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Per sopravvivere all’embargo russo nasce il pacifismo degli imprenditori

Per sopravvivere all’embargo russo nasce il pacifismo degli imprenditori

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Se nella gravissima congiuntura internazionale che attraversiamo il pacifismo tradizionale appare completamente fuorigioco, o comunque non in grado di dotarsi di una lettura efficace dei conflitti in corso, sta nascendo, invece, una sorta di pacifismo imprenditoriale all’insegna di un inedito «Non siamo disposti a morire per Kiev». All’origine di questo slittamento di opinione c’è l’embargo proclamato da Mosca nei confronti di una larga serie di prodotti occidentali e i riflessi pesantissimi che questa decisione ha sull’export italiano.

È chiaro che per l’abbigliamento, l’arredo, le calzature, l’alimentare, le macchine agrìcole e i beni strumentali made in Italy quello russo è un mercato pregiato e che Prometeia stimava in crescita al ritmo di 200 mí1ioni l’anno da qui al 2019. Il rischio, secondo gli imprenditori, è che le forniture italiane siano sostituite dai produttori turchi e cinesi, che avrebbero brindato alla crisi ucraina come un’occasione irripetibile per conquistare spazi a nostro danno. Chi va in missione di business in Russia in questi giorni si sente ripetere da parte degli interlocutori locali che gli interessi di Stati Uniti e Ue non coincidono e che l’industria italiana oltre a pagare i riflessi dell’austerità tedesca ora soffre anche a causa della politica americana anti-Putin.

È inutile negare che, in una situazione economica come l’attuale, le argomentazioni russe incontrino il favore delle imprese più impegnate nell’interscambio. E a farsi interprete di questo disagio è stata la Confindustria Russia che ha emesso una netta presa di posizione e attraverso il suo presidente, il manager Eni Ernesto Ferlenghi, ha scritto a Giorgio Squinzi. Il tono del comunicato stampa è perentorio e chiede al premier Matteo Renzi «di mostrare più equilibrio» e di non alimentare «contrapposizioni da cui nessuno tlarrà beneficio». Ce n’è anche per i media italiani accusati di avallare «posizioni nostalgiche» della Guerra Fredda. Squinzi ha rassicurato Ferlenghi, ha ribadito la fiducia nella via diplomatica ma ha anche sostenuto che il tema non può essere affrontato solo in chiave nazionale. Il messaggio da Mosca, comunque, a Roma è arrivato.

Sulle imprese record di tasse e contributi

Sulle imprese record di tasse e contributi

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Il Governo – lo ha confermato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi nell’intervista di ieri al «Sole24Ore» – si accinge a stabilizzare con la prossima legge di stabilità il bonus Irpef da 80 euro, e a tentare per quanto possibile di estenderlo alle categorie finora escluse. Nessun nuovo intervento per alleggerire il peso del fisco sulle imprese, a partire dall’Irap. Di certo, se si esaminano dati e statistiche, l’urgenza di un intervento a sostegno del mondo produttivo è pienamente confermata.

Secondo il rapporto «Paying taxes» della Banca mondiale, il livello complessivo del prelievo a carico delle aziende italiane (il cosiddetto total tax rate) ha raggiunto l’astronomico livello del 65,8 per cento. Un primato indiscutibile in Europa, se si considera che i dati del «Doing business 2014» mettono in luce come in Germania la pressione fiscale complessiva sulle imprese si attesti a un livello decisamente più basso, il 49,4% dei profitti. Alto livello di imposizione, ma anche eccesso di adempimenti: da noi le imprese effettuano mediamente 15 versamenti l’anno impiegando 269 ore, contro le 130 delle aziende danesi, le 132 di quelle francesi, le 167 della Spagna il cui livello di total tax rate al 58,6 per cento. Se si esamina la scomposizione del prelievo italiano a carico delle imprese, un peso determinante va ai contributi (34,8), mentre la corporate tax vera e propria è del 21,2%, cui vanno aggiunte l’Irap e l’Ires.

Come finanziare un’operazione che comunque, per essere efficace, dovrebbe essere “visibile”? Da un lato, attraverso la riduzione selettiva della spesa, dall’altro con una lotta senza quartiere all’economia sommersa, al lavoro nero, all’evasione fiscale. Mali endemici del nostro Paese, che sottraggono risorse, solo per quel che riguarda l’evasione, per non meno di 130 miliardi l’anno. Da questo punto di vista, occorrerà attuare in pieno il dispositivo della delega fiscale in cui si dispone la «misurazione dell’evasione fiscale», attraverso la messa a punto di un rapporto annuale che stimi e monitori il «tax gap», il livello accertato di evasione per tutte le principali imposte.

Del resto – lo sottolinea Eurostat – l’Italia dopo l’Ungheria è il paese europeo che in un solo anno, tra il 2011 e il 2012, ha accresciuto di più il peso della tassazione (dal 42,4 al 44%). Secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, se si guarda al parametro dell’aliquota implicita (quale emerge dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile), la tassazione dei redditi d’impresa da noi è superiore sia alla media dell’eurozona che a quella dell’intera Unione europea. In sostanza l’onere che grava sui profitti è pari al 2,8% del Pil, contro il 2,5% dell’eurozona e il 2,6% della Ue a 27. L’aliquota implicita da noi è del 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

Quanto all’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro, l’Italia si colloca al secondo posto nella classifica europea, con il 42,3% (il Belgio è al 42,8%). La Francia è al 38,6%, la Germania al 37,1 per cento. Da metà degli anni Novanta – rileva il CsC – il livello dell’imposizione sul lavoro «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese».
Del resto, se si calcola il peso del sommerso, la pressione fiscale effettiva supera e di molto il livello fotografato dalle statistiche ufficiali, attestandosi nei dintorni del 53 per cento.

Gli imprenditori si coalizzino per cambiare l’agenda di Renzi

Gli imprenditori si coalizzino per cambiare l’agenda di Renzi

Bruno Villois – Libero

I 1.000 ipotetici futuri giorni dell’agenda del governo sono l’ultima trovata di Matteo Renzi. Il premier non passa giorno che non si inventi qualcosa per allungare la vita dell’esecutivo, avendo in mente chissà quali illtuninate idee in grado di modificare una situazione economica che non promette nulla di buono per il nostro paese. Le previsioni per i prossimi due anni per la salute della nostra economia sono tutt’altro che rosee, i più ottimisti si espongono per un complessivo aumento del Pil di 2,5 punti, gli obiettivi per meno di 2 punti e i pessimisti limitano la crescita ad un punto e poco più.

A fronte della limitata e adeguata crescita del Pil, si può prevedere un debito pubblico vicino o leggermente superiore ai 2.200 miliardi (+3% sull’attuale), gravato di interessi annui di almeno 50 miliardi di euro (qualcosina in meno se Draghi fa partire misure straordinarie a favore della ripresa). Anche dal punto di vista industriale non ci si può attendere gran che. Le principali 1.000 imprese italiane hanno ormai portato le loro produzioni entro confine, ma ben sotto il 50%, mentre Fiat, dopo la fusione con Chrysler, produrrà da noi meno del 10%, il tutto aggravato dal fatto che l’azienda pagherà le tasse non più in italia, avendo spostato la sede all’estero, esempio che sta riscuotendo, per ora, manifestazioni di interesse da parte di diversi maxi gruppi nostrani, stanche di pagare una tassazione che sfiora il 45%, interesse che potrebbe tradursi in fatti concreti già dal 2015.

Le altre principali aziende italiane di medie dimensioni, la cui attività è agganciata a forniture per Germania e Stati Uniti, potrebbero veder aumentare il rallentamento degli ordini dovuto ad un calo di domanda da parte dei due maggiori importatori di prodotti italiani. Se così fosse, ne seguirebbe una diminuzione dei tributi da parte dello Stato con significativa incidenza per i conti pubblici. Le piccole partite Iva, oltre 5 milioni, totalmente dipendenti dalla domanda di consumi interni, in assenza di politiche continuative di stimolo agli acquisti nel prossimo biennio continueranno a subire una costante diminuzione di redditività dovuta proprio alla deflazione che si è affacciata nell’ultimo mese rilevato da Istat. Senza dimenticare che la parte più debole delle Pmi, da stimarsi in circa 1/5 dei 5 milioni prima citati di partite Iva, è a totale rischio di sopravvivenza, in assenza di un deciso rilancio dei consumi.

Anche dal punto di vista bancario, nonostante le declamate attese renziane, per utilizzare i 200 miliardi di euro forniti, pro famiglie e soprattutto piccole imprese, ci si deve aspettare ben poco, per almeno due motivi: le restrittive disposizioni delle varie Basilea impediscono alle banche di concedere prestiti ad aziende che non hanno i fondamentali finanziari adeguati alla tipologia del prestito, inoltre dopo gli accantonamenti di oltre 150 miliardi di euro dovuti a perdite per crediti inesigibili, le banche italiane non andranno certo a rischiare sulla loro pelle, anche se le risorse arrivano dalla Bce. In sintesi non esistono motivi validi, a livello economico-finanziario, per tirare avanti altri mille giorni con l’attuale esecutivo.

L’unica possibilità per allungare la vita del governo è quella di concentrare ogni sforzo, sia economico-finanziario che di progettazione e programmazione, sulla realizzazione di una politica industriale e commerciale, definita nei particolari e scadenzata nei tempi, in grado di identificare i comparti e settori su cui puntare gli investimenti pubblici e attrarre quelli privati, mettendo a disposizione agevolazioni concrete per gli insediamenti e defiscalizzando i conferimenti di capitale o patrimoniale destinati alla crescita delle imprese e alla loro patrimonializzaizione, in modo da poter ottenere adeguati prestiti da parte del sistema bancario. Renzi e suoi ministri hanno rinviato a fine settembre i contenuti del programma dei mille giomi, giusto aspettare i contenuti prima di giudicare, nel frattempo le categorie economiche dovrebbero, a mio parere, coalizzarsi per chiedere di puntare su una vera e nuova politica industriale e commerciale, quale primo obiettivo del Governo.

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

Maximilian Cellino – Il Sole 24 Ore

Un nuovo taglio dei tassi, l’avvio di un piano di riacquisti di Abs o il tanto agognato quantitative easing in salsa europea. Il toto-Bce impazza fra operatori e analisti in vista dell’appuntamento di domani a Francoforte, con il concreto rischio che il mercato si sia forse spinto troppo in là con l’immaginazione nelle ultime settimane. Qualcosa di certo pero l’Eurotower lo ha già sulla rampa di lancio: il nuovo piano di finanziamenti a lungo termine finalizzato alla concessione di credito (T-Ltro), che prenderà il via con l’ormai prossima asta del 18 settembre e che avrà una seconda puntata a dicembre.

Da qui a fine anno sul piatto ci sono 400 miliardi, che le banche europee dovrebbero girare alle imprese e che potrebbero diventare anche mille, secondo quanto ipotizzato dallo stesso Mario Draghi, da qui al 2016 se il piano dovesse funzionare. Il punto in questione, in sostanza, è proprio questo: quanti fondi chiederanno gli istituti di credito? E soprattutto, riuscirà questo denaro a raggiungere materialmente le aziende in difficoltà per il credit crunch?

Sul primo aspetto, un recente studio di Barclays ha stimato in quasi 270 miliardi le richieste che potranno pervenire nelle prime due operazioni T-Ltro, con una preferenza per l’appuntamento di dicembre in modo da gestire in modo migliore la concomitante scadenza delle Ltro varate ormai anni fa: una cifra questa che riscuote consenso anche fra le altre banche d’affari, così come l’ipotesi che a farsi avanti siano soprattutto gli istituti della «periferia» europea, italiani e spagnoli in testa.

Obiettivamente più complicato è capire se effettivamente questa liquidità (che poi è nuova soltanto in parte, perche va a rimpiazzare raccolta già esistente, Ltro in primis) prenderà la strada dell’economia reale e servirà davvero ad aiutare migliaia di piccole imprese in affanno. Qui i dubbi sono più che legittimi, se si pensa all’utilizzo che è stato fatto degli oltre mille miliardi ottenuti attraverso le più volte citate Ltro e anche ai risultati (scarsi per ora) raggiunti dal «funding for lending» della Banca d’Inghilterra, il piano che più si avvicina ai finanziamenti vincolati che la Bce si prepara a erogare.

Alcuni sondaggi condotti nelle ultime settimane da Morgan Stanley mostra che un certo scetticismo aleggia anche fra le banche stesse, e non soltanto per la debolezza della domanda di prestiti (che spiegherebbe, secondo gli analisti, per 2/3 la contrazione del credito). C’è infatti il pericolo che quel denaro sia riutilizzato essenzialmente per rifinanziare aziende con il merito di credito più elevato (tipicamente, le più grandi) ignorando invece le Pmi che poi sono il vero obiettivo del piano.

La stessa Morgan Stanley si spinge però a stimare una possibile riduzione del costo del finanziamento per una piccola o media impresa spagnola compreso fra 30 e 80 punti base (cioè 30-80 centesimi), mentre in Italia l’impatto sarebbe più limitato (20-40 centesimi) perché la redditività inferiore delle banche di casa nostra tenderebbe di fatto a limitare il trasferimento dei benefici alla clientela. L’intervento Bce andrebbe in sostanza nella direzione giusta, servirebbe cioè a ridurre la frammentazione esistente sui mercati del credito nell’Eurozona. Non riuscirebbe tuttavia a colmare il divario esistente. Perché se è vero che in base ai dati pubblicati dalle Banche nazionali un’azienda italiana ha ottenuto a giugno un nuovo finanziamento a un tasso medio del 3,09% e una spagnola al 3,48%, è innegabile che le francesi e le tedesche paghino ancora molto meno (rispettivamente il 1,23% e 11,93%). E per i prestiti di importo inferiore al milione (3,96%) e quelli sotto i 250mila euro (4,54%), sicuramente più indicativi per le Pmi, il solco è addirittura più netto.

Per le aziende italiane qualche risparmio però ci sarebbe: ipotizzando una dinamica dei prestiti simile a quella recente (dal luglio 2013 al giugno 2014 in Italia sono stati erogati nuovi finanziamenti per quasi 385 miliardi) le T-Ltro targate Bce potrebbero comportare una minor spesa complessiva in termini di interessi compresa fra 770 milioni e 1,54 miliardi di euro. Benefici che sarebbero ovviamente più limitati sul complesso dei prestiti inferiore al milione di euro (477 milioni) e ai 250mila euro (264 milioni): non sarà forse la panacea che molti si auguravano dalle T-Ltro, ma si tratta pur sempre di un passo avanti.

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

La risposta per le rime a Renzi arriva da Massimo Blasoni, 49 anni, imprenditore udinese, che ha comprato un’intera pagina su Il Giornale di ieri. Due tondi, una con la foto del premier come è adesso, l’altro con un fotomontaggio che lo ritrae anziano e canuto. Sotto, la scritta “Torneremo ai livelli del 2008 quando Renzi avrà 67 anni”. Non è una stima sparata a caso. All’inizio di agosto Blasoni ha fondato il centro studi ImpresaLavoro, che ha ipotizzato il conto e di cui fa parte anche Salvatore Zecchini, presidente del gruppo di lavoro dell’Ocse su Pmi e imprenditoria.
Come è venuto in mente di comprare una pagina di giornale?
«Volevo comunicare a Renzi con un linguaggio schietto e mediatico come il suo. Il governo aveva previsto un livello di crecita del Pil dello 0,8 per cento. Balle. Per tornare ai livelli pre-crisi, considerando una crescita media tra il 2008 e il 2014 dello 0,3%, ci serviranno altri 24 anni».
Cosa le fa più paura?
«Quella di Renzi è solo una politica degli annunci. La pressione tributaria non è diminuita. Nessuna semplificazione burocratica per le imprese e nessuna facilitazione per l’accesso al credito. Imsomma, zero segnali di ripresa, nonostante le belle parole. Lo sa quanto costano i ritardi nei pagamenti della Pa alle imprese?».
Quanto?
«Cinque miliardi di euro l’anno. Lo abbiamo calcolato nella nostra prima ricerca».
Lei ha votato Renzi?
«No, anche se all’inizio gli davo fiducia. Ma di riforme vere finora neanche l’ombra. Renzi è un politico di vecchio corso con una faccia da giovane. Ma noi l’abbiamo già invecchiato».
Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Fiducia imprese, terzo calo consecutivo

Andrea Biondi e Giovanna Mancini – Il Sole 24 Ore

È durata poco l’illusione di essere usciti dalla recessione che da sei anni ormai attanaglia il nostro Paese e che solo nel periodo 2011-2013 ha bruciato 4,1 punti di Pil. Gli ultimi aggiornamenti dei principali indicatori macroeconomici sembrano senza tanti dubbi spegnere l’entusiasmo al quale, fino a poco più di un mese fa, si aggrappavano gli italiani. Tanto è vero che ad agosto l’indice di fiducia delle imprese registrato dall’Istat è sceso a 88,2, contro il 90,8 registrato a luglio. Un pessimismo che riguarda tutti i settori produttivi, ma in particolare il manifatturiero che, dopo tre mesi consecutivi in discesa, ha raggiunto i livelli più bassi da un anno (95,7). E che riflette il calo di fiducia dei consumatori, reso noto l’altroieri, sceso in agosto per il terzo mese consecutivo, da 104,4 a 101,9. Insomma, tutto fuorché una cartina di tornasole di una stagione dell’ottimismo. E infatti, se in tutta Europa l’indice Esi (il «sentiment economico» complessivo) scende a quota 104,6, è l’Italia il Paese più sfiduciato dell’Unione, secondo i dati diffusi dalla Commissione Ue.

Non che manchino gli spiragli di luce, come il dato sulla produzione industriale (+0,9% a giugno su base annua) o quello sulle immatricolazioni di auto (+5,02% su base annua a luglio). Ma mettendo in fila i principali indicatori – e il loro andamento altalenante nei mesi – emerge un quadro ancora troppo fragile e (soprattutto) contraddittorio per parlare di una vera ripresa. A guastare la festa degli ottimisti, ieri sono arrivati i dati relativi alle vendite al dettaglio, che su base annua sono diminuite addirittura del 2,6%, rispedendo sul banco degli imputati il bonus da 80 euro del governo Renzi.

Ma la doccia fredda era arrivata già a inizio estate, con quello 0,2% in meno del Pil registrato dall’Istat nel secondo trimestre dell’anno rispetto al trimestre precedente, e dello 0,3% rispetto all’anno precedente. Un dato non solo inferiore alle attese, ma che ha inoltre costretto analisti e imprese a rileggere tutti gli altri indicatori. Perché se è vero che la produzione industriale a giugno è cresciuta, è anche vero che da novembre dello scorso anno l’andamento di questo indicatore oscilla costantemente tra segno positivo e negativo. E preoccupa il dato sugli ordini dell’industria, riferito a maggio, che rileva un calo del 2,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e che ha colpito in particolare il comparto dei macchinari e attrezzature (-13,6%). Inoltre, rispetto al mese precedente, in maggio gli ordinativi totali sono scesi del 2,1%, registrando il calo più pesante (-4,5%) proprio su quei mercati esteri su cui si fonda la speranza di una ripresa da parte delle imprese italiane.

Anche dal fronte export arrivano del resto segnali contraddittori e perciò non facili da interpretare. Al risveglio dei mercati europei, che da inizio anno avevano contribuito in modo decisivo a trainare le vendite all’estero dei prodotti made in Italy, si era aggiunto a maggio anche il recupero dei mercati extra-Ue, che invece negli ultimi mesi avevano fatto registrare segnali negativi, dovuti soprattutto alle svalutazioni, alla crisi di domanda interna e alle turbolenze geopolitiche.

Purtroppo però il mese di giugno (a cui risalgono gli ultimi dati disponibili) ha provveduto a congelare le speranze delle imprese, con una contrazione dell’export extra-Ue addirittura del 4,3% su base mensile, che si traduce in un -2,8% su base annua. Il quadro complessivo delle esportazioni (dati relativi a maggio) è perciò deludente, con una crescita tendenziale di appena lo 0,2% rispetto a maggio del 2013, sintesi dell’incremento delle vendite verso l’Europa (+2,4%) e della diminuzione di quelle verso l’area extra-Ue (-2,3%). Si aggiunga un mercato del lavoro in piena paralisi, con retribuzioni mai così basse (si veda l’articolo in basso) e un numero di disoccupati oltre quota 3,15 milioni, con una disoccupazione giovanile del 43,7% (+4,3% rispetto a giugno 2013).

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Cullati dall’abbondante liquidità, i mercati finanziari internazionali continuano ad essere improntati all’ottimismo e assorbono (anche considerando il calo di ieri sulle Borse europee) le cattive notizie che vengono dai venti di guerra sullo scenario internazionale o da un quadro macroeconomico ancora deludente, soprattutto in Europa. Lunedì l’indice S&P500 ha superato quota 2000, mentre in Europa i tassi dei titoli pubblici si mantengono sui minimi degli ultimi tre anni. Ma questi segnali positivi non devono far dimenticare i molti punti critici che riguardano la finanza delle imprese, soprattutto italiane.

La crisi ha messo a nudo e anzi aggravato i tradizionali punti deboli della struttura finanziaria del nostro mondo produttivo e quindi rischia di mantenere, o addirittura aumentare, il ritardo delle nostre imprese rispetto ad altri Paesi, creando un vero e proprio “cuneo finanziario” che si aggiunge a quello fiscale, già di per sé preoccupante. Guardando ad esempio ai dati della Bce sul costo medio dell’indebitamento delle imprese, si osserva che a luglio le imprese italiane pagavano per il breve termine un tasso superiore a quelle di Francia, Germania e Spagna compreso fra 1,68 e 0,31. Il differenziale per i tassi a lungo termine risulta inferiore, ma siccome il nostro è il Paese in cui è più diffusa l’indicizzazione ad un tasso a breve per i prestiti a medio termine (e anche questo è un problema), il primo spread è quello che conta.

La ricerca economica sugli effetti della crisi sulla finanza delle imprese europee è ormai vasta e ha raggiunto risultati che si possono considerare non controversi. Uno di questi, ribadito nel numero di luglio del Bollettino della Bce è che le nostre piccole e medie imprese, cioè i due terzi del mondo produttivo, rispetto a prima della crisi hanno visto aumentare sia il differenziale rispetto ai tassi delle grandi imprese del Paese (per l’Italia questo spread, fatto pari a 100 il 2006, è circa 150) sia i tassi per i nuovi prestiti alle piccole e medie imprese. Mentre in Germania e Francia questi tassi sono oggi inferiori di circa 1,5 punti rispetto al 2006, l’Italia registra un incremento di quasi mezzo punto.

L’articolo della Bce ci avverte che ci sono motivazioni fondate: un’analisi econometrica dimostra che esiste una correlazione molto stretta fra i punti critici della finanza d’impresa e gli ostacoli ad ottenere credito. Le imprese con alto grado di indebitamento, con alto livello di oneri finanziari e bassi profitti sono quelle penalizzate. E ancora una volta è l’Italia (insieme alla Spagna) che risulta svantaggiata rispetto a Germania e Francia. Basta questo per capire quanto sarebbe sterile, prima ancora che ingiusto, prendersela solo con le banche che negano credito e/o lo fanno pagare troppo caro. Intendiamoci: il credit crunch è stato causato anche da fattori di offerta, cioè da comportamenti riconducibili alle banche. Anche qui esiste ormai un’ampia evidenza, in gran parte merito di ricerche della Banca d’Italia, che dimostra che le banche più deboli, in termini di patrimonio e/o di struttura della raccolta sono quelle che hanno stretto in modo più deciso e indiscriminato i cordoni della borsa. E se si potesse mettere fra questi fattori di debolezza anche i prestiti “di sistema” nazionale o locale, i risultati sarebbero ancora più robusti.

L’azione di vigilanza della Banca d’Italia, ora in collaborazione con la Bce, sta gradatamente risolvendo i problemi delle banche e con la ormai imminente pubblicazione dei dati sulla qualità dell’attivo di bilancio e sulla robustezza patrimoniale in condizioni di stress, le condizioni dovrebbero decisamente migliorare, soprattutto per le banche italiane. Rimane però il problema di mettere finalmente mano ai problemi di fondo della finanza delle imprese. Le tanto attese operazioni della Bce condizionate alla concessione di nuovi prestiti rischiano di essere frenate proprio dalla (comprensibile) riluttanza delle banche a concedere prestiti ad imprese finanziariamente fragili, magari privilegiando investimenti delle imprese di carattere finanziario, meno aleatori ma privi praticamente di effetti dal punto di vista produttivo. Lo stesso vale per le annunciate operazioni di securitisation a favore di piccole e medie imprese che dovrebbero essere utilizzate per accedere alle capaci tasche della Bce, risolvendo i problemi di liquidità delle banche. Un’iniziativa di grande rilievo, ma per la quale imprese finanziariamente fragili rischiano di trovare la porta sbarrata.

In altre parole, bisogna evitare di guardare a Francoforte per risolvere problemi che sono di carattere esclusivamente nazionale. Ammesso che il paese dei balocchi esista, non si trova certo in Germania. È vero che in Italia molte iniziative sono state varate e rafforzate nel corso del tempo dagli ultimi governi: dalle garanzie pubbliche agli strumenti alternativi di finanziamento per piccole e medie imprese. Ma il ritardo da colmare è troppo grande per ritenere che questi passi, pur nella giusta direzione, siano sufficienti a portare l’Italia ad avvicinare gli altri grandi paesi e in particolare la Francia che su questo terreno si è sempre mossa con notevole lungimiranza. Diversamente da altre, questa è una riforma che impegna non solo il governo, ma le parti interessate, cioè banche e imprese. E’ ormai tempo che entrambe capiscano che la competitività internazionale, prima ancora che la ripresa economica, richiede menu finanziari ben più sofisticati del solo credito a breve di cui entrambe si sono finora nutrite.

Il mattone cola a picco

Il mattone cola a picco

Simone Boiocchi – La Padania

C’era una volta il mattone. Bene rifugio per eccellenza dove i piccoli e medi risparmiatori del Paese deponevano non solo le loro speranze, ma anche il loro futuro. Costruire una casa per la propria famiglia era il sogno di tutti e l’obiettivo della vita per ogni genitore. C’era poi il mattone industriale. Quello che serviva ai capitani d’impresa per costruire aziende che davano lavoro al Paese. C’era una volta. Sì, perché la crisi economica ha avuto sul settore dell’edilizia un impatto che non ha eguali in altri settori economici: lo dimostra il fatto che i permessi rilasciati nel Paese nel 2012 per la costruzione di nuovi edifici residenziali sono stati praticamente la metà di quelli del 2007, ultimo anno pre-crisi.

Dal punto di vista geografico (come rivela uno studio di “ImpresaLavoro”, elaborato sulla base di dati Istat) il danno più contenuto l’ha fatto registrare il Trentino Alto Adige con un calo di “appena” il 18,3%. Molto negativi, al contrario, sono i dati registrati in Lombardia (-52,6%), nel Lazio (-53,9%), in Toscana (-60,2%) e soprattutto in Emilia-Romagna, dove i permessi rilasciati nel 2012 sono meno di un terzo di quelli utilizzati nei livelli pre-crisi (-67,2%). Si tratta di un arretramento che non ha che fare soltanto con la difficoltà del settore immobiliare residenziale ma che è generato anche dalle complessive difficoltà economiche del sistema-Paese. A subire una contrazione decisa rispetto i livelli pre-crisi sono, infatti, anche i permessi di costruzione rilasciati per immobili non residenziali. Questi sono complessivamente diminuiti del -33,8%.

Analizzando i singoli settori di attività, desumibili attraverso la destinazione d’uso degli immobili per cui è stato richiesto il permesso di costruire, si osserva una sostanziale tenuta solo nel settore dell’agricoltura, nel quale i permessi di costruzione nel 2012 sono calati “soltanto” del -12,9% rispetto ai livelli pre-crisi, con le regioni del Nord che hanno fatto segnare un confortante segno positivo, trainate in particolare da Piemonte ed Emilia Romagna. Particolarmente negativo risulta invece il dato relativo alle richieste di permesso per la costruzione di immobili destinati all’industria e all’artigianato. Qui il calo rispetto al 2007 è stato addirittura più consistente del comparto residenziale: -63,7%, con un’omogeneità territoriale che non risparmia le tradizionali locomotive produttive del Paese.

«Oltre alla crisi – spiega il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – sul dato pesano anche fattori negativi esterni: su tutti una politica fiscale che in questi anni ha fortemente penalizzato gli investimenti immobiliari, storicamente considerati dagli italiani una forma d’investimento sicuro. Come ha rilevato Confartigianato, tra il 2011 e il 2013 la tassazione è aumentata del 102% e l’introduzione della Tasi potrebbe rappresentare un ulteriore aggravio stimato tra il 12 e il 60%. È chiaro che politiche fiscali di questo tipo finiscono per scoraggiare qualsiasi tipo di investimento nel mattone». Ma il danno rischia di essere ancora più grande. Il blocco del sistema delle costruzioni non rappresenta solo la situazione di stallo del Paese, ma va a ripercuotersi inevitabilmente sui dipendenti e sui lavoratori dell’indotto. Meno permessi per costruire vuol dire meno lavoro. Meno lavoro, meno entrate, più disoccupazione. Una situazione tutt’altro che rassicurante che Renzi e i suoi fanno finta di non vedere. Almeno fino a quando la crisi del settore diventerà l’ennesima crisi del Paese. A quel punto si darà la colpa alla difficile congiuntura economica. Ma intanto non ci sarà più nulla da fare. Come al solito.

Tutto il resto è fuffa

Tutto il resto è fuffa

Giorgio Mulé – Panorama

Mettetevi nei panni di Joe, un americano in vacanza a Roma. Negli States essere ricco non è un reato; possedere due case non fa di un cittadino il perfetto obiettivo del fisco; avere messo soldi da pane non lo fa somigliare a un evasore fiscale. Joe è un marziano ai nostri occhi. Atterra a Fiumicino e scopre che l’Italia deve rinviare le sue previsioni di bilancio per ricalcolare il Prodotto interno lordo. Accipicchia, o meglio woooow!, pensa: gli italiani si sono rimessi in moto e stanno superando la crisi. Ecco, dear friend, le cose stanno un po’ diversamente: ce l’ha presente Johnny Stecchino nel bellissimo movie di Robeno Benigni? Beh sì, insomma noi ricalcoleremo il nostro Pil alla luce delle previsioni di Cosa nostra su tre settori: andamento del mercato della droga, della prostituzione e del contrabbando.

Tutto perfettamente illegale. Joe, it’s not a joke, non si scherza affatto: aumenteremo il nostro Pil, avremo pure big benefici nei conti pubblici. Manco fa in tempo a smettere di ciondolare la testa di qua e di là, farfugliando qualcosa che somiglia a un intraducibile «what the fuck…››, che gli capita di leggere la proposta di un signore che conosce bene perché ha conquistato gli States con i megastore Eataly. Mister Oscar Farinetti, renziano della prima ora, è quel che si dice un ambasciatore dell’Italia nel mondo. Già in predicato di fare il ministro, dà la sua ricetta per mettere a posto la spesa previdenziale: «Ci vuole una bastonata: tetto massimo di 3.000 euro netti, bastano e avanzano per vivere» sentenzia. E quelli che prendono di più, cioè i 600mila italiani che hanno versato contributi per 40 anni? La risposta è facile, caro Joe, basterebbe ricordarsi come si traduce in americano «cazzi loro» però va bene anche «what the fuck. ..».

Passata la pagina di economia dove il suo connazionale Bob Wilt, presidente del colosso Alcoa, annuncia la chiusura definitiva dello stabilimento di Portovesme in Sardegna con 455 lavoratori a spasso perché, dear italians, «le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto non sono purtroppo cambiate», il nostro Joe decide che è tempo di lasciarsi alle spalle tanta mestizia e rigenerare lo spirito con una visita alla Casa di Augusto in occasione del bimillenario della morte dell’imperatore. È obbligatorio prenotare, al centralino parlano anche in inglese. Wonderful. Peccato che dopo 10 minuti d’attesa, Joe viene invitato a richiamare «tra qualche giorno» perché la Soprintendenza deve fissare ancora le regole per le visite. D’altronde hanno avuto sono duemila anni per farlo. Ci risiamo col bisbiglio: «What the fuck…» lasciamo Joe al suo disgusto e concentriamoci un momento su di noi.

La realtà dell’Italia è esattamente quella che avete letto, se non peggio. E allora, visto che s’ode di nuovo la rumba degli annunci, sarà il caso di mettere in fila le priorità. Sono due: lavoro e giustizia. Si lasci perdere la fuffa, si eviti l’effetto grigliata mista mettendo sul fuoco provvedimenti dall’indiscusso valore mediatico ma dalla scarsissima possibilità di vedere la luce. L’Italia riparte se si mette mano in profondità in quei due settori con il concorso di tutti perché, come per le riforme istituzionali, rappresentano un terreno comune dove le forze politiche responsabili possono e devono incontrarsi. Lavoro e giustizia hanno priorità assoluta: da lì passano sviluppo, competitività e credibilità, soprattutto nei confronti degli investitori esteri. ll resto, come direbbe Obama, è horseshit.