Sacconi: “Ora interventi strutturali su regole e oneri indiretti”

di Maurizio Sacconi*

Il centro studi ImpresaLavoro ha prodotto questa interessante elaborazione sui nessi tra l’azzeramento dei contributi previdenziali e i rapporti di lavoro a tempo indeterminato che si sono generati nel 2015. Come è noto questo incentivo è stato ridotto nell’anno in corso fino a dissolversi nel prossimo. Mentre è aperta la riflessione sul grado di efficacia di così tanta convenienza a convertire i rapporti di lavoro a termine o ad accendere nuovi lavori permanenti, ritorna il ricordo di una espressione ricorrente di Marco Biagi: “Non esistono incentivi finanziari sufficienti a compensare i disincentivi regolatori”.

È ben vero che il jobs act ha coniugato con l’azzeramento dei contributi una disciplina più flessibile dei licenziamenti ed una rigida separazione tra autonomia e subordinazione nei rapporti di lavoro disincentivando in particolare il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative e quasi cancellando, con poche eccezioni, quelle a progetto. Ma la riforma non è stata completa perché ha mantenuto in vita, seppure per fattispecie più circoscritte, la sanzione della reintegrazione con la conseguente incertezza sugli esiti del contenzioso che si produce nel caso di licenziamento ove ne venga contestata la illegittimità.

Solo una clausola di opting out in favore della soluzione risarcitoria avrebbe offerto al datore di lavoro la certezza di poter risolvere il rapporto di lavoro nel caso di rottura del fondamentale nesso fiduciariario che lo sostiene. Permane quindi una unicità tutta e solo italiana in Europa a questo proposito con la conseguenza che non si è fino in fondo prodotto quell’essenziale incentivo regolatorio che avrebbe potuto incoraggiare la propensione ad assumere con contratti permanenti. È quindi legittimo supporre che il vantaggio relativo agli oneri previdenziali abbia utilmente ridotto i costi per le imprese che occupano – anche se con una significativa spesa pubblica di parte corrente – ma non abbia determinato, se non in misura contenuta, la scelta del contratto permanente, cui il datore di lavoro avrebbe comunque fatto ricorso perché coerente con le esigenze dell’impresa.

Dobbiamo quindi ora riprendere un percorso di interventi strutturali sia dal lato delle regole che da quello degli oneri indiretti sul lavoro se vogliamo sostenere una crescita con occupazione. Le buone politiche del lavoro non sono infatti solo distributive ma esse stesse concorrono a generare sviluppo perché incoraggiano gli investimenti e la produttività. Non si tratta di riaprire il cantiere delle riforme già troppo a lungo sovrappostesi con incertezze per gli operatori, ma di dotare le parti collettive e individuali degli accordi di lavoro della capacità di adattare le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, tanto dipendenti quanto indipendenti, agli straordinari cambiamenti che in ciascuna impresa, asimmetricamente, sta producendo la quarta rivoluzione industriale.

Le nuove tecnologie digitali modificano ogni giorno l’organizzazione della produzione e del lavoro con velocità e imprevedibilità che non hanno precedenti. In particolare, si avvera la profezia di Biagi che proponeva uno Statuto dei Lavori, di tutti i lavori, perché individuava una crescente confusione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (altro che rigido formalismo giuridico!) derivante dalla smaterializzazione della postazione fissa, dal superamento dell’orario rigido, dalla fine della totale predeterminazione del salario.

Ogni tentativo di fissare il cambiamento deducendone nuove regole rigide sarebbe immediatamente superato dalla realtà. Non più riforme delle tipologie contrattuali quindi ma una evoluzione dell’art.8 del DL 138/11 in modo da consentire ai contratti collettivi aziendali o territoriali e ai contratti individuali certificati di regolare in modo originale, al di la’ di ciò che dispongono leggi e contratti nazionali, gli inquadramenti e le mansioni, i modi di apprendimento permanente con relativa certificazione periodica delle abilità, l’orario e i luoghi di lavoro, le conseguenti modalità specifiche di tutela sostanziale della sicurezza, la definizione a risultato della retribuzione strutturalmente detassata.

In questo modo le parti possono dare pieno valore alle nuove tecnologie e ai vantaggi che inducono tanto sull’impresa quanto sui lavoratori. Altrimenti si generano solo gli effetti negativi della sostituzione dei lavori routinari che nel caso italiano, caratterizzato da una grande dimensione di produzioni manifatturiere seriali, possono essere rilevanti. E a questo riguardo appare necessario anche un Piano nazionale di alfabetizzazione digitale in modo da garantire a tutti i lavoratori il diritto di accedere a fondamentali conoscenze e competenze.

Contemporaneamente, sarà necessario ridurre il costo indiretto del lavoro in modo non più congiunturale ma certo e irreversibile, agendo su quelle contribuzioni che sono sovradimensionate rispetto alle prestazioni come quelle relative agli infortuni, alla malattia, agli ammortizzatori sociali. Si potrebbe perfino ipotizzare una riduzione dei contributi previdenziali obbligatori per cui si incrementerebbe la busta paga del lavoratore, che avrebbe la possibilità di destinare la maggiore entrata alla pensione complementare e di negoziare versamenti aggiuntivi da parte del datore di lavoro.

In questo modo, definito uno zoccolo obbligatorio per tutti i lavoratori, da un lato si determinerebbe un incentivo ad assumere senza oneri per lo Stato e, dall’altro, sarebbero le buone condizioni d’impresa a consentire un accantonamento previdenziale anche più elevato rispetto al regime vigente. Nel caso dei professionisti non ordinistici che effettuano versamenti alla cosiddetta gestione speciale dell’Inps, si tratta di consentire loro la costituzione di una Cassa previdenziale autonoma alimentata dalla stessa contribuzione obbligatoria ma ragionevolmente in grado di offrire prestazioni pensionistiche ben più consistenti e forme di welfare integrativo.

Sono questi i contenuti dei due disegni di legge all’esame del Senato e dei quali sono relatore. Auguriamoci che anche i grandi attori della rappresentanza di interessi, così immobili nel presente e nel recente passato, avvertano il dovere di concorrere a governare questo tornante della storia abbandonando opportunismi, pigrizie, ideologie datate. E, soprattutto, auguriamoci che nelle aziende e nei territori, là ove lavoratori e imprenditori si guardano negli occhi e gli echi romani sono lontani, si esprima la voglia di costruire pragmaticamente il futuro. Alle istituzioni il compito fondamentale di garantire loro un contesto favorevole.

*Presidente Commissione Lavoro del Senato