irap

Ciò che i numeri non dicono

Ciò che i numeri non dicono

Enrico Marro – Corriere della Sera

Lasciamo in secondo piano il braccio di ferro con Bruxelles. Per certi versi ridicolo, ruotando sull’ipotesi di un aggiustamento dei conti pubblici italiani dello zero virgola, che costerebbe un paio di miliardi, su un bilancio che conta 835 miliardi di spese e 786 miliardi di entrate. Concentriamoci invece sulle due misure chiave della prima manovra del governo Renzi: 1) 5 miliardi di taglio dell’Irap, con un risparmio medio per le aziende di circa 700 euro all’anno su ogni dipendente; 2) 1,9 miliardi per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Due misure che si sommano alla conferma degli 80 euro per dieci milioni di dipendenti, con positivi aggiustamenti a favore delle famiglie numerose e delle partite Iva a basso reddito. Complessivamente, la riduzione del cuneo fiscale è apprezzabile, a vantaggio delle imprese e delle retribuzioni nette. Inoltre, il contratto a tutele crescenti, previsto nel Jobs act, non solo costerà meno delle altre forme contrattuali, ma non avrà il vincolo del vecchio articolo 18 sui licenziamenti.

Questo insieme di misure va nella direzione giusta. Ma non basterà a rilanciare la crescita, se non saranno soddisfatte due condizioni: 1) il rilancio degli investimenti, a partire da un completo e miglior uso dei fondi strutturali europei (44 miliardi nel 2014-20); 2) la credibilità dell’Italia sulla capacità di onorare l’enorme debito pubblico e, gradualmente, di ridurlo. Su questi due punti la politica del governo non ha fatto un salto di qualità.

Il taglio della spesa scaricato per 7 miliardi su Regioni, Comuni e Province rischia di tramutarsi nell’ennesimo aumento delle imposte locali. Privatizzazioni e dismissioni immobiliari restano al palo. Quanto agli investimenti pubblici, sono previsti dallo stesso governo in calo. Il debito pubblico salirà anche nel 2015: al 133,4% del Prodotto interno lordo, dal 131,6% del 2014. Oppure dal 127,8% di quest’anno al 129,7% del prossimo, togliendo i 60,3 miliardi che finora l’Italia ha tirato fuori per finanziare i fondi europei salva Stati, di cui hanno beneficiato Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro.

Spinta al limite

Spinta al limite

Francesco Riccardi – Avvenire

Questa volta per valutare meglio il quadro occorre partire dalla cornice, dal contesto in cui la legge di stabilità è stata varata ieri a tarda sera. Una giornata di “tempesta perfetta” sui mercati finanziari, con il crollo delle Borse mondiali, Italia compresa, sui timori di nuove difficoltà della Grecia e del suo sistema bancario. Con lo spread sui titoli di Stato che è tornato a rialzare la testa dopo mesi di calo. Un mercoledì non da leoni, ma da gamberi, con l’Istat che conferma l’andamento negativo del Pil nel terzo trimestre, sceso al valore più basso dall’inizio del 2000. Insomma, se gli altri Paesi hanno da tempo superato il punto di caduta della crisi (pur se nuove nubi si addensano sulla Germania, e non solo) noi siamo stati rispediti nel Novecento e diventa sempre più difficile riproiettarci nel XXI secolo. Un ritorno al futuro condizionato anche e soprattutto dai vincoli posti dall’Unione Europea, dai quali non si può prescindere, ma che devono poter essere interpretati anche con saggia flessibilità.

Mentre nelle città italiane si cerca ancora di “asciugare” lacrime e ferite delle alluvioni – concreta e lancinante metafora di un Paese che non può non fare il necessario per mettersi in sicurezza e risollevarsi – il Consiglio dei ministri ha approvato ieri una manovra lievitata da 30 a 36 miliardi (con 18 miliardi di riduzione delle imposte) che sta in questa cornice, deve starci per forza per poter passare da un lato il vaglio dei rigidi controllori di Bruxelles e dall’altro per evitare di alimentare nuove speculazioni finanziarie contro l’Italia. Una manovra da “rallista” potremmo definirla, in cui si è obbligati a giocare di freno sulla spesa pubblica e di acceleratore sui tagli fiscali, per tenere a bada il deficit sotto il 3% e, contemporaneamente, dare la necessaria spinta a un sistema economico sempre più imballato. Un percorso a filo del burrone, tra le curve di una congiuntura sempre più difficile e la prostrazione di imprese, lavoratori e famiglie dopo 7 anni di “carestia”.

Bene perciò la spinta sull’acceleratore dello sviluppo rappresentato dal consistente taglio dell’Irap, che ha fortemente penalizzato le imprese negli ultimi anni e dagli sgravi per le partite Iva. Bene pure la cancellazione dei contributi, senza pregiudicare la posizione previdenziale dei lavoratori, per chi assume personale a tempo indeterminato. Qualsiasi misura oggi riduca il costo del lavoro è utile e “benedetta”, anche se in questo caso occorre rendere strutturale lo sconto, ridurre il cuneo fiscale e contributivo sull’intera durata di un rapporto di lavoro stabile, se davvero si vuol mantenere fede a quanto promesso nel Jobs act (e cioè che il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma di lavoro privilegiata e più conveniente).

Positiva è anche la conferma degli 80 euro per i redditi medio-bassi. E, sebbene il beneficio non sia stato allargato a incapienti e famiglie numerose (come chiesto molte volte su queste colonne) va registrato l’impegno da 500 milioni di euro promessi a favore della famiglia. Ci piace considerarli come un positivo “anticipo” – il saldo lo attendiamo con la delega fiscale – per ristabilire quel minimo di equità a cui hanno diritto i nuclei con figli e che non può essere ulteriormente procrastinato. Sospeso il giudizio sull’operazione “Tfr in busta”: occorrerà valutare quanti lavoratori sceglieranno di riceverlo subito e in che misura ciò spingerà effettivamente i consumi.

Dove invece il quadro della manovra appare tratteggiato in maniera più incerta, in attesa di leggere i testi definitivi, è la parte relativa ai tagli di spesa pubblica: 15 miliardi più o meno equamente divisi tra Ministeri, Regioni, beni e servizi della Pubblica amministrazione, Comuni e Province. C’è il rischio infatti che ciò si traduca non in maggiore efficienza della spesa pubblica, ma semplicemente nella riduzione di prestazioni sanitarie e di servizi a livello locale, proprio mentre la tassazione in questi ambiti va aumentando e pesando sempre più sui cittadini onesti. Così come alto è il rischio che la Commissione europea chieda maggiori sforzi e non si accontenti di una riduzione strutturale del deficit di appena lo 0,1% o di coperture, come quelle previste dalla lotta all’evasione, che potrebbero risultare aleatorie.

Per tentare di far ripartire il Paese, pur restando all’interno delle ferree regole europee, occorreva puntare su tre fattori decisivi: le imprese e il lavoro; le famiglie e le persone in condizione di povertà. Il primo obiettivo sembra centrato in pieno, il secondo solo parzialmente, sul terzo manca qualsiasi iniziativa. Probabilmente, nelle condizioni date, “fare di più” era impossibile. Ma “fare meglio” è un impegno che non finisce stanotte.

Una frustata chiamata Irap

Una frustata chiamata Irap

Il Foglio

Matteo Renzi ha annunciato un progetto strutturale di grande importanza, ossia l’abolizione dell’Irap sui costi del lavoro, che consentirebbe di togliere di mezzo una tassazione dei costi di produzione che va pagata anche dalle imprese che sono in perdita. L’onere di questa abrogazione sarebbe complessivamente di 6,5 miliardi, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Ma ciò comporterebbe di immaginare che venga abrogato lo sgravio dello scorso anno, che dovrebbe valere circa 2,5 miliardi. E probabilmente ciò ancora non basterebbe, dato che attualmente il gettito sul lavoro dell’Irap è attorno ai 12-13 miliardi.

C’è. dunque. nell’immediato, un problema di copertura. Ma la linea che viene adottata è quella giusta e potrebbe essere completata in un biennio, anziché in un anno, con effetti equivalenti, purché il provvedimento sia reso certo e non sia coperto con imposte sul contribuente italiano, ma con una riduzione delle spese o con privatizzazioni e condoni che sterilizzano l’effetto negativo sul pil, generando un rientro di entrate permanenti (come nel caso degli accordi sul rientro di capitali tenuti in Svizzera). Una volta abrogata la tassazione dei costi del lavo- ro con l’Irap ci sarà il problema di dare alle regioni un contributo equivalente, da destinare alla spesa sanitaria, senza però aumentare l’ammontare dei contributi sociali. Cio puo avvenire togliendo da quelli nazionali, le aliquote che non hanno una base nel diritto a pensioni o indennità di malattia oppure invalidità. L’Irap rimanente è un tributo sul reddito, detraibile per gli accordi internazionali sulla doppia imposizione.

Questa riforma, così, può avere un importante effetto sugli investimenti in Italia da parte delle imprese multinazionali il cui carico fiscale risulterà così ridotto sia sul lavoro sia sul profitto. E, allo stesso modo, favorirà il mantenimento in Italia delle produzioni di servizi di lavoro qualificato, come ad esempio quelli dei centri manageriali e di ricerca, delle attività finanziarie e delle aziende che producono beni di qualità che maggiormente contribuiscono alle esportazioni, come molte dell’elettronica e della meccanica. Certo, rimangono ancora interrogativi a cui rispondere a partire da quello sull’onere da coprire e sul modo di finanziario. Ma la spinta strutturale alla crescita con occupazione può essere molto rilevante grazie alla mossa di Renzi.

In cerca di coperture

In cerca di coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Una manovra “espansiva” per sostenere la domanda interna attraverso la doppia operazione Irpef-Irap è tale solo se si basa su coperture certe. È il compito con il quale si stanno misurando in queste ore i tecnici dell’Economia. Con alcune incognite che andranno chiarite nelle prossime ore. Poiché la legge di stabilità oggi all’esame del Consiglio dei ministri per 11,5 miliardi è finanziata in deficit, vi è da supporre che il governo abbia su questo punto ottenuto una via libera (ancorchè informale e non ancora ufficiale) da Bruxelles. La conferma che staremo comunque sotto il 3% anche nel 2015 è da questo punto di vista una garanzia, fermo restando che è tuttora sub iudice il giudizio che la Commissione esprimerà a novembre, relativamente alla deviazione decisa dall’Italia, rispetto al target del deficit strutturale. Il negoziato – a tratti “muscolare” ma che corre per le vie ordinarie nella sostanza – è in corso, ed è probabile che il compromesso venga alla fine raggiunto (ma non subito) sullo 0,25% di impegno aggiuntivo chiesto già in via informale nei giorni scorsi. Stando alle ultime indiscrezioni, il governo avrebbe già individuato una sorta di «dote di riserva» in manovra per farvi fronte. Sul tutto aleggia la vera questione: appunto le coperture, fondamentali per la sostenibilità dell’intera manovra. Il focus è allora tutto sull’imponente riduzione della spesa corrente annunciata due giorni fa dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi: 16 miliardi.

Alla spending review è affidato il compito di stabilizzare il bonus Irpef da 80 euro per i redditi fino a 26mila euro, e finanziare la più importante novità emersa finora dal work in progress della manovra: l’eliminazione della componente del costo del lavoro dal calcolo della base imponibile Irap, per un totale di 6,5 miliardi. E poi l’annuncio, anch’esso importante, della totale decontribuzione per tre anni per i nuovi assunti. Misure fondamentali, a lungo rivendicate dalle imprese, passaggio importante per cominciare a ridurre una pressione fiscale complessiva che, se si guarda al cosiddetto total tax rate calcolato dalla Banca mondiale in percentuale sui profitti, supera l’impressionante percentuale del 65 per cento. Una scommessa da giocare con coraggio e decisione. L’assoluta certezza delle coperture è precondizione essenziale per rendere credibile ed efficace l’intera manovra. Meno spesa corrente per finanziare il taglio delle tasse: assioma fondamentale, più volte indicato dalla Banca d’Italia, ma anche dalle principali istituzioni internazionali, dal Fmi all’Ocse. Ad adiuvandum, a consuntivo, la dote complessiva delle risorse a disposizione potrà giovarsi dei proventi recuperati dalla lotta all’evasione. Sarà una vera «spending review», che azioni il bisturi del taglio selettivo, in un’ottica di razionalizzazione e redistribuzione delle risorse? La logica dei tagli lineari, la più adottata finora, comporta al contrario diversi rischi: poiché si colpiscono anche le spese “buone”, l’effetto può essere anch’esso recessivo.

L’attesa sulla composizione dei tagli è dunque pienamente giustificata. Una volta approvata la manovra, la partita a ben vedere sarà ancora al fischio d’inizio, poiché una così imponente sul fronte della spesa, per passare indenne dalla probabile raffica di emendamenti che la investiranno nel corso dell’esame parlamentare, necessita di una maggioranza assolutamente coesa. È lecito prevedere fin d’ora che soprattutto al Senato non sarà propriamente una passeggiata. Il lasso di tempo che il governo si accinge a ritagliare tra il varo della legge di stabilità e la trattativa vera e propria con Bruxelles dovrebbe servire appunto (anche per effetto della spending review) a superare le residue obiezioni sulla decisione del governo di rinviare il pareggio di bilancio al 2017, con annessa la scelta di confermare (al momento) allo 0,1% del Pil la correzione del deficit strutturale per il prossimo anno. Si invocano, e a ragione, le circostanze eccezionali previste dall’attuale disciplina di bilancio europea. Se il punto di caduta sarà sui 2-2,4 miliardi chiesti alla fine da Bruxelles, la soluzione di compromesso è a portata di mano. E così a novembre la nuova Commissione europea potrà difendere, almeno formalmente, il suo ruolo di guardiano dei conti, rinviando di fatto alla prossima primavera il giudizio più completo e articolato sia sulla legge di stabilità che sulla persistenza degli «squilibri macroeconomici eccessivi», denunciati lo scorso marzo. E il governo potrà comunque salvaguardare nella sostanza l’integrità della sua manovra “espansiva”.

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Dopo un lungo tira e molla, il capitolo Tfr entra nel disegno di legge di Stabilità che oggi sarà approvato in Consiglio dei ministri. L’anticipo in busta paga del trattamento di fine rapporto sarà su base volontaria, possibile fino al 100% della somma maturata nell’anno, e riguarderà anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Per gli ultimi dettagli è in corso un confronto con l’Abi, l’Associazione delle banche. A ieri sera dal meccanismo erano esclusi solo i dipendenti pubblici. Ma potrebbero restare fuori anche altre due categorie: agricoltura più colf e badanti.

Per le colf si sta valutando se l’anticipo sarebbe un vantaggio per le famiglie, che già oggi possono liquidarlo anno per anno, oppure una spesa che finerebbe per mangiarsi buona parte delle misure a loro sostegno, compreso il bonus da 80 euro. A proposito di bonus, la misura viene confermata e allargata ma solo per le famiglie numerose con un solo stipendio. Come previsto, rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati a giugno, il tetto massimo di reddito sale a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. In parallelo dovrebbe arrivare un ritocco agli assegni familiari.

Il ddl di Stabilità prevede interventi per 30 miliardi di euro, di cui 11,5 finanziati in deficit, il resto in arrivo soprattutto da tagli di spesa. Per le imprese diventa più leggera l’Irap, l’Imposta sulle attività produttive, dalla quale sarà interamente deducibile il costo del lavoro per un valore di 6,5 miliardi di euro. Ma ad avvantaggiarsene saranno soprattutto le grandi aziende mentre resteranno fuori quelle senza dipendenti, il 70% del totale come ricorda Rete imprese Italia. Sempre dal lato delle imprese sul piatto c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act , che però deve ancora passare l’esame della Camera.

Salvo sorprese dell’ultima ora, viene rinviato ancora una volta il riordino delle agevolazioni fiscali. La legge di Stabilità si limiterà a costituire un gruppo di lavoro per sfoltire quella lista composta oggi da 700 voci. Ma il criterio base è già stato fissato: non si procederà con sgravi modulati a seconda delle fasce di reddito, come pure si era pensato di fare in un primo momento, ma alcune agevolazioni saranno eliminate per tutti. Non dovrebbero essere toccate quelle ad alto impatto sociale, come le detrazioni sulle spese mediche o sugli interessi per i mutui sulla prima casa. L’ipotesi iniziale era di ricavare da questo riordino almeno 1 miliardo di euro. Per far quadrare i conti potrebbe essere ulteriormente rafforzato l’aumento della tassazione sulle slot machine, anche se gli operatori dicono che, limitando le vincite, lo Stato finirebbe per incassare meno. Rinvio, sempre salvo sorprese, anche per la tassa unica sulla casa, che fonderà Tasi, Imu e Tari, con il ripristino delle vecchie detrazioni Imu: 200 euro per l’abitazione principale, più 50 euro per ogni figlio a carico.

Tfr, scelta volontaria
L’anticipo in busta paga del Tfr, il trattamento di fine rapporto, sarà possibile su base volontaria. Il lavoratore potrà chiedere di ricevere mese per mese fino al 100% della somma maturata nel corso dell’anno. Il Tfr maturato negli anni precedenti non può essere oggetto di anticipo. Sono esclusi i dipendenti pubblici, si ragiona su agricoltura e colf. Potranno fare domanda anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Proprio sui fondi il prelievo a carico dell’iscritto salirebbe dall’11,5 al 12%. Mentre verrebbe ridotta dal 20 al 12% la tassazione sugli investimenti.

Bonus di 80 euro
Confermato il bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti. Come previsto l’intervento viene allargato ma solo per le famiglie numerose che hanno un solo reddito: per loro il limite massimo di reddito sale rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati con il decreto che ha introdotto il bonus. E arriva fino a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre figli, 50 mila con quattro. In tutto la misura dovrebbe costare 500 milioni di euro. In parallelo è in arrivo anche un ritocco degli assegni familiari. Possibile il ritorno delle detrazioni fisse per i figli (50 euro) per la nuova tassa unica sulla casa, che metterà insieme Tasi, Imu e Tari. Nessun intervento sulle pensioni.

Pressione fiscale
Diventa più leggera l’Irap, l’Imposta regionale sulle attività produttive. Dall’anno prossimo sarà interamente deducibile il costo del lavoro, per un taglio del carico fiscale pari a di 6,5 miliardi di euro. La misura è stata accolta con grande entusiasmo da Confindustria. Ma riguarderà soprattutto le grandi aziende, mentre resteranno fuori 3 milioni di aziende senza dipendenti, il 70% del totale. Nel disegno di legge di Stabilità c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act .

Più tasse sui giochi
Non c’è solo l’aumento della tassazione sulle slot machine. Nel disegno di legge di Stabilità ci sono anche altre tasse, che però potrebbero scattare solo come clausola di salvaguardia, cioè come piano B per garantire la tenuta dei conti se qualcosa dovesse andare storto. Possibile un ritocco delle accise sulla benzina, ma anche un aumento dell’Iva e delle imposte indirette che porterebbe in dote 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 nel 2017 e 21,4 nel 2018. Salvo sorprese, viene rinviata ancora una volta la revisione delle agevolazioni fiscali, quella lista di 700 sconti che vengono recuperati nelle buste paga di luglio. Se ne dovrebbe occupare un comitato ad hoc.

L’imposta più odiata

L’imposta più odiata

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

L’Irap, sin dalla sua nascita, si porta dietro la sgradevole immagine di “tassa ingiusta”. Tasse simpatiche non se ne conoscono, d’accordo. Ma una tassa che colpisce il lavoro e che si paga anche quando i bilanci chiudono in perdita è qualcosa davvero difficile da farsi piacere. Economisti, giuristi e politici si confrontano da sempre sulla coerenza di un prelievo così congegnato e anche segnato da innumerevoli promesse di soppressione, puntualmente disattese. Anche per questo, l’annuncio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di voler azzerare la componente del costo del lavoro dall’Irap rappresenta una svolta di grande rilievo. E non solo perché in questo modo il prelievo sulle attività produttive sarà alleggerito di circa 6,5 miliardi all’anno.

L’intervento sull’Irap annunciato dal premier va nella direzione giusta anche per altri motivi. E risponde alla priorità di avviare una reale riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Un intervento così congegnato, infatti, andrà a premiare le imprese che danno più lavoro, le attività labour intensive. Una misura di questo tipo appare più efficace del taglio lineare dell’aliquota (come è stato fatto sempre dal governo Renzi poco prima dell’estate), che produrrebbe una riduzione del prelievo “democratica” – ovvero uguale per tutti – ma forse poco lungimirante nella fase attuale, nella quale il lavoro ha bisogno di essere sostenuto. Spostare tutto, come intende fare il governo sul costo del lavoro, risponde così all’esigenza di rendere più competitive le imprese, visto che proprio la componente Irap gioca in questo senso un ruolo decisamente negativo. Un ruolo anche poco comprensibile all’estero, tanto che – per fare un esempio – le statistiche internazionali sul costo del lavoro redatte dall’Ocse non includono per l’Italia la componente Irap, facendo apparire il nostro cuneo fiscale non così diverso da quello degli altri paesi, cosa che ovviamente non è.

Certo, rispetto al 1997 – anno dei primi pagamenti dell’Irap – molte correzioni, semplificazioni e riduzioni del prelievo sono arrivate. Talvolta lo si è fatto per adeguarsi o per rimediare alle sentenze delle Corti, dalla Cassazione alla Corte costituzionale; altre volte per rispondere – ancorché parzialmente – all’allarme del mondo produttivo sugli effetti devastanti di questa imposta. Nel corso degli anni, solo per citare alcune misure volte a ridurre l’impatto dell’imposta, sono arrivate detrazioni fisse dalla base imponibile e detrazioni legate in modo specifico al costo del lavoro che hanno escluso dall’imposta moltissimi soggetti economici di piccole dimensioni. Un segnale è giunto anche con l’introduzione della possibilità di dedurre dall’Ires una quota dell’Irap pagata. Non c’è dubbio, però, che la misura ora annunciata dal governo rappresenti una scossa, che non può essere paragonata agli interventi del passato.

Proprio qualche giorno fa il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha parlato delle necessità di un fisco che favorisca lo sviluppo. E ha lanciato l’idea di un nuovo “patto” di fiducia con le imprese e i professionisti. Ecco, questa può essere, anzi, questa deve essere la direzione da seguire. Perché, come si è detto sul Sole 24 Ore di sabato scorso, in un paese come l’Italia che ha una pressione fiscale a livelli insostenibili, il “patto” sul fisco richiede in primo luogo uno sforzo nella direzione della riduzione del prelievo. Dal governo sta per arrivare una prima, importante, risposta. Che pone le basi per costruire davvero un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti.

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

La riforma del lavoro è a un tornante delicato e decisivo al Senato. Non c’è tempo per meline o per guerre di religione agitate dalla triste cabala del numero 18. Sulla delega che va sotto il nome, un po’ troppo esterofilo, di Jobs act si è già perso troppo tempo. Su questo l’Italia gioca la partita della credibilità in Europa e quella della fiducia per gli investimenti. Lo scontro paralizzante sul punto nevralgico del cosiddetto contratto a tutele crescenti non fa presagire nulla di buono.

L’obiettivo deve restare la creazione di un contratto a tempo indeterminato flessibile e semplice nella gestione. Le correzioni fatte alle regole per contratti a termine e apprendistato hanno già dimostrato, dati alla mano, che se si facilitano le procedure il mercato risponde e 36mila giovani hanno aumentato gli occupati in un solo mese (luglio) e altrettanti sono usciti dalla palude dell’apatia e dell’inattività per tentare, finalmente la ricerca di un’opportunità lavorativa. Non è ancora il lavoro ma è, almeno, la volontà di cercarlo e la fiducia che qualcosa stia cambiando o possa cambiare.

È anche per questo che da domani Il Sole 24 Ore proporrà ai suoi lettori un intero quotidiano online dedicato al tema del lavoro. Un nuovo strumento specializzato – destinato a tutti gli operatori, imprese e professionisti – per conoscere, per approfondire, per orientarsi tra gli annunci e la realtà del lavoro che cambia. Nel Paese ormai preda della deflazione – dato psicologico (di paura) prima ancora che economico – della disoccupazione quasi doppia rispetto a quella media europea, della produzione in ritirata, dei consumi svaniti è assurdo bloccare la discussione tra articolo 18 sì e articolo 18 no.

La delega di cui si dibatte in Senato ha l’ambizione di creare un nuovo sistema di ammortizzatori sociali; di puntare, forse per la prima volta, federalismo permettendo, sulle politiche attive per la ricerca di un’occupazione piuttosto che su quelle passive per la gestione assistenziale di chi i posti li perde. La delega ha l’ambizione di razionalizzare le forme di ingresso e di uscita dal mondo del lavoro con un occhio all’Europa e ai nuovi orizzonti globali; di traguardare, con un cuore gettato molto oltre l’ostacolo, anche il salario minimo per legge. Più che un problema di diritti – la cannoniera del massimalismo è già in azione – è semmai un problema di risorse, come accade per molte altre riforme che difficilmente sono a costo zero. Il tema dunque è il seguente: quanto risulta velleitario questo Jobs act?

La spinta riformista che tutto il mondo ci chiede non è il «lavoro sporco» come lo ha chiamato Maurizio Landini segretario Fiom e (strano) interlocutore privilegiato del premier, tramite cinguettii virtuali e non solo; ma è l’indicazione di una direzione di marcia moderna sul tema più delicato in assoluto, il lavoro appunto. Il vero problema del contratto a tutele crescenti non è tanto l’abbandono di diritti o procedure di garanzia come è il reintegro affidato magari più a capricci giurisprudenziali che al buonsenso, sostituibile con una congrua monetizzazione nei casi diversi dalla discriminazione di rango costituzionale. Il punto è la creazione di forme di incentivazione per rendere più appetibili e convenienti i contratti a tempo indeterminato, ristabilendo una corretta gerarchia tra impiego stabile e occupazione flessibile (più costosa).

Il Governo sta studiando forme di abbattimento dell’Irap o dei contributi caricati sul lavoro a tempo indeterminato, ma si scontra con le compatibilità di bilancio in una fase in cui l’economia continua la tragica stagione dell’arretramento. Ma proprio la riforma del lavoro sarebbe il lasciapassare europeo anche per la cosiddetta “flessibilità” nelle gestione dei parametri da applicare ai conti pubblici, vale a dire per avere più risorse spendibili. È un obiettivo che ci sollecitano Bce, Fondo monetario e proprio gli stessi partner europei. Ma è un tratto che sfugge alla discussione sul tema e questo è grave. È più facile infiammare assemblee o piazze al grido di “giù le mani dallo Statuto dei lavoratori” che ragionare sui costi di sistema e sul peso di un finanziamento del modello di welfare che è quanto mai squilibrato e a danno delle nuove generazioni (peraltro ormai nemmeno tanto nuove perchè lo squilibrio dura da anni). Eppure lo Statuto dei lavoratori andava stretto, già negli anni 90, anche al suo “genitore storico”, Gino Giugni più volte lucidamente schierato sulla necessità di rivedere alcune parte di una normativa ormai anacronistica rispetto al mutare delle condizioni di produzione, di competizione, di innovazione.

Se l’argomento fosse stato de-ideologizzato e ricondotto a più prosaiche categorie economiche probabilmente avremmo un numero assai più elevato di occupati. La discussione tutta “politica” sullo scippo dei diritti ha fatto velo per troppo tempo al tema decisivo dell’aumento della produttività, e per quella via anche dei salari, di cui nessuno si è curato per decenni. Se partiti, ministri e parti sociali si fossero concentrati su questo punto il Paese probabilmente sarebbe cresciuto di più, avrebbe trovato il sistema per valorizzare il capitale umano, avrebbe spinto in avanti la frontiera produttiva dell’innovazione. Invece sono anni che si assiste a un surreale dibattito della paura: quello dell’impresa che non vuole “fare matrimoni” con i propri dipendenti e quello dei dipendenti persuasi che il primo pensiero dell’imprenditore sia quello di licenziare i propri collaboratori. Sono queste due posizioni agitate sui fantasmi che hanno obnubilato le menti e azzerato ogni discussione costruttiva. Renzi batta un colpo: se può faccia finire questa seduta spiritica. Nel suo partito e fuori.

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Francesco Forte – Il Giornale

In luglio la produzione industriale italiana ha avuto un calo dell’1% sul giugno e un calo dell’1,6% sul luglio 2013 che ha portato a zero la sua crescita per i primi 7 mesi del 2014. Ora si teme che il terzo trimestre possa avere ancora segno negativo e che il Pil 2014 abbia la crescita zero. Gli 80 euro in busta paga, che hanno dato ai lavoratori a basso reddito un miglioramento piccolo in sé ma per loro significativo, non sono serviti a dare una scossa al Pil. Altri sono i fattori che servono. Pesa la persistente crisi dell’edilizia, privata dovuta alle troppe tasse e di quella pubblica dovuta ai troppi vincoli. E pesa l’inadeguata performance delle nostre imprese nel commercio estero, dovuta sia alle tropo tasse sul lavoro e sia alla rigidità dei contratti di lavoro, aggravata dalle sanzioni alla Russia e dai problemi nel Medio Oriente. Infine c’è una carenza di investimenti delle industrie, dovuta alla loro scarsa convenienza.

Le nostre imprese sono oberate da una fiscalità eccessiva, che riguarda soprattutto il costo del lavoro tramite l’anomalia dell’Irap, un’imposta diretta che colpisce con una aliquota fra il 4 e il 5% il costo del lavoro al lordo dei contributi sociali con un gravame sulle retribuzioni lorde di circa il 6%. Con questo aggravio la tassazione dei profitti che con l’imposta sulle società (inclusi gli interessi passivi tassabili) si aggira sul 32%, raddoppia. E arriva al 70% nelle imprese ad alta intensità di lavoro. Dunque occorre agire sull’Irap con una riduzione che la azzeri, in tre anni, per imprese e lavoro autonomo. Servono 16-17 miliardi (l’operazione 80 euro è costata 8 miliardi).

L’analisi dei dati sulla produzione industriale a luglio 2014 fa capire che le tasse eccessive hanno una grossa colpa del brutto risultato netto. L’industria estrattiva, che riguarda soprattutto i materiali per l’edilizia, ha avuto una diminuzione del 7,8%. La fabbricazione di apparecchiature elettriche e di quelle per uso domestico non elettriche, due altri settori importanti nell’edilizia, è scesa addirittura del 13,9%. Sono andate male anche l’industria del legno (-3,0) e quella tessile e dell’abbigliamento e della pelle e accessori (-5,9%). Per la prima c’è, come spiegazione, la flessione della domanda interna connessa alla crisi edilizia e di quella estera per i mobili made in Italy; per la seconda gioca negativamente la riduzione di competitività della nostra produzione. Sono scese del 2,1 % la metallurgia e del 2,8% la produzione di macchinari e attrezzature, in espansione le produzioni elettroniche (+4,8%), quelle di farmaceutici (+3,0), di mezzi di trasporto (+2,9) e di prodotti chimici (+0,5). Gran parte di questi settori che vanno bene sono ad alto contenuto tecnologico e a bassa intensità di lavoro. Fa eccezione l’industria dell’auto, che è in espansione perché funziona la terapia Marchionne di contratti di lavoro aziendali di produttività e di innovazione organizzativa.

Per trovare la copertura per il taglio dell’Irap, bisogna operare sulla spesa. Dal blog del commissario Carlo Cottarelli rilevo che per l’acquisto di beni e servizi le pubbliche amministrazioni pagano prezzi spesso superiori a quelli praticati dalla Consip, la società che li dovrebbe gestire, a cui esse non si rivolgono, usando abili espedienti. Ci sono 2.671 società partecipate dai Comuni che hanno solo amministratori e zero addetti o meno addetti che amministratori. Il consumo per abitante per illuminazione pubblica dei nostri comuni è più che doppio di quello tedesco e inglese. Così dal satellite risulta che l’Italia è, di notte, la parte più luminosa del pianeta.  

Una proposta per il rilancio

Una proposta per il rilancio

Daniele Capezzone – La Discussione

Com’è perfettamente comprensibile dal suo punto di vista, Matteo Renzi, chiudendo domenica scorsa la festa del suo partito, ha giocato la carta della mozione degli affetti, dell’iniezione di orgoglio, di una specie di “training autogeno” collettivo, per incoraggiare il Pd, la sua maggioranza, e magari l’intero Paese. Parte di tutto ciò è l’ormai consueta polemica contro i “gufi“, nel tentativo di contrapporre il proprio spirito positivo all’altrui animus negativo e distruttivo. Purtroppo, però, finora è stato lo stesso Renzi ad “autogufarsi” con le tasse su casa e risparmio, che hanno contribuito (e purtroppo contribuiranno ancora) a non ricreare fiducia ma ad alimentare paura, a frenare la propensione al consumo, a deprimere la domanda intema. Sono errori devastanti, che Renzi farebbe bene ad ammettere.

Contro tutto questo, rilancio una ipotesi totalmente alternativa. Primo: approvare tutti i decreti delegati della delega fiscale, ma rispettando quello che il Parlamento (con un impegno che ha visto Forza Italia protagonista, con un mio ruolo di relatore edi estensore di molte parti davvero innovative della delega) ha stabilito in direzione liberale, pro-contribuenti, e verso un vero e correlato taglio di spesa e tasse. Secondo: fissare un tetto costituzionale alla pressione fiscale, proposta che avanzerò alla Camera in sede di riforma costituzionale. Terzo: realizzare un vero choc fiscale, sfondando il limite del 3%, per realizzare un taglio-record di tasse, accompagnato da tagli di spese e riforme strutturali.

In particolare, propongo un taglio di tasse di 40 miliardi in meno in 2 anni e poi 12 nel successivi 3), con tre destinatari: le imprese, i lavoratori e il nucleo famiglia/consumatori. Per le imprese, c’è il dimezzamento Irap e il calo dell’Ires al 23%; per i lavoratori, ci sono 10 miliardi in meno di tasse sul lavoro; per le famiglie e i consumatori, c’è la cancellazione della tassa sulla prima casa e il calo dell’Iva al 20%. Nel mio libro, per l’esattezza al capitolo 16, sono indicate tutte le coperture effettuate con tagli di spesa pubblica. È questa una vera ipotesi di “politica economica della libertà” per uscire dal tunnel e conquistare tassi di crescita significativi.

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il Global Competitiveness Report, pubblicato al World Economic Forum, mette a confronto 144 paesi nel mondo e mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136° posto, ultima degli Stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo alla facilità d’ingresso e di uscita dal mercato stesso, ci spetta addirittura la posizione 141. Sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela. È questa l’area di confronti che oggi ci tocca: nei due dati c’è una inappellabile condanna del nostro Paese e della sua classe dirigente, vecchia e nuova.

Con perfetta sincronia, il premier ha appena dichiarato che la riforma del lavoro si farà (ma il job act è di gennaio), ma che non si toccherà l’art. 18. Rivediamolo questo articolo che si intitola «Reintegrazione nel posto di lavoro». Ecco il testo: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti (…)». Poiché il fulcro del problema, quindi, è proprio l’art. 18 che dà a un’autorità giudiziaria fortemente ideologizzata (portatrice di una visione che considera il capitalismo, la libertà economica e gli imprenditori nemici del popolo) il potere di rimettere in azienda i lavoratori che ne sono stati estromessi, l’annuncio di Renzi significa che non ci sarà alcuna cambiamento significativo nel situazione mercato del lavoro. Comunque la si rigiri, questo è il senso delle ultime esternazioni.

Volgiamo leggermente il capo e constatiamo (una banale constatazione) che in Italia gli strumenti della produzione sono tassati. Sono tassati i capannoni industriali, i terreni agricoli, tutti i beni che servono a mettere insieme un qualsiasi processo produttivo. Non basta: è tassato pure il lavoro. Infatti, l’impostaregionale sulle attività produttive, Irap, è stata istituita con il decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e colpisce il valore della produzione netto delle imprese, cioè il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale e degli oneri e dei proventi di natura finanziaria. Ciò significa che lo Stato, da un lato ti impedisce di licenziare (i licenziamenti avvengono per due motivi: problemi aziendali; mancanze del lavoratore. Non c’è un imprenditore al mondo che voglia privarsi di un bravo lavoratore) e dall’altro ti tassa per la tua forza lavoro. Autori di questa bella pensata sono stati Romano Prodi e Vincenzo Visco (era Prodi il primo ministro della legge di delega) : basterebbe questa innovazione per iscriverli nel libro nero della Repubblica italiana, se mai sarà prodotto.

Nell’Irap, un’imposta demenziale, c’è il livore di un bel pezzo di mondo cattolico e di mondo comunista, non a caso andati a nozze nel compromesso storico. Sarebbe bastato che l’innovatore Renzi, invece di trastullarsi con gli 80 euro in busta paga a un’ampia platea di non indigenti, avesse abolito l’Irap e abrogato l’art. 18 perché l’Italia cambiasse verso e si rilanciasse l’economia. Invece, prigioniero e secondino di un sistema che viene da lontano, gestore di un’area che, marginalmente, coltiva ancora l’illusione della propria superiorità morale (vedi Monte Paschi e, ora, Regione Emilia-Romagna) e culturale, e la speranza di una rivoluzione proletar-clericale, Matteo Renzi si è cimentato su questioni che costituiscono un vero e proprio «cambiar discorso», una elusione quotidiana dei problemi del Paese, mediante l’accensione di dossier di secondaria importanza, rispetto ai due nodisostanziali.

Idee pasticciate come la riforma del Senato che nelle prossime settimane sarà riscritta dalla Camera dei deputati (annullando il lavoro fatto, giacché la quattro letture debbono essere celebrate su un medesimo testo) portate al voto nonostante le osservazioni fondate di esperti costituzionalisti e di politici di lungo corso. Lo pseudogiovanilismo dell’allegra brigata di gitanti a Roma non ha ammesso riflessioni e consulti, esaurendo la discussione all’interno di un «giglio magico» dalle competenze insondate e insondabili. L’altra tecnica usata è quella di rilegiferare sul legiferato, vendendo agli italiani (e soprattutto ai media completamente privi di vis critica; o di conoscenza dei fatti?) per innovazioni, decisioni come quelle sulle autocertificazioni e sulle divisioni interne degli immobili che risalgono ad anni passati. Anche se il consenso sembra crescere, Giorgio Napolitano non si illuda. Quest’ultima sua creatura ha il respiro corto e, difficilmente, potrà sopravvivere con le parole. I numeri non sono più falsificabili. Li sanno leggere tutti, soprattutto a Francoforte, a Berlino e a Bruxelles.