzo degli impianti è salito al 72,6 per cento nel secondo trimestre contro il 71,6 del primo) e, soprattutto, si desumono dall’indagine sulle aziende non manifatturiere: il sentiment migliora sia nelle costruzioni, sia nei servizi, sia nel commercio. E migliora, in particolare, per il secondo mese consecutivo, il morale delle aziende dell’edilizia, che risale da livelli molto depressi. «Si tratta nel complesso di un buon dato – osserva il chief economist di Nomisma, Sergio De Nardis – ma è da prendere con cautela, tenendo conto della perdita di spinta dell’industria e, soprattutto, dell’esperienza del passato». Da circa un anno, infatti, le indagini campionarie stanno segnalando miglioramenti economici in arrivo senza che questo si sia tradotto sinora in concreti aumenti di prodotto: c’è stato quindi, sinora, uno scollamento fra attese e realtà effettiva dell’attività produttiva. Intanto ieri anche l’Abi ha diffuso le più aggiornate previsioni provenienti dagli uffici studi delle aziende di credito attraverso il suo rapporto Afo. Le stime confermano che nel 2014 la crescita media del Pil italiano difficilmente supererà lo 0,3 per cento: il numero appare più o meno in linea con quanto hanno già previsto Bankitalia, Fondo monetario, Centro studi Confindustria, Prometeia e Cer, mentre il Ref di Milano ha parlato di crescita zero tout court per il 2014.Tuttavia, stima l’Abi, la ripresa arriverà entro l’anno e nel biennio 2015-2016 il Pil dovrebbe aumentare dell’1,3-1,4%, a un ritmo decisamente migliore delle recenti esperienze.

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

E se l’Italia fosse già diventata un semplice mercato, una country, una semplice linea di affari nel bilancio consolidato di una multinazionale di successo nel mercato globale? Mentre proseguono le inutili polemiche post acquisizione della Indesit da parte della Whirlpool con le solite grida «Al lupo! Al lupo!» per segnalare il pericolo di un made in Italy sotto attacco da parte dei predatori internazionali, si registrano altre fughe dal Belpaese di multinazionali macina utili. L’italianissima Gtech, un tempo Lottomatica, ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt, leader mondiale dei casinò e nel social gaming, per 4,6 miliardi. Ne nasce il gruppo più importante del pianeta nel settore del gioco, anche di quello digitale. Contestualmente all’acquisto Gtech ha annunciato che sposterà la sede fiscale del gruppo dall’Italia a Londra e che procederà al delisting del titolo da Piazza Affari. Qualche mese prima era stata la Fiat di Sergio Marchionne a muovere la sede fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione con Chrysler, Fca, a Londra e quella legale in Olanda.

I commentatori banali si fermerebbero a evidenziare il solo shopping fiscale come ragione prevalente, se non unica, della fuga dall’Italia. La realtà, purtroppo, è ben più negativa per l’Italia e il motivo fiscale è solo uno dei tanti. Certo, l’Irap che esiste e si paga solo in Italia e che è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali nelle sue logiche di calcolo e nella sua peculiare base imponibile, che ne fa una patrimoniale sulle imprese, non aiuta a trattenere le multinazionali. Certo, il tax rate fino a 10 punti più alto di quello che offre il Regno Unito di Dabid Cameron, che ha per ben due volte ridotto l’aliquota sugli utili societari, è una sirena alla quale è difficile resistere. Certo, il cuneo fiscale più alto perfino di quello tedesco non può non fare da acceleratore della fuga. Ma, se l’Italia avesse una Pubblica amministrazione degna nella sua qualità media e nei suoi meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, gran parte dei problemi fiscali potrebbero essere gestiti. Le multinazionali di successo scappano da un paese con una giustizia civile da quinto mondo e con una macchina burocratica pensata per essere un postificio, un atipico strumento di politica occupazionale keynesiana capace solo di scavare buche laddove strade e ponti non saranno mai costruiti. La Pa italiana non garantisce i servizi essenziali per le multinazionali contemporanee in termini di qualità media e tempi di lavorazione e le nostre multinazionali fanno shopping burocratico all’interno della Ue. Eppoi, le multinazionali italiane di successo scappano anche da un mercato dei capitali periferico e da un sistema bancario nel quale il credito è non solo rarefatto ma anche senza grandi protagonisti internazionali in grado di accompagnare il business dall’America alla Cina, dalla Russia al Canada.

Gtech in qualche modo è l’idealtipo del made in Italy di successo nell’high tech. Apparentemente è una società che fa business con lotterie e gratta&vinci, nella realtà una formidabile Amazon del gioco digitale capace di anticipare i megatrend mondiali del settore. In parte grazie alla deregolamentazione del comparto dei giochi adottata nel passato dall’Italia (liberalizzare fa sempre bene e produce crescita e sviluppo), in parte grazie a un management di ottima qualità, negli anni Lottomatica ha saputo costruire delle piattaforme proprietarie per gestire i suoi tanti giochi e capire che le stesse potevano facilmente diventare degli erogatori di servizi nei vari mercati della globalizzazione. L’evoluzione della tecnologia nella direzione del cloud e delle app ha consacrato questa visione di business.

Gtech e Fca che fanno rotta all’estero segnalano quanto sia concretamente difficile fare business per una multinazionale che oggi si presenta sui mercati internazionali a raccogliere capitali con base in Italia e strategia operativa a livello globale. Gli azionisti, in primis quelli istituzionali operativi nei vari continenti, non amano avere in portafoglio titoli o azioni made in Italy. Su questi titoli, stante la comprovata atipicità italica, chiedono un premio per il rischio aggiuntivo per investire. Premio che non ha senso pagare e che nessuna multinazionale che vuole essere davvero competitiva si può permettere di pagare.

Ecco spiegato perché, mentre a Palazzo Chigi vengono presentate e illustrate le dettagliate slide che spiegano le molte riforme di cui l’Italia ha bisogno, i ritardi accumulati nel passato spingono alla delocalizzazione le nostre migliori multinazionali. Ovviamente, la colpa non è del bravo e determinato premier che è arrivato al governo da soli quattro mesi. Ma è altrettanto ovvio che di tempo Matteo Renzi non ne può più guadagnare: o riforma per davvero e rapidamente oppure si ritrova a governare un paese condannato a crescere dello zero virgola ogni anno.

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Federico Fubini – La Repubblica

Cambia il controllo di Frette, il produttore di biancheria di lusso che fornì le lenzuola all’Orient Express e al Titanic, ma la notizia non è che ora apparterrà a un investitore straniero. Era già così. L’antica casa milanese viene infatti ceduta da un fondo di San Francisco a uno di Londra. La notizia è che non c’era un investitore italiano disposto o capace di presentare un’offerta o un progetto industriale migliori.

È già successo negli ultimi anni, in vari settori. Dall’alimentare con Parmalat acquisita dai francesi di Lactalis, alla Ducati passata al gruppo Volkswagen, alle conquiste del gruppo transalpino Lvmh su Bulgari, Loro Piana o la pasticceria Cova, fino alla recente cessione del controllo di Indesit agli americani di Whirlpool. Difficile spiegare ai dipendenti delle società vendute che ciò sia un male, se ora vedono più investimenti, nuove competenze e la conquista di mercati prima irraggiungibili. Per loro la sicurezza del posto in futuro fa premio sul prefisso telefonico dell’azionista di controllo. Per i neolaureati che adesso possono mandare un curriculum nella speranza di una vera chance, ancora di più. Resta giusto un dubbio sull’asimmetria. Il valore delle fusioni e acquisizioni nel mondo quest’anno è già a 1.500 miliardi di dollari e forse il 2014 batterà il record del 2007. Dalla farmaceutica all’energia, da Pfizer e General Electric, tornano le offerte per creare i cosiddetti Mammuth. Ma l’Italia è molto più preda che predatrice. Le sue imprese non sono quasi mai alla testa ma schiacciate in mezzo alle catene di fornitura dei milioni di componenti che generano aerei, auto o gadget elettronici; dunque per lo più vengono acquistate, ma molto di rado acquistano le altre.

Una ricerca di Roland Berger Italia per Repubblica fa capire perché: dal fondo della crisi globale nel 2009 il made in Italy manifatturiero ha sì abbozzato una ripresa ma non riesce a produrre la cassa necessaria a preparare il futuro. Quella che crea basta a fatica a sostenere i debiti del passato. Da quando l’economia italiano crollò del 5% subito dopo il crac di Lehman, gli investimenti industriali in Italia sono addirittura scesi di un altro 9%: difficile restare competitivi così, se non cambia il modo di finanziamento e con questo la struttura stessa delle imprese. I dati della Roland Berger, il gruppo di consulenza, mostrano come questa crisi stia portando con sé la fine del capitalismo all’italiana fondato sulle medie imprese familiari che restano indipendenti e si finanziano in banca. Non un male, se sarà sostituito con un modello più adatto ai tempi. «Ci sono molte medie aziende per le quali nuova finanza è pronta ad arrivare dai fondi esteri o italiani o da grandi investitori istituzionali» dice Andrea Marinoni di Roland Berger Italia. «Ma solo a patto che ci siano fusioni, spacchettamenti di settori e filiere produttive, progetti fra più gruppi. Non più ognuno per sé come in passato».

Certo come oggi non può continuare. Non è più sostenibile, per esempio, il peso predatorio delle municipalizzate sul sistema produttivo. La Roland Berger mostra che dal fondo della crisi nel 2009 il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi, è quello delle società partecipate dagli enti locali che forniscono servizi come acqua o elettricità. Il loro giro d’affari è esploso nel 63%, pesa dieci volte più del settore auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare. Vista così, il settore trainante del Paese sembra il parassitismo delle mille piccole Iri di provincia. Un gigante sostenuto dagli aumenti continui delle tariffe, che tuttavia fatica a stare in piedi: malgrado il boom delle rendite estratte dal mondo produttivo, la redditività delle municipalizzate non cresce e i loro investimenti addirittura cadono. Questa tassa impropria sul resto dell’economia a sua volta alimenta, ma non determina da sola, le difficoltà del manifatturiero. Non che tutto vada male, perché un po’ di ripresa c’è stata. Dal punto basso del 2009 al 2012 il fatturato del settore alimentare è salito da 24,6 a 26 miliardi, quello del settore auto (molto più piccolo) da 6,3 a 7,1 miliardi. E cresce la meccanica, con un aumento delle vendite da 24 a quasi 33 miliardi. In calo ulteriore del 17% dopo la frana del 2009 risulta solo il comparto tessile e abbigliamento, che nel 2012 ha fatturato appena un terzo del settore alimentare. Il problema dunque non è la capacità di queste imprese di vendere i loro prodotti nel mondo, ma quella di guadagnare denaro facendolo. Il carico fiscale, il costo dell’energia, la burocrazia e gli interessi sui forti debiti bancari erodono sempre più il margine operativo lordo. Nell’alimentare è caduto del 6%, nel farmaceutico del 10%, nel tessile e abbigliamento del 37%. Meglio solo la meccanica dove sale al 2,7% del fatturato, anche e resta ridotto quasi all’osso. Non stupisce che in praticamente tutti i settori industriali italiani (meno l’abbigliamento) gli investimenti calino in proporzione al fatturato persino rispetto al nadir del 2009. In sostanza le aziende industriali d’Italia, il Paese che si gloria di essere il secondo produttore manifatturiero d’Europa dopo la Germania, non guadagnano abbastanza per preparare il loro futuro. I loro concorrenti esteri investono di più.

Per capirlo la Roland Berger ha esaminato un campione di 590 imprese italiane con un fatturato di più di 200 milioni di euro (di queste, circa due terzi sono manifatturiere). Vengono fuori le differenze con le loro avversarie nel resto d’Europa. Nel made in Italy tra aziende su quattro vedono nelle banche le loro fonti di finanziamento più importanti (in Europa solo la metà), eppure il credito allo sportello è in continuo calo e non dà segnali di inversione. Significa che il mondo produttivo non può più andare avanti come prima e forse è alla vigilia di una svolta. «Le imprese devono aprirsi al capitale da nuove fonti e di conseguenza cambiare la loro struttura di controllo» nota Marinoni. Se possibile, senza continuare a pagare il pedaggio alla municipalizzate.

Conquistateci tutti!

Conquistateci tutti!

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

«Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. (…) Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutit i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale». Tutto vero, solo che con gran dispiacere dello stesso Karl Marx – che questo scriveva nel 1848 – la “presa di coscienza del proletariato” non ha distrutto l’economia di mercato. Resta dunque intatto, a quasi due secoli di distanza, l’effetto trasformativo del capitalismo globalizzato, magistralmente descritto dal filosofo di Treviri, e restano gli annessi sentimenti e le resistenze di stampo “reazionario”. Lo dimostra, periodicamente, l’atteggiamento allarmistico di pezzi dell’establishment e della stampa nazionale di fronte agli investimenti esteri in Italia. Gli emiratini di Etihad mettono sul piatto 1,2 miliardi (tra capitale e investimenti) per resuscitare Alitalia, compagnia di bandiera ridotta prima a carrozzone pubblico e poi di nuovo tramortita dalla gestione privata dei “capitani coraggiosi” col passaporto italiano? Allora ecco che arriva la minaccia di veto della Cgil che non accetta esuberi di sorta (980 su oltre 12mila dipendenti) dettati dal conquistatore straniero. La scorsa settimana Indesit, azienda di elettrodomestici, viene acquistata dalla statunitense Whirlpool? Apriti cielo, ecco pronta da pubblicare la lista dei marchi che “scappano” all’estero. Al punto che il presidente del Consiglio Matteo Renzi, steccando rispetto al coro lagnoso, ha detto al Corriere della Sera: «La considero un’operazione fantastica. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata».

I “reazionari” però insistono. Perché gli investimenti esteri, escludendo i casi in cui assumono le sembianze della cannibalizzazione utile solo a preservare monopoli altrui, hanno conseguenze perfino più profonde e innovatrici di quelle solitamente messe in conto, cioè Pil e posti di lavoro aggiuntivi. Che pure, in un paese a crescita anemica e col debito pubblico in aumento – ieri è stato raggiunto il record di 2.166,20 miliardi – non sarebbe poca cosa. Gli investitori esteri, in Italia, spesso portano infatti con sé sistemi produttivi più efficienti della media nazionale, modalità di gestione d’azienda che fanno più volentieri ricorso al capitale proprio e generano maggiore redditività, per non dire dello svecchiamento delle relazioni industriali. Capitalismo e concorrenza, dunque, fuori da certi canoni cui una parte del mondo produttivo italiano si è abituata.

«Dell’investimento estero tendiamo a offrire sempre e comunque un’immagine catastrofica – dice al Foglio Giorgio Barba Navaretti, ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Milano, autore per il Mulino di “Fiat Chrysler Automobiles – Così guardiamo con sospetto sia la Fiat che si espande all’estero e diventa Fiat-Chrysler, sia l’italiana Indesit che viene comprata dall’americana Whirpool». Fenomeno curioso che secondo Navaretti è dovuto al fatto che «non abbiamo un’idea chiara di cosa voglia dire “competere” oggi. Diventare globali, infatti, è parte di un processo ormai normale. Piuttosto dovremmo ragionare sul fatto che le nostre aziende, per una struttura di governance che non riesce a trasformarsi da “familiare” a “manageriale”, faticano a espandersi e quindi a emanciparsi per esempio dal solo capitale bancario. Perciò tendiamo ad avere più “prede” che “predatori”».

C’era da attenderselo, in un paese che è al 65° posto su 189 nella classifica mondiale in quanto a facilità di fare impresa. Meglio di noi Spagna (52° posto), Francia (38°) e Germania (21°). Tra inefficienza del sistema giudiziario, fisco laborioso e asfissiante, burocrazia onnipervasiva gli autoctoni barcollano, figurarsi col fardello aggiuntivo della cattiva congiuntura. Gli stranieri, al netto di occasioni troppo ghiotte per rifiutarle, si tengono alla larga: comprano titoli di Stato se Mario Draghi garantisce «whatever it takes», ma poi negli ultimi vent’anni indirizzano nel nostro paese soltanto l’1,6 per cento di tutti gli investimenti esteri realizzati nel mondo, contro il 3,5 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Francia. E noi, quando gli investitori esteri ci sono, come li accogliamo? «Come fossero delle sanguisughe che nel migliore dei casi succhiano il nostro sangue per pagare all’estero meno tasse sugli utili», dice al Foglio l’economista industriale Riccardo Gallo. Idea sbagliata, spiega, perché «i dati raccolti da Mediobanca su un campione rappresentativo delle medie e grandi imprese a controllo estero presenti nel nostro paese dimostrano che queste imprese creano più valore aggiunto delle italiane, hanno nell’insieme una redditività positiva, hanno pagato oltre 40 miliardi di tasse negli ultimi 10 anni e continuano a rischiare più capitale proprio di quanto non facciano le concorrenti italiane. Altro che sanguisughe». E poi «basta con questo senso di avvilimento!» esclama Gallo. «È datata la visione delle multinazionali straniere che si contrappongono alle microimprese italiane. Il processo produttivo è diventato davvero globale. Oggi dunque anche una microimpresa italiana, se primeggia nel suo campo, si può aggiudicare un anello di una lunga catena di montaggio».

Nelle scorse settimane Paolo Ciocca, economista di Bnl-Bnp Paribas, ha pubblicato una ricerca sulle 13.527 imprese a controllo estero residenti al 2011 in Italia (escludendo attività finanziarie e assicurative). Ha scoperto che hanno una dimensione media maggiore di quelle nazionali: 88,6 addetti contro 3,5. Che ogni loro singolo addetto crea il doppio del valore aggiunto rispetto a un addetto di un’azienda tutta italiana, il 20 per cento in più se il confronto si limita alle medio-grandi. Queste imprese poi investono in media il doppio di quelle a controllo italiano, anche in ricerca e sviluppo. Più produttività e più ricerca, nemmeno a dirlo, generano in media una redditività maggiore. Obiettivo perseguito perfino a costo di scuotere la foresta pietrificata delle relazioni industriali. «C’è il caso di Ducati che, una volta acquisita dai tedeschi, ha importato un modello più partecipativo di relazioni coi sindacati, ma anche di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro – dice al Foglio Paolo Tomassetti, ricercatore di Adapt. E c’è il caso di Fiat che, uscendo dal contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico in occasione della fusione con Chrysler, ha spinto tutto l’indotto ad adeguarsi alle nuove esigenze». Nello svecchiamento delle relazioni industriali di stampo concertativo tra sindacati e Confindustria, dunque, «un effetto emulazione rispetto agli investitori esteri è sicuramente possibile». Difficile stupirsi, in definitiva, se di fronte al borghese col passaporto straniero s’ode solo la lagna dei “reazionari”.

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Un mese di lavoro per correre dietro alle scartoffie. Per rispettare gli impegni burocratici e fiscali, una piccola e media impresa dedica 30 giorni lavorativi all’anno. Ed una spesa media che oscilla fra i 7mila e i 12mila euro. E chi paga di più sono proprio le aziende di più piccole dimensioni: quelle sotto i 50 dipendenti. Per questo tipo di aziende il costo è cresciuto del 19% negli ultimi 7 anni. Per quelle con meno di 250 occupati la spesa stimata è di 7mila euro. Nel complesso, la “mano morta” della burocrazia comporta un costo complessivo a carico delle piccole e medie imprese calcolato in 31 miliardi di euro. Rispetto al 2007 la crescita del tempo dedicato a sbrigare il carico burocratico è aumentato del 26,4%. Le stime vengono dalla Cgia di Mestre. «Si pensi – spiega Giuseppe Bortolussi – che, secondo l’indagine annuale Promo Pa Fondazione, l’81% delle imprese con meno di 50 addetti è costretto a rincorrere a consulenti esterni per fronteggiare questo nemico invisibile: ovvero la cattiva burocrazia». Il 70% delle imprese deve ricorrere a professionalità esterne ad integrazione degli uffici amministrativi, e l’11% affida a terzi tutte le incombenze. «È evidente – commenta il presidente della Cgia di Mestre – che se non si mette immediatamente mano a quel labirinto di leggi, decreti e circolari varie che rendono la vita impossibile a milioni di piccoli imprenditori, corriamo il pericolo di soffocare la parte più importante della nostra economia».

La burocrazia, comunque, non colpisce soltanto le aziende ma anche i cittadini che, quotidianamente devono affrontare la fila allo sportello. Sempre la Cgia di Mestre segnala che negli ultimi 10 anni il numero di persone che attendono più di 20 minuti agli sportelli dell’ufficio anagrafe è cresciuto del 43,7%. Infatti, nel 2003 12,6 persone su 100 lamentavano tempi di attesa superiori ai 20 minuti: 10 anni dopo la coda all’anagrafe è arrivata a durare più di 20 minuti per ben 18,1 persone su 100. La soglia dei venti minuti, poi, colpisce anche il pianeta della Sanità. Se nel 2003 ben 41 persone su 100 avevano riscontrato un’attesa allo sportello dell’Asl superiore ai venti minuti, dieci anni dopo la fila si è idealmente “allungata” di 8 persone. In altre persone, nel 2013 ben 49,7 persone su 100 hanno denunciato di aver atteso più di 20 minuti di fronte agli sportelli delle aziende sanitarie locali. Condizione drammatica nel Centro Sud. La Calabria guida la graduatoria dei cittadini che restano più tempo davanti a uno sportello della Asl. Il 70% dichiara di aver atteso oltre i 20 minuti. Così come il 66,6 per cento dei siciliani e il 62,5 per cento degli abitanti del Lazio. Per le code all’anagrafe, invece, la graduatoria si ribalta. E i laziali guidano la non certo invidiabile classifica. Il 38,5% dichiara di aver atteso più di 20 minuti per un certificato. Seguono i toscani con il 22,3%. Al terzo posto i sardi. Negli ultimi dieci anni la situazione, ancorché migliorare (grazie a una più diffusa informatizzazione della pubblica amministrazione) è peggiorata. Tant’é che la percentuale di chi segnala lunghe file allo sportello è più che raddoppiata (+112;4%). «I cittadini e le piccole imprese per ottenere un certificato sono ormai sottoposti ad una vera e propria Via Crucis» commenta Bortolussi. «Per colpa – sottolinea – di leggi, decreti e circolari scriteriate e spesso in contraddizioni tra loro è aumentata la burocrazia; complicando la vita dei cittadini e, in molti casi, anche quella dei dipendenti pubblici».

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

La Stampa

Sono le Pmi di Italia e Spagna le grandi vittime della crisi del debito sovrano che si è abbattuta sull’Europa negli ultimi quattro anni. Lo rivela, o meglio lo conferma, uno studio pubblicato dalla Bce nel suo bollettino mensile di luglio. «L’impatto della crisi del debito sovrano sui finanziamenti e sui bilanci della banche – osserva l’Eurotower – ha probabilmente avuto conseguenze più pesanti sulle aziende più piccole e che dipendono maggiormente dai prestiti bancari e sulla loro attività reale, come mostrato anche dai primi studi empirici effettuati su dati italiani». L’andamento disomogeneo in Europa dei tassi sui prestiti alle imprese non finanziarie, «soprattutto a partire dal 2011, suggerisce considerevoli differenze nei costi di finanziamento delle piccole imprese localizzate in Francia e Germania da una parte, e in Italia e Spagna dall’altra. Simili disparità riflettono probabilmente sia il contesto economico e il rischio sovrano associato sia i rispettivi costi della raccolta delle banche nazionali», spiega la Bce. In particolare, «tra le aziende spagnole e italiane non solo il livello assoluto dei tassi bancari era sostanzialmente più elevato rispetto alle imprese francesi e tedesche ma anche i maggiori premi versati alle Pmi» in termini di interessi bancari «rispetto alle grandi aziende sono aumentati considerevolmente nel 2011 e nel 2012».

La forbice tra piccole e grandi aziende si spiega in due modi: le Pmi si finanziano quasi esclusivamente attraverso prestiti bancari e l’assenza di canali di finanziamento alternativi le rende più vulnerabili; le piccole aziende dipendono dalla domanda interna più delle grandi (che invece riescono a spalmare il rischio su più mercati) e dunque i loro bilanci hanno sofferto maggiormente all’apice della crisi, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna. Le Pmi italiane e spagnole insomma si trovano a dover fronteggiare una situazione molto più complicata delle loro concorrenti tedesche e francesi. Oggi per ottenere un credito a breve termine (inferiore a un anno) per un importo superiore al milione di euro una Pmi spagnola paga un tasso d’interesse medio del 5%, una italiana del 4,3%, una tedesca del 3% e una francese del 2,3% circa. La situazione è migliorata solo in minima parte nell’ultimo anno. Il tutto in un contesto congiunturale che stenta a migliorare. I dati negativi della produzione industriale in Italia, Francia e Germania a maggio fanno pensare a una frenata del Pil nell’area euro nel secondo trimestre dopo il già non esaltante +0,2% del primo trimestre. «I rischi geopolitici nonché l’andamento dei Paesi emergenti e nei mercati finanziari mondiali – afferma la Bce – potrebbero influenzare negativamente la condizioni economiche, anche tramite effetti sui prezzi dell’energia e sulla domanda mondiale di beni e servizi provenienti dall’area euro». Secondo l’Eurotower «un altro rischio è connesso a riforme strutturali insufficienti nei Paesi dell’area».

Quei mali cronici che frenano l’attrattività

Quei mali cronici che frenano l’attrattività

Roberto Iotti – Il Sole 24 Ore

Avevano cominciato i tessili, seguiti poi dai calzaturieri. Ora sono i produttori di elettronica. Il back reshoring – cioè il rientro in Italia di attività delocalizzate negli anni scorsi – è un fenomeno in lenta ma costante crescita. Soprattutto per quelle aziende che avevano spostato la produzione in Paesi dove condizioni e costi dei fattori produttivi erano più vantaggiosi rispetto all’Italia. Il quadro economico però è mutato: importare manufatti o semilavorati dai Paesi dell’est europeo o dall’Asia non è più conveniente a causa dell’innalzamento dei costi di trasporto e della logistica. Non solo: le imprese che rientrano spiegano che lo fanno anche perché solo in Italia esistono manualità e una qualità di alto livello delle lavorazioni. Infine anche nei Paesi meta delle delocalizzazioni si stanno innalzando il livello del confronto sindacale e quello salariale. In pratica stanno sfumando i presupposti di un tempo e si sta riapprezzando la qualità intrinseca di certe produzioni che solo l’expertise dei lavoratori italiani sa esprimere.

Tutto questo però non deve suonare come una condanna senza appello per la delocalizzazione. Portare produzioni all’estero – negli anni scorsi – spesso ha significato entrare in mercati prima sconosciuti a molte aziende. Ed è stato il primo passo – si veda la Cina e la Russia – per arrivare a produrre direttamente per quei mercati locali, oggi sempre più importanti. Ma c’è un altro aspetto, non secondario, connesso al back reshoring: chi rientra lo fa – secondo il sondaggio Anie – per una scelta di politica aziendale, non certo perché la situazione italiana è migliorata. Fisco esoso, credito bancario scarso, burocrazia invadente, giustizia civile da incubo, energia a caro prezzo sono ancora le molte palle al piede della competitività del sistema manifatturiero. Affrontare e risolvere questi temi – certamente non nuovi – potrebbe essere un incentivo a far tornare sui loro passi altre aziende che hanno delocalizzato negli anni scorsi ma anche un incentivo ad aziende straniere a portare in Italia parte delle loro produzioni. Creando occupazione e portando investimenti.

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Federico Fubini – La Repubblica

Lo Stato ha sempre ragione, salvo quando ha torto. E gli succede di aver torto molto spesso quando accusa un’impresa, specie se piccola, di evadere le tasse: più di un euro su due, in caso di contenzioso legale, risulta reclamato dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza al contribuente in modo illegittimo. I numeri pubblicati alla fine di giugno dal ministero dell’Economia rivelano tutta l’intensità della battaglia fra gli uffici del fisco e le imprese. Solo nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi. Una somma maggiore rispetto a quella per la quale la vittoria in tribunale è andata agli uffici dello Stato, che è di 3,5 miliardi. Anche quando alla fine i giudici le danno ragione, episodi del genere non sono affatto facili da affrontare per un’azienda. Lo stesso ministero dell’Economia calcola come in media, quando è trascinato nella lite fiscale, l’imprenditore deve combattere con tribunali e parcelle degli avvocati per 865 giorni. Specie nelle piccole imprese, è tutto tempo sottratto alla produzione, alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti o all’apertura di nuovi mercati. E nella società italiana si tratta di un fenomeno endemico: solo l’anno scorso gli imprenditori hanno presentato più di 250mila ricorsi fiscali perché si sentivano ingiustamente accusati di evadere qualcosa come 35 miliardi di tasse reclamate dallo Stato. In questo momento, le cause di natura tributaria aperte in Italia sono oltre 650mila: un’impressionante drenaggio di risorse, di tempo e denaro dalla produzione alle dispute su conti bancari, fatture e cartelle esattoriali.

Naturalmente l’evasione resta un’emergenza del Paese: secondo le stime più accettate, ogni anno vengono sottratti al fisco circa 120 miliardi ed è dunque evaso un euro ogni quattro pagati (come documentato da Repubblica il 18 aprile 2014). Ma gli ultimi dati pubblicati dal Tesoro sullo stato del contenzioso tributario obbligano a chiedersi se la strategia del fisco stia funzionando. Non ci sono solo i numeri a farne dubitare, benché questi siano di per sé già eloquenti. L’anno scorso il 45% dei ricorsi con esito di merito si è concluso a favore del contribuente, contro il 41% a favore degli uffici pubblici. Soprattutto nelle cause fiscali fino a 20mila euro, quelle che riguardano piccole o minuscole aziende familiari in lotta per sopravvivere, quasi una volta su due lo Stato alla fine risulta aver torto. Ma appunto, non ci sono solo i numeri. Alla radice di questa endemica litigiosità tributaria nella società italiana ci sono metodi che spesso rischiano di accomunare una democrazia del gruppo dei paesi industrializzati ad uno Stato autoritario. Con l’effetto di erodere la base fiscale, perché le imprese colpite dagli accertamenti chiudono anziché far emergere gli abusi. Negli ultimi anni, fin da quando Giulio Tremonti era ministro dell’Economia, le agenzie dello Stato si sono dotate di strumenti di potere assoluto. Oggi è possibile reclamare versamenti al fisco sulla base di presunzioni astratte: la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale. Se l’imprenditore è in regola, potrà poi vincere il contenzioso all’ultimo grado di giudizio in Cassazione. Ma intanto avrà pagato, sostenuto le spese legali e riavrà indietro il proprio denaro in media dopo dieci anni. Non sempre le regole sono simmetriche. Quando è l’ufficio pubblico a vincere la causa in tribunale, ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello. Al contrario, l’imprenditore inizierà a essere rimborsato solo dopo aver vinto in Cassazione.

C’è poi una norma, introdotta sotto Tremonti, che continua a provocare la chiusura di un gran numero di imprese. Lo Stato può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate a una Procura. In quel caso scattano i sigilli sull’azienda, l’imprenditore è già un presunto colpevole e subito le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti, licenzia e non produce più un solo euro di tasse negli anni seguenti: un’iniziativa dello Stato che mirava a far emergere del gettito fiscale finisce per far inaridire e distruggere posti di lavoro.

Non che poi presentare ricorso sia così semplice. Per fare causa allo Stato su un contenzioso fiscale si doveva pagare una tassa di circa 150 euro fino a pochi anni fa ma ora è diventata un “contributo unificato” da 4.500 euro. L’evasione in Italia resta dunque una piaga, ma a volte una cura sbagliata può anche aggravare la malattia.

Fare impresa. La mappa dei disagi

Fare impresa. La mappa dei disagi

Marco Biscella – Il Sole 24 Ore

Fare impresa in Italia – come ci ricordano le classifiche internazionali – è molto difficile, ma in Sicilia e in Umbria gli imprenditori incontrano disagi «molto alti», mentre è il Trentino-Alto Adige la regione italiana che li fa «soffrire di meno». E se è vero che un ambiente sfavorevole all’impresa è un denominatore comune per il Mezzogiorno (cinque delle sei regioni del Meridione-Isole occupano i primi sei posti di questa classifica negativa), è altrettanto vero che le performance di Puglia, Abruzzo, Toscana, Lazio, Campania e Sardegna lasciano intravvedere alcuni segnali positivi che per il Centro-Sud che rappresentano una «vera sorpresa».

A fotografare la mappa delle criticità del contesto economico, con particolare attenzione alle piccole imprese, attraverso l’analisi e il trend di 12 indicatori, è l’Indice di disagio imprenditoriale 2014, giunto alla terza edizione e curato da Fondazione Impresa. «A livello generale – afferma Daniele Nicolai di Fondazione Impresa – Sicilia e Umbria presentano il grado di disagio imprenditoriale più alto, collocandosi nettamente al di sopra della media italiana (52,9), con punteggi rispettivamente pari a 64,2 e 63,5. Segue poi un gruppo di sette regioni, cinque del Sud e due del Centro, il cui indice di disagio è “alto”, con punteggi superiori di almeno quattro punti rispetto alla media, intorno alla cui soglia ruotano invece Puglia e Lombardia, mentre in un range di punteggi compresi tra 48,8 e 43,3 si ritrovano, con un disagio definito “medio basso”, cinque regioni del Nord (Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Veneto, Liguria e Piemonte), l’Abruzzo e la Toscana. Infine, nella parte bassa della classifica, ovvero nelle posizioni in cui il disagio imprenditoriale risulta inferiore, ritroviamo la Valle d’Aosta, che con 38,1 punti presenta un disagio “basso”, e il Trentino Alto Adige, che con 26,4 punti è la regione più virtuosa, con un indice di criticità “molto basso”».

Al di là della classifica, è interessante analizzare le dinamiche temporali rispetto al 2013, che penalizzano soprattutto l’Umbria (dal quarto “sale” al secondo posto tra le regioni più disagiate, affossata soprattutto dai tassi d’interesse praticati alle imprese fino a 5 addetti e dal credit crunch alle piccole aziende) e la Basilicata (dal 6° al 3° posto, colpa del deficit da banda larga e dalla più bassa quota di imprese innovatrici).

Al contrario, le variazioni più sensibili in positivo riguardano la Toscana (che “scende” dal 12° al 17° posto, quindi nella parte “meno cattiva” della graduatoria) e l’Abruzzo, che con il suo 15° posto (era al 19° l’anno scorso) occupa «un ranking migliore rispetto a quanto fanno registrare regioni del Nord come Lombardia (pesano l’elevato numero di fallimenti e condizioni più sfavorevoli nell’accesso ai finanziamenti per le piccole aziende), Emilia-Romagna (stretta creditizia più soffocante) e Veneto (forte riduzione delle piccole imprese attive). Sempre al Nord va segnalato il buon risultato del Piemonte, spinto dal calo delle procedure concorsuali e dalla quota di imprese innovatrici».

A far da zavorra alla Sicilia concorrono i risultati negativi in nove indicatori su 12 e le performance peggiori riguardano «il sensibile calo delle imprese attive (-6,48% dall’inizio della crisi), abbinato a una profonda recessione: dal 2008 al 2013 sono andati persi 11,6 punti percentuali di Pil».
Alto tasso di sopravvivenza delle imprese, recessione meno pesante e bassi tassi di interesse, invece, sono gli atout del Trentino-Alto Adige (in questi tre indicatori è la migliore), che si conferma di gran lunga come la regione meno critica per gli imprenditori, tanto da raccogliere un Indice di disagio imprenditoriale pari sostanzialmente alla metà della media italiana.