irap

Si poteva raddoppiare il taglio Irap riorganizzando il sistema di contributi alle imprese

Si poteva raddoppiare il taglio Irap riorganizzando il sistema di contributi alle imprese

NOTA

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale il Friuli Venezia Giulia ha erogato nel 2013 al sistema della imprese 230 milioni di euro suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,62% del PIL regionale e sensibilmente superiore.
Un paper di Paolo Ermano dell’Università di Udine ha analizzato per ImpresaLavoro il fenomeno ed, elaborando dati SIOPE, ha ricostruito la composizione di questi dati. Nel 2013 – al netto dei contributi per servizi sanitari – la nostra Regione ha trasferito complessivamente 108 milioni di € ad imprese private (56 milioni in trasferimenti correnti e 52 in contributi in conto capitale) e 121 milioni di € ad imprese pubbliche (34 milioni di € in trasferimenti correnti e 87 milioni di € in conto capitale).

tabella 1

Elaborazione ImpresaLavoro su dati SIOPE. www.siope.it

E’ tanto o poco? Secondo il Centro Studi fondato da Massimo Blasoni si tratta di una cifra di tutto rispetto che in rapporto al PIL regionale è tre volte quanto eroga la Regione Veneto e cinque volte quanto distribuisce la Lombardia anche se con il nostro 0,62% siamo dietro tutte le altre regioni speciali, esclusa la Sardegna (0,51%). Il Trentino Alto Adige, infatti, eroga risorse alle imprese per il 2% del proprio PIL, la Valle d’Aosta per l’1,06%, la Sicilia per lo 0,78%.

tabella3

Per capire l’impatto di queste misure basta confrontarle con due tasse regionali, l’IRAP e l’addizionale IRPEF. Partiamo da quest’ultima che, secondo la Corte dei Conti, ha generato nel 2013 196 milioni di euro derivanti dalle aliquota all’1,23% per i redditi sopra i 15.000€ e dello 0,70% per i redditi sotto tale soglia. L’IRAP regionale ha garantito nel 2013 un gettito di 681 milioni, di cui 440 da aziende private.
Durante il dibattito su Rilancimpresa, la Regione ha più volte spiegato di non essere in grado di andare oltre il taglio dell’IRAP di circa 7 milioni di euro previsto nel provvedimento in discussione. Secondo ImpresaLavoro, invece, un’ipotesi di revisione del sistema dei contributi alle imprese avrebbe permesso di estendere sensibilmente i beneficiari del taglio, fino a raddoppiarne l’impatto.
E’ questo, infatti, il vero tema in discussione. Il dibattito sulla fuga delle imprese Regionali in Carinzia o in Slovenia ruota intorno a due fattori: di là le imposte sono più basse e c’è meno burocrazia. Tagliando con decisione l’IRAP il Friuli Venezia Giulia potrebbe diventare fiscalmente competitiva, quantomeno rispetto alle altre regioni italiane e ridurrebbe il divario fiscale con Slovenia e Carinzia semplificando il sistema e immettendo risorse senza la necessità di dedicare ore preziose alla burocrazia per richiedere un contributo.
Scarica il paper di Paolo Ermano per ImpresaLavoro “Dare a tutti per dare meglio“.

Impresalavoro: «La giunta poteva tagliare di più l’Irap»

Impresalavoro: «La giunta poteva tagliare di più l’Irap»

Il Messaggero Veneto

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale il Fvg ha erogato nel 2013 al sistema delle imprese 230 milioni di euro suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,62 per cento del Pil. Un paper di Paolo Ermano, del1’Università di Udine, ha analizzato per il Centro studi di ImpresaLavoro il fenomeno e ha ricostruito la composizione di questi dati. Nel 2013 – al netto dei contributi per servizi sanitari – la Regione ha trasferito complessivamente 108 milioni di euro ad imprese private (56 milioni in trasferimenti correnti e 52 in contributi in conto capitale) e 121 milioni di euro ad imprese pubbliche (34 milioni di euro ín trasferimenti correnti e 87 milioni di euro in conto capitale).

Per il Centro fondato da Massimo Blasoni è una cifra di tutto rispetto: tre volte superiore al Veneto e cinque volte la Lombardia. «Durante il dibattito su Rilancimpresa – sottolinea Impresalavoro – la Regione ha più volte spiegato di non essere in grado di andare oltre il taglio dell’Irap di circa 7 milioni. Secondo noi, invece, un’ipotesi di revisione del sistema dei contributi alle imprese avrebbe permesso di estendere sensibilmente i beneficiari del taglio, fino a raddoppiarne l’impatto. È questo, infatti, il vero tema in discussione. Il dibattito sulla fuga delle imprese regionali in Carinzia o in Slovenia ruota intorno a due fattori: di là le imposte sono più basse e c’è meno burocrazia. Tagliando con decisione l’Irap il Fvg potrebbe diventare fiscalmente competitiva, quantomeno rispetto alle altre regioni italiane e ridurrebbe il divario fiscale con Slovenia e Carinzia semplificando il sistema e immettendo risorse senza la necessità di dedicare ore preziose alla burocrazia per richiedere un contributo».

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Massimo Blasoni – Panorama

In Italia non mancano le imprese virtuose, che ottengono ottimi risultati e incrementano l’occupazione. Quello che manca sono semmai il sostegno della politica e la fiducia nella loro capacità di far ripartire il Paese. Per rendersene conto è sufficiente analizzare uno dei principali provvedimenti contenuti nella Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap. Una misura sostanzialmente lineare che si applica a tutte le imprese con dipendenti a tempo indeterminato: certamente utile per le aziende «labor intensive» ma che sconta l’errore di non finalizzare l’intervento a beneficio di chi ha il coraggio di fare investimenti.
Per capire quanto questa misura rischi di essere debole basta analizzare il suo impatto concreto sulle nostre imprese. Il beneficio fiscale sarà nell’ordine di 400 euro annui a lavoratore. Larga parte delle imprese italiane occupano oggi fino a tre dipendenti (fonte Istat): ciò significa una minore pressione fiscale annua di 1200 euro ad azienda, circa 100 euro al mese. È evidente che si tratta di una cifra né in grado di stimolare investimenti né di salvare aziende in difficoltà.
Da imprenditore rimango convinto che una vera spinta alla crescita si otterrebbe soltanto rendendo beneficiari della misura unicamente coloro che effettivamente investono in innovazione, ristrutturazioni e ampliamento delle aziende. Certo si ridurrebbe la platea dei beneficiari ma si otterrebbero effetti reali sulla crescita. L’intervento pubblico (anche se in forma di riduzione delle imposte) va indirizzato con certezza allo sviluppo, altrimenti si rivela soltanto un inutile dispendio di risorse: gli effetti degli 80 euro, al di là di ogni teoria economica, sono lì a dimostrare proprio questo.
C’è un ultimo aspetto: lo sgravio Irap produrrà effetti sul bilancio delle aziende solo nel 2015, dunque sulle imposte pagate a giugno e novembre 2016. Gli interventi in economia hanno un senso soltanto se immediati e invece da qui al 2016 potrebbe ricambiare tutto: anche le regole del gioco. Non sarebbe purtroppo la prima volta. L’attuale abbattimento Irap assorbe e cancella la riduzione del 10% già prevista dal cosiddetto “DL Irpef” di Aprile 2014. Un provvedimento, quest’ultimo, che come molti altri è stato solo un annuncio: prima approvato e poi eliminato senza che nessuno avesse la possibilità di beneficiarne.
L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’imposta più odiata dai contribuenti e dalle imprese italiane è stata mutilata dal governo Renzi. Non completamente abrogata e neppure oggetto di una radicale riduzione di aliquota come solitamente accade con le imposte colpevoli della perdita di competitività di un’economia, quale l’Irap da quasi due decenni è, ma più semplicemente amputata nella sua base imponibile. Il premier e il suo ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, hanno, infatti, preferito lasciare l’Irap in vita, rispristinando con effetto retroattivo l’aliquota ordinaria del 3,90%, ma escludendo il costo del lavoro derivante da contratti a tempo indeterminato dal calcolo della base imponibile del tributo. Significa che dal 2015 quello che rimane in vita dell’Irap è un’imposta davvero mostruosa che sfugge ad ogni analisi di intelligibilità economica.

Il tributo si pagherà su voci di costo aziendale tra loro davvero disomogenee quali: il costo annuo dei contratti di lavoro precari; il costo annuo degli interessi passivi; i ricavi da privative e opere dell’ingegno; il costo annuo del lavoro della pubblica amministrazione (questa è una partita di giro contabile nel bilancio pubblico). Quale logica di politica fiscale è individuabile oggi nell’applicazione dell’Irap? L’unica possibile è quella che rinvia al fatto che il legislatore ha scelto di premiare fiscalmente le imprese con specifiche caratteristiche nell’organizzazione della produzione, quali: l’utilizzo quasi esclusivo di contratti di lavoro a tempo indeterminato e la capitalizzazione del business mediante apporto di capitale proprio o di utili reinvestiti. Penalizzati, invece, sono il ricorso al credito bancario o all’indebitamento e la scelta di forme contrattuali flessibili del lavoro, in controtendenza con il primo intervento di Jobs Act dello stesso governo Renzi che ha reso rinnovabili e più flessibili per le imprese i contratti a termine.

Insomma ora l’Irap, per come è sopravvissuta all’amputazione di Renzi, diventa uno strumento di politica aziendale, nel senso che favorisce l’adozione di talune forme contrattuali rispetto ad altre nell’organizzazione della produzione. Nei fatti si riduce la flessibilità delle scelte, a parità di costo fiscale, per manager ed imprenditori e, quindi, si introduce una distorsione nell’allocazione dei fattori produttivi. L’aspetto positivo dell’amputazione renziana dell’Irap è dato dal fatto che, con queste fattezze, l’imposta non può rimanere vigente a lungo. Renzi, senza dirlo chiaramente, ha già abrogato l’Irap e una prossima legge di Stabilità sancirà la definitiva uscita di scena della peggiore imposta mai applicata in Italia e nell’intera eurozona.

La prima e decisiva riforma di Renzi

La prima e decisiva riforma di Renzi

Il Foglio

Non si sa ancora cosa accadrà in Parlamento sulla legge di stabilità ma una cosa è certa: l’incontro fra sindacati e rappresentanti del governo ha sancito la fine della concertazione come politica economica dello stato. I ministri delegati ad ascoltare i sindacati hanno risposto a monosillabi sulle loro richieste di “concessioni”. Il succo era: i sindacati facciano le passerelle in piazza e indichino le loro correzioni specifiche, poi noi vedremo se tenerne conto ma non contrattiamo il loro consenso. Renzi ha chiarito il concetto dicendo che il governo non chiede “permesso” perché “le leggi non si scrivono con i sindacati ma in Parlamento”. E ha aggiunto: “Forse in Italia è arrivato il momento che ciascuno torni a fare il suo mestiere”. La frase più significativa è quella finale: “Le trattative le organizzazioni sindacali devono invece farle, giustamente, con le imprese”. Il premier invita i sindacati a dialogare con le aziende e non solo con la Confindustria che tiene al suo monopolio dei contratti di lavoro e si cura delle grandi imprese. L’esecutivo vuole la disintermediazione, rompere il filo tra politica e parti sociali, per approdare a un mercato del lavoro che privilegi i contratti aziendali. La Confindustria fatica ad ammettere che la concertazione è finita anche per lei tant’è che plaude alla deduzione dell’Irap per i contratti a tempo indeterminato, graditi alle grandi società, ma poi glissa sugli incentivi per i contratti di produttività, rivolti alle piccole. Se lo dicesse, apparirebbe chiaro pure ai mercati che il governo Renzi ha avviato la madre di tutte le riforme: la fine della concertazione che garantiva impropri poteri sia sindacali sia confindustriali.

Leggere una legge

Leggere una legge

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Secondo le migliori tradizioni del giornalismo economico, quando ci si trova dinanzi a una manovra finanziaria di fine d’anno e per giunta di questa portata, prudenza impone di leggere prima le norme e poi dare un giudizio completo. Come si sa, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli. Detto questo, una prima valutazione può essere fatta sulla base delle dichiarazioni del presidente del Consiglio e sulle tabelle consegnate in sala stampa. Diciamo subito che questa legge di stabilità presenta alcune luci, diverse ombre e due bugie.

Partiamo dalle luci. La riduzione dell’Irap escludendo dal suo calcolo il monte salari è una scelta che va nella giusta direzione perché alleggerisce il carico fiscale sulle imprese oppresse da diversi anni da una pressione tributaria e contributiva anomala e da una grave crisi della domanda interna e internazionale. È vero che questa norma premia maggiormente le medie e le grandi aziende, ma d’altro canto sono quelle che hanno il maggior numero di occupati. Altra scelta positiva è la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali (cosi si chiamava all’epoca) per i nuovi assunti con un contratto a tempo indeterminato e per soli tre anni, Questa norma abbassa, insieme alla riduzione dell’Irap, il costo del lavoro in maniera significativa e orienta le imprese ad assumere con questo tipo di contratto rispetto alle altre tipologie vigenti. Ma qui finiscono le luci, salvo scoprire nell’intero provvedimento qualche altra cosa di buono.

Le ombre, invece, sono diverse e nella sostanza riguardano i tagli per 15 miliardi di spesa. Innanzitutto è da verificare nel concreto se questi tagli esistono per davvero, e se esistono come noi crediamo perché parte di essi sono tagli lineari ai trasferimenti alle regioni, province e comuni, bisogna capire a cosa danno origine. La cosa più probabile è che parte di essi si trasformeranno in più alte imposte locali mentre un’altra parte si trasformerà in una riduzione della spesa in conto capitale delle regioni e degli enti locali. Entrambi gli effetti andranno a vanificare in parte quelle misure che abbiamo definito come le luci del provvedimento approvato. D’altro canto, affrontando un equilibrio dei conti pubblici e un rilancio della crescita con gli ordinari strumenti a disposizione, difficilmente si può sfuggire a questi effetti uguali e contrari. Come è noto, noi eravamo e siamo tra quanti ritengono che solo un abbattimento di una parte significativa del debito può dare delle risorse fresche perché riduce quella spesa per interessi che da circa 80 miliardi alla finanza nazionale e internazionale, senza dover ricorrere a tagli che amplificano gli input recessivi. Non è un caso che l’Italia quest’anno sarà l’unico paese dell’Eurozona a rimanere con un pil negativo.

E qui passiamo alle bugie. Le prime sono le previsioni in gran parte sbagliate. Quest’anno la nostra crescita negativa, se avviene un miracolo nelll’ultimo trimestre, si può fermare a meno 05-0,6 per cento, cioè circa il doppio di quanto previsto nel documento finanziario con un trascinamento negativo anche sulla prima parte dell’anno prossimo che prevede, peraltro, una striminzita crescita positiva dello 0,6 per il 2015 e che sarà a rischio. Perché in questa manovra manca l’altro tassello fondamentale per fare uscire l’ltalia dal tunnel, e cioè gli investimenti pubblici. Viviamo una crisi della domanda, che non si accresce mettendo un po’ di soldi in più nelle tasche di chi ha già un reddito (80 euro o il tfr nella busta paga), perché in costanza di crisi questi soldi si trasformano in risparmi per un futuro che resta ancora incerto. La domanda si accresce se si allarga la base occupazionale e il “la” lo danno gli investimenti pubblici che languono e ora rischiano di diminuire ulteriormente sul versante degli enti locali. Alla stessa maniera manca qualunque incentivo per gli investimenti privati, come un più rapido ammortamento degli investimenti fatti nei prossimi 18 mesi, una norma premiante a termine, capace di sollecitare le aziende a cogliere questa opportunità e ad anticipare i propri investimenti.

Abbiamo lasciato per ultima la bugia più grande perché ci intenerisce come una vecchia gag di Totò. Il presidente del Consiglio ha detto che con questa manovra si tolgono 18 miliardi di tasse. Non è vero. Renzi calcola come riduzione di tasse il mantenimento dei famosi 80 euro del maggio scorso. Se non li avesse confermati noi avremmo avuto un aumento delle tasse; avendoli confermati, l’aumento non c’è stato, ma nemmeno la riduzione rispetto all’anno che sta per finire. Per dirla meglio, se la detrazione che produce il beneficio degli 80 euro viene fatta con norme che si rinnovano anno dopo anno, secondo Renzi dopo 5 anni avremo ridotto la pressione fiscale di 50 miliardi o saremo rimasti sempre al palo di quelle detrazioni che danno i famosi 80 euro? Si dia una risposta! Se non volessimo bene a Renzi, ai suoi lupetti e ai tanti dc presenti nel governo e nel Pd, diremmo che questa comunicazione è un imbroglio. In verità è il frutto di una velenosa tentazione mediatica e di una giovinezza goliardica. Certo è che la riduzione della pressione fiscale è solo quella dell’Irap e quella contributiva è nei limiti di due miliardi per l’esenzione contributiva dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Non pochi ma molto lontani da ciò che serve all’Italia per uscire dalle secche.

I “dettagli” che zavorrano la manovra

I “dettagli” che zavorrano la manovra

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

A quattro giorni dall’approvazione della legge di stabilità in Consiglio dei ministri, ancora nessun testo più o meno ufficiale è disponibile. Non è forse una novità, è però certamente un malcostume che non aiuta la credibilità del modo in cui in Italia si fanno le leggi. Viene da chiedersi, per dirne una, che cosa sia stato mandato a Bruxelles e che testo stiano analizzando i tecnici della Commissione in vista del giudizio di fine mese. Ieri sera da Palazzo Chigi si è fatto trapelare che per domani un testo sarà pronto per il Quirinale, non rimane che attendere. Intanto dalle bozze che stanno circolando si possono cominciare ad analizzare alcuni aspetti tecnici che dalle prime slide non erano emersi. Resta, allora, confermato il giudizio complessivamente positivo di una manovra a carattere espansivo, che dà e non toglie, in una fase di risorse più scarse che mai. Una manovra che taglia tasse e riduce (o almeno prova) spesa pubblica improduttiva. E tuttavia i nodi che meritano un approfondimento, e magari un ripensamento in Parlamento, non mancano.

Il taglio dell’intera componente lavoro dalla base imponibile Irap (che vale intorno ai 6 miliardi) è uno dei risultati più importanti di questa manovra. Impossibile sottovalutarne il peso, in termini effettivi di risparmio per le aziende e in termini di fiducia nella creazione e nella difesa di posti di lavoro. La copertura della misura è però garantita per una parte (2,1 miliardi) dal dietrofront rispetto alla riduzione del 10% dell’aliquota Irap stabilita con il decreto Irpef del maggio scorso. L’aliquota ordinaria Irap, dunque, tornerà dal 1° gennaio prossimo al 3,9% (dal 3,5%). Va anche considerato, poi, che – sempre in base alle bozze disponibili – il taglio previsto dalla Legge di stabilità si limita al costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato, escludendo i lavori a termine e i collaboratori. Tutto questo significherà che talune aziende, quelle che non hanno o hanno pochissimi dipendenti stabili, saranno – per effetto della manovra – penalizzate. Per tutte le aziende, poi, viene meno la deduzione dell’Irap dall’imponibile Ires: questo è ovvio, ma riduce ulteriormente la portata – comunque positiva – del taglio dell’Irap.

Anche la cancellazione dei contributi per i primi tre anni per chi assume a tempo indeterminato è una misura che va nella giusta direzione di creare incentivi per le imprese a creare posti di lavoro stabili. Gli sgravi, tuttavia, valgono solo per le assunzioni effettuate nel 2015 e per chi non ha lavorato a tempo pieno nei sei mesi precedenti. Non si tratta, dunque, di una misura definitiva, mentre va a sostituire un beneficio permanente che è quello previsto dalla legge 407 del 1990, in base alla quale i disoccupati da oltre due anni potevano essere assunti a zero contributi (o con il 50%) per un triennio. Salta anche lo sconto contributivo legato alla prosecuzione di un anno dei contratti di apprendistato dopo il triennio. La cancellazione dei contributi prevede inoltre un tetto annuo di 6.200 euro. Questo significa che potranno giovarsi dell’abbattimento totale solamente i contratti che sono intorno alla soglia retributiva limite, per tutte le altre retribuzioni lo sgravio sarà parziale. Non basta. L’incrocio tra tetto e somme stanziate permette di stimare in 161mila le possibili assunzioni annue, molto meno di quelle stimate dal Governo. Senza considerare, infine, il tentativo di una parte del Pd di far inserire nel testo la clausola che, se il rapporto di lavoro si interrompe prima dei tre anni, l’imprenditore sarebbe costretto a pagare tutti i contributi arretrati. Un modo per rendere più incerto l’incentivo e ridurre la spinta che può venire dalla misura.

Contraddittoria con la linea affermata dal Governo nel Jobs act appare anche la scelta di tagliare 200 milioni al Fondo che incentiva la contrattazione aziendale. Sulla scarsa convenienza fiscale del Tfr in busta paga per chi ha redditi oltre i 15mila euro e sui rischi per la liquidità delle imprese è già stato detto tutto. Va però anche segnalato il rischio di un ulteriore aggravio di procedure burocratiche per le aziende, legato alla certificazione Inps e alla pratica con la banca. Sui tagli di spesa vale la pena soffermarsi. In riferimento a Regioni e Comuni non si può che essere d’accordo con Renzi: i governatori hanno tutta la possibilità di far fronte ai tagli attraverso una maggiore efficienza della spesa ed eliminando gli sprechi. Vi sono Regioni (analisi di Gianni Trovati sul Sole di ieri) che, per il proprio funzionamento, spendono 192 euro pro-capite contro altre che si limitano a 22; Regioni che hanno una spesa corrente di 619 euro pro-capite a altre che si fermano a 275; Regioni che spendono per il personale 174 euro e altre solo 12. Gli spazi per l’efficienza e i risparmi, dunque, ci sono, eccome.

Ma è sui ministeri che il Governo deve dimostrare di saper fare la propria parte. In una tabella preparatoria della manovra sono indicati tagli molto specifici per oltre 3 miliardi, missione per missione, nella logica (quasi) di una vera spending review. Nella bozza della legge a oggi disponibile, quei tagli – come hanno raccontato sul Sole Marco Rogari e Marco Mobili – si riducono a poco più di 1,4. Cosa ne è di tutto il resto? Ci si piegherà ancora una volta alla logica degli interventi lineari, limitandosi a indicare l’obiettivo del 3% di riduzione? O si recupererà quella tabella voce per voce, magari con i dovuti aggiustamenti? Tra i due metodi c’è tutta la distanza che passa tra un Governo che si prende le proprie responsabilità e uno che demanda ad altri le scelte impopolari.

Sull’azzardo di mettere tra le coperture le stime della lotta all’evasione Il Sole-24 Ore si è soffermato tante volte, ma va anche detto che il Governo questa volta ha prudentemente messo da parte una riserva di 3,4 miliardi che può tornare utile, in questo senso, anche nella trattativa con l’Europa. Sul credito d’imposta alla ricerca si parte solo da 260 milioni, una cifra certamente insufficiente e si lega l’incentivo esclusivamente agli incrementi di spesa, anziché al volume complessivo degli investimenti, come chiedevano le imprese. Viene inglobato, tra l’altro, il bonus oggi esistente per l’assunzione dei ricercatori. È francamente poco per riattivare gli investimenti privati. Lo sconto Irap, certamente, dovrebbe fare di più. Ma quello che manca del tutto in questa manovra sono gli investimenti pubblici. Gli 1,7 miliardi che (come racconta Giorgio Santilli a pagina 2) il Governo ha reso disponibili in questi giorni in attuazione dello “Sblocca-Italia” sono utili, ma sono una goccia. Laddove il mare non può che essere, per un Paese con le nostre difficoltà di finanza pubblica, un mare europeo. Renzi ha più volte invocato una maggiore concretezza per il piano Juncker. Ma anche quando si parla di investimenti europei c’è una fondamentale responsabilità nazionale, che è quella di fornire buoni progetti.

L’Italia in questi anni è mancata totalmente in questa sfida: pochi buoni progetti e pochissima capacità di trovare il matching con i finanziamenti. In questi giorni finalmente c’è un tavolo governativo (coordinato da Del Rio e Pagani per conto di Padoan) che sta lavorando con gli uomini della Bei proprio per individuare i progetti possibili. C’è da augurarsi che produca risultati concreti. Perché non c’è dubbio che – come ha sottolineato il Governatore Visco proprio ieri nel suo intervento a Bologna – il rilancio dell’occupazione e della crescita può passare solo attraverso una ripresa degli investimenti. In attesa, certo, del testo definitivo della manovra.

Quel ceto medio sempre dimenticato

Quel ceto medio sempre dimenticato

Francesco Forte – Il Giornale

Nella legge di Stabilità ci sono ombre che preoccupano, a fianco delle luci che brillano, anche per il modo con cui le misure attraenti sono presentate. Vorrei poter fare il poliziotto buono, perché in questo disegno di legge ci sono due misure importanti, che ho caldeggiato, sul Giornale e che i liberali di Forza Italia sostengono, il taglio di Irap sui costi del lavoro e il Tfr in busta paga. Ma ho la necessità di fare il poliziotto cattivo, a difesa dei ceti medi e dei contribuenti che rischiano di pagare un conto salato. È ottima cosa la detrazione dell’intera Irap sui costi del lavoro dall’imponibile dell’imposta sul reddito che ne opera una riduzione del 30% e prelude all’eliminazione di questo balzello che distorce l’impiego del lavoro nella produzione di beni e servizi e danneggia soprattutto la manodopera qualificata. È buona cosa consentire ai lavoratori di scegliere come impiegare il proprio Tfr. Ed è gradevole vedere una manovra con 18 miliardi di riduzione di imposte su 36 complessivi. Ma per il 2015 ci sono 11 miliardi di deficit in più rispetto quelli a legislazione invariata. Ciò comporta un rapporto del deficit di bilancio sul Pil del 2,9% anziché del 2,2% che implica un aumento ulteriore del debito pubblico sul Pil che è già attorno al 130%!

Certo, un’espansione della domanda tramite il deficit di esercizio può servire per contrastare la tendenza recessiva o quanto meno di ristagno dopo una recessione che comporta larga disoccupazione di lavoro e di capacità produttive. Che, dato ciò, occorra accrescere la domanda globale lo dicono non solo i keynesiani (che dominano in questo governo e nei suoi consulenti). Lo dicono anche gli altri economisti che non credono alla piacevole economia del «pasto gratis». Ma si poteva e doveva coprire il buco, che così si crea nel bilancio, privatizzando quote di imprese pubbliche che non stanno sul mercato: a partire da quelle inefficienti degli enti locali, che costano al contribuente. Inoltre, alcuni tagli di spese sono vaghi. I 3,8 miliardi di recupero di evasione fiscale sono incerti. E i tagli di spesa delle Regioni e degli enti locali non sono fatti su loro spese, ma su trasferimenti dello Stato, sicché questi governi probabilmente aumenteranno le loro imposte, come Imu, Tasi, tassa sui rifiuti, addizionali all’Irpef e altro, a danno dei piccoli proprietari e dei ceti medi già tartassati.

Le ricetta vera per rilanciare la domanda è la politica di investimenti, in primis edilizi. Nella legge di Stabilità questa politica manca. E delle tre misure che compongono il grosso delle riduzioni fiscali, solo una – la detrazione dell’Irap sul costo del lavoro, che comporta 5 miliardi di sgravio – ha natura economica e giova all’efficienza dell’offerta, cioè è produttiva. Le altre due, ossia il bonus per i lavoratori dipendenti a basso reddito (e non pensionati e autonomi) che vale 9-10 miliardi e il bonus per i neo assunti con contratto a tempo indeterminato, hanno natura sociale e sindacalese. Servono al Pd per la sua stabilità interna (che, per altro, non c’è) e come strumento elettorale. Ma sono misure discriminatorie, che non generano rilancio. In questo clima di incertezza questo bonus non darà più occupazione, ma preferenza per il contratto a tempo indeterminato su quello a termine, ammesso che basti questo incentivo per assunzioni impegnative. Ed infine – pillola avvelenata – è prevista una clausola di salvaguardia, con nuove imposte per 12,5 miliardi di Iva e tassazioni indirette se la Commissione europea ci dirà di ridurre il deficit e i mercati spingeranno in tal senso, punendo i nostri titoli pubblici; e qualora i 3,8 miliardi di recuperi di evasione e i tagli di spesa dei ministeri, degli enti locali, della sanità non si materializzino.

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Fabio Savelli – Corriere della Sera

Il risparmio per il conto economico sarebbe di circa 720 euro per dipendente. Ipotizzando che l’azienda ne abbia quindici (la gran parte delle piccole imprese italiane è al di sotto della fatidica soglia fissata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), questo significa un minor peso fiscale di 10.762,50 euro all’anno, presumendo che si tratti di una realtà da 1,3 milioni di euro di fatturato e con un costo di produzione di poco inferiore, di circa 1,1 milioni di euro.

La simulazione – condotta dal gruppo di studio torinese Eutekne, che analizza quotidianamente i cambiamenti normativi in materia di fisco – parte dal presupposto della deducibilità integrale ai fini Irap del costo dei lavoratori dipendenti, misura inserita dal governo nel disegno di legge di Stabilità. Allo stato attuale – senza cioè l’intervento sulla componente costo del lavoro dell’imposta regionale per le attività produttive – l’azienda campione paga all’erario oltre 16mila euro all’anno, presumendo che l’ammontare complessivo del costo del lavoro (stipendi, contributi, tasse) sia stimabile attorno ai 600 mila euro all’anno (di cui 180 mila di contributi previdenziali e assistenziali e 420 mila di pura retribuzione). La somma interamente deducibile sarebbe pari a 292 mila euro, immaginando un’aliquota fissata al 3,5% (aliquota disciplinata dalle regioni in maniera non uniforme e in una forbice che può arrivare fino al 4,9%).

Rilevano i commercialisti Giancarlo Allione e Luca Fornero, autori del dossier, che la misura dell’esecutivo sanerebbe l’attuale squilibrio tra un’azienda che produce in Italia e un’altra che ha delocalizzato all’estero, dove non esiste l’Irap. Ecco perché gli esperti di Eutekne definiscono l’imposta un «mostro giuridico», perché finora ha incentivato le aziende a portare lavoro oltre-confine e perché l’assegno recapitato all’erario è proporzionale al numero di dipendenti e di collaboratori.

In filigrana si può affermare che la deducibilità integrale Irap per i lavoratori avvantaggerà le grandi imprese, perché sono quelle che hanno un maggior numero di dipendenti. Di più: il calcolo va tarato su base regionale anche perché – oltre alla differente aliquota applicata – è diverso anche il peso delle deduzioni. Perché nelle regioni meridionali il risparmio d’imposta sarà minore per la fiscalità di vantaggio delle aree più svantaggiate. Da quest’anno la deduzione forfettaria per chi lavora a tempo indeterminato in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia risulta già pari a 15 mila euro (dai 9.200 del 2013), mentre nelle altre regioni è esattamente la metà: 7.500 euro. Così la misura finirà per avvantaggiare soprattutto le imprese del Nord che potranno usufruire di un maggiore sconto fiscale. Al netto di una minore deducibilità del tributo regionale ai fini Ires e Irpef. Restano comunque le altre due voci dell’Irap: quelle sui profitti e sugli interessi passivi. Altri due balzelli difficilmente comprensibili per chi produce all’estero e vuole venire da noi.