isabella bufacchi

Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Quanto costa la Grecia al contribuente italiano

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

C’è periferia e periferia. L’Italia, al fianco dei creditori “core” ma con costi più pesanti, ha aiutato la Grecia con i prestiti bilaterali, l’Efsf e l’Eurosistema. Dove inizia la “periferia” e dove finisce? Per i mercati l’Italia è senza ombra di dubbio un paese periferico: in termini di debito/Pil, rating sovrano e debolissima crescita potenziale causata da un accumulo di inefficienze, scarsa competitività, tassazione eccessiva. All’interno dell’Eurozona, l’Italia è invece allineata agli Stati “core”, è un paese creditore quando si tratta di soccorrere i periferici in difficoltà. In termini assoluti , è vero che l’Italia ha un’esposizione tramite Efsf e Esm verso la Grecia inferiore a quella della Germania o della Francia (peso ponderato in base al Pil nazionale e alla popolazione): ma in termini relativi l’assistenza finanziaria che l’Italia ha concesso finora alla Grecia ha pesato, pesa e peserà maggiormente perchè indebitarsi costa assai più caro al Tesoro italiano che non a quello tedesco o francese (anche adesso nell’era del QE). Va anche detto che l’aumento del debito pubblico tramite le garanzie all’Efsf o le quote di capitale Esm (finanziate con emissione di BTp) grava di più quando il un debito/Pil è già molto alto, e dovrebbe scendere invece di salire come nel caso italiano. Tutto questo ha rilevanza anche al fine dei negoziati sulla maggiore flessibilità chiesta dall’Italia.

Al di là delle considerazioni di opportunità politica, la crisi greca ha avuto un costo per i conti pubblici italiani. L’Italia ha concesso alla Grecia due prestiti bilaterali per un importo di circa 10 miliardi di euro, spalmati nel 2010 e nel 2011. In quegli anni il rendimento del BTp decennale ha oscillato tra il 4% e il 6% con picchi oltre il 7%: condizioni fisse. Il prestito bilaterale greco, invece, è stato ristrutturato: allungamento della scadenza di 15 anni (ora ha una vita media di 30 anni), un periodo di grazia sugli interessi di 10 anni e un abbattimento del tasso di interesse di 100 punti.

Attraverso l’Efsf, l’Italia ha aiutato la Grecia per 25 miliardi di euro(l’Italia pesa al 18% circa sul totale delle garanzie dell’Efsf e il fondo ha concesso alla Grecia 141,8 miliardi di euro, resta in bilico l’ultima tranche da 1,8 miliardi). L’Efsf ha già allungato le scadenze dei prestiti alla Grecia fino al 2054 (vita media oltre 32 anni) e ha concesso ad Atene un periodo di grazia sospendendo il pagamento degli interessi sul debito dal 2012 al 2023: con un risparmio per il budget di Atene di 8,6 miliardi nel 2013 e attorno agli 8 miliardi nel 2014 e 2015. L’Efsf e i suoi garanti non hanno perso il capitale investito in Grecia (non c’è stato haircut) ma l’investimento molto rende meno del previsto. Se rende.

La Banca d’Italia, come tutte le banche centrali dell’Eurosistema, sta restituendo alla Grecia la plusvalenza realizzata tra il prezzo di acquisto dei titoli di Stato greci (comprati con il Securities markets programme al picco della crisi a prezzi ben sotto la pari) e il rimborso a 100. Il debito pubblico italiano sale, proquota, anche per quei 10,9 miliardi di Efsf bond trasferiti all’Hellenic Financial Stability Fund per ricapitalizzare la banche greche e dare collateral per i finanziamenti presso l’Eurosistema. La chiusura del programma di aiuti dell’Efsf alla Grecia (la cui scadenza è stata estesa già dal 31/12/2014 al 28/02/2015) costringerebbe la Grecia a restituire questi Efsf bond. Infine, nel caso in cui Atene dovesse richiedere nei prossimi mesi un nuovo programma di aiuti, questa volta con l’Esm, o l’accensione di una linea di credito precauzionale ECCL all’Esm (con acquisto di titoli di Stato in asta da parte dell’Esm per candidare i bond greci alle OMTs di Draghi e probabilmente anche al QE), l’Italia avrebbe aiutato la Grecia anche tramite la partecipazione al capitale dell’Esm, costata per il paid-in oltre 14 miliardi di euro.

Il “bazooka” per l’economia reale

Il “bazooka” per l’economia reale

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Sui Paesi membri dell’Eurozona pesa un macigno di debito pubblico da 9.200 miliardi di euro, equivalente al 92,7% del Pil contro i 7.900 miliardi rilevati nel 2010, all’epoca pari all’83,7% del Pil. La crisi bancaria e subito dopo la crisi del debito sovrano hanno aumentato lo stock del debito pubblico nell’Eurozona di circa 1.300 miliardi in quattro anni. Un debito che, se non proprio nella sua totalità, è entrato nei portafogli delle banche, degli investitori istituzionali, dei risparmiatori sotto forma di titolo di stato: sottraendo risorse finanziarie che direttamente sarebbero potute confluire nell’economia reale. Ed è lì che la BCE intende arrivare con il suo QE esteso ai titoli di Stato: acquistare sul mercato secondario BTp o Bund, OaT o Bonos per liberare risorse finanziarie e invogliare investitori, intermediari e risparmiatori a impiegare la liquidità altrove a caccia di rendimenti più elevati. Il QE tra le altre cose comprime anche i rendimenti dei titoli acquistati dalla banca centrale.

Rastrellare titoli di Stato in un’Eurozona afflitta dal “public debt overhang” è un’operazione che non ha precedenti. E della quale fino a ieri non si aveva alcun dettaglio. Quanti titoli verranno acquistati, con quale scadenza e per quanto tempo sono gli aspetti più rilevanti che il mercato si aspetta vengano rivelati oggi. Le zone grigie resteranno: è prevedibile che la Bce lasci qualche domanda senza risposta per mantenersi le mani libere, concedendosi qualche margine di manovra per ritocchi in corsa. Stando a fonti bene informate, è corsa voce ieri che nella rosa delle ipotesi esplorate dagli esperti dell’Eurosistema vi sia stata anche la possibilità di stabilire gli importi degli acquisti in base non soltanto al peso dei singoli Paesi nel capitale della Bce (che vedrebbe la Germania al primo posto con grandi quantità di Bund da acquistare) e alla montagna dei titoli di Stato in circolazione ma anche in base alle emissioni lorde del 2015 dei titoli a medio-lungo termine più liquidi (tipologia target del QE): in riferimento a quest’ultimo parametro, l’Italia primeggerebbe essendo il più grande emittente di titoli di Stato nell’Eurozona con 260-270 miliardi di emissioni lorde attese quest’anno sulle scadenze medio-lunghe (BoT esclusi).

Chi venderà i titoli alla banca centrale? Non lo Stato direttamente. La Bce non può acquistare titoli di Stato in asta perché il suo statuto (ispirato al Trattato di Maastricht) vieta il finanziamento diretto degli Stati. Gli acquisti non saranno realizzati sul mercato primario ma solo sul secondario , probabilmente con meccanismo d’asta: la Bce indirettamente sosterrà le aste facendo spazio nei portafogli di investitori e banche partecipanti alle emissioni dei titoli di Stato. Ma la domanda in asta potrebbe via via raffreddarsi a causa di un rapporto rischio/rendimento annacquato dall’eccesso di liquidità: meglio allora, è questo l’invito esplicito del QE, guardare altrove, oltre i titoli di Stato, per incassare rendimenti più elevati e maggiormente commisurati al rischio. “La politica monetaria espansiva delle Bce riduce i rendimenti attesi su investimenti di tipo finanziario e contribuisce a spostare l’interesse degli investitori verso l’acquisto di beni immobili di qualità”, ha detto ieri a un convegno organizzato alla Luiss sulle cartolarizzazioni CMBS Biagio Giacalone, responsabile Credit Solutions Group di Banca IMI. Con questo pronostico: “Il conseguente miglioramento delle quotazioni degli asset immobiliari rende i CMBS italiani più liquidi e attraenti per gli investitori specializzati sul mercato dei capitali, favorendo il finaziamento di operazioni immobiliari a costi più contenuti rispetto al passato”.

Il debito pubblico negoziabile italiano è detenuto prevalentemente (67,1%) da italiani, come risulta dalle ultime statistiche della Banca d’Italia al giugno 2014: 20,1% banche italiane, 13,6% assicurazioni italiane, 3,1% fondi comuni italiani, 12% famiglie italiane, 7,8% detentori italiani quali società non finanziarie, i fondi pensione e altre tipologie di investitori, 5,5% Banca d’Italia, 5% le gestioni patrimoniali e fondi comuni amministrati da operatori esteri ma riconducibili a risparmiatori italiani. Al giugno 2014 l’Eurosistema risultava detenere (al netto dei titoli in Banca d’Italia) il 3,7% dei titoli di Stato italiani in circolazione, acquistati con il Securities markets programme e con lo status di creditore senior (privilegiato, non pari passu) . Il resto, pari al 29,4%, risultava essere in mano a detentori esteri.

Il grande punto interrogativo riguarderà le banche italiane, che detengono oltre 420 miliardi di titoli di Stato italiani (circa 200 in più rispetto al periodo pre-crisi): fino a che punto saranno disposte a vendere i bond alla Bce per impiegare la liquidità altrove? È difficile rinunciare a bond utilizzati come collaterale per finanziarsi a tassi vicino allo 0% presso la Bce; ed è difficile rinunciare ai rendimenti che questi titoli offrono e che contribuiscono ad alzare la redditività della banca.

Strumenti taglia-debito: tutte le insidie da evitare

Strumenti taglia-debito: tutte le insidie da evitare

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Non si può proprio dire che la coperta sia corta, quando si lavora su un’operazione taglia-debito degna di questo nome. Un intervento una tantum risolutivo di riduzione dello stock del debito pubblico italiano, su quei 2.168 miliardi che valgono all’incirca il 135% del Pil, deve rimuovere qualche centinaio di miliardi di euro affinché ne valga davvero la pena. La coperta appare enorme, e dài e dài a tagliare in lungo e in largo, a colpi di sforbiciate si toglie questo e quel pezzo. Non si guarda tanto per il sottile, l’obiettivo è nobile: liberare risorse per crescita e occupazione. Ma attenzione a non sottovalutare le insidie, il pericolo di fare a brandelli la credibilità, lo standing creditizio del paese, i bilanci delle banche e la fiducia degli investitori.

La gamma delle operazioni una tantum per la riduzione del debito pubblico è vasta come ampio è il rischio di perdere la faccia sui mercati. La forma più classica e attendibile è la privatizzazione, la vendita delle partecipazioni azionarie in mano allo Stato: l’incasso rimpolpa il fondo di ammortamento dei titoli di Stato, usato dal Tesoro per rimborsare i bond in scadenza. L’impatto sul debito è immediato, lo stock cala all’istante, la credibilità resta elevata. Ma tra il 1992 e il 2000 lo Stato ha dismesso il grosso delle partecipazioni (oltre 180mila miliardi di vecchie lire): nel febbraio 2012 Mediobanca ipotizzava 50 miliardi di euro aggiuntivi ma la cifra si è sgonfiata. Non rimangono tanti gioielli di famiglia. L’attuale programma di privatizzazioni del Tesoro vale lo 0,7% del Pil l’anno (2014-2017 con gli immobili): annovera Poste, Enav, Fincantieri, Cdp reti, Rai way, STMicroelectronics, Ferrovie, altre quote di Eni ed Enel, il piano sta andando avanti, si fa, si farà. Ma le grandi aspettative sono riposte su un altro terreno, più scivoloso, quello delle municipalizzate: piuttosto che agli incassi si mira ai risparmi perché in molti casi si tratta di liquidare, non dismettere. La privatizzazione qui si trasforma in liberalizzazione, lo Stato arretra, promette maggiore efficienza e concorrenza. Ma chi ci ha già provato mette in guardia gli ottimisti dalle insidie del diritto societario, dall’ingente spesa legale per colpa di liti e cause, dai tempi incredibilmente lunghi per chiudere con il passato.

L’asticella delle aspettative si alza di più con la dismissione degli immobili pubblici. Ripetutamente agli italiani e agli stranieri viene detto che il patrimonio immobiliare dello Stato vendibile, in gran parte oramai in mano agli enti locali e alla Difesa, vale fino a 400 miliardi ma la cifra rischia di essere gonfiata. Un censimento ufficiale ed esaustivo non è stato ultimato: molti enti locali non sanno quali e quanti immobili hanno e con quale valore di mercato. Vendere tutto e subito comunque non si può: non c’è una domanda adeguata (neppure straniera) che possa assorbire tanta offerta senza provocare il crollo dei prezzi e i tempi restano biblici per il cambio di destinazione d’uso. Servono risorse upfront che non ci sono, come per smaltire l’amianto. Per velocizzare la vendita degli immobili come con una bacchetta magica rispunta sempre la “spv” (la società veicolo fuori dal perimetro della pa, contabilmente fuori dai conti pubblici).

Fare cassa in questo modo è molto complicato, si torna alle cartolarizzazioni, al sale & lease-back (affitto) redditizie per le banche d’affari che offrono consulenza: la spv in teoria compra un portafoglio di immobili (tra i 100 e i 300 miliardi?) da Stato ed enti locali al fine di gestirli per venderli o valorizzarli con la messa a reddito (affitti e concessioni). La spv acquista gli immobili con i soldi incassati dal collocamento sul mercato (a risparmiatori o investitori istituzionali) di quote o bond o pseudo-azioni: attira fondi promettendo rendimenti attraenti (dal 5% in su?) purché il portafoglio di immobili generi vero reddito. Questa sorta di mattone-bond può funzionare su portafogli snelli e se lo Stato e gli enti locali si prestano a pagare un affitto: il debito pubblico migliora ma il deficit rischia di peggiorare perché i rendimenti di questi nuovi strumenti di finanza strutturata, per attrarre domanda, non possono essere inferiori a quelli dei titoli di Stato. Il trasferimento di patrimonio immobiliare pubblico dallo Stato alla spv, inoltre, rafforza la solidità della società-veicolo ma rende meno solidi (meno garanzie, meno appetibili) i titoli di Stato in circolazione.

Resta la tentazione di far scendere in campo nel ruolo di acquirenti i grandi portafogli italiani, come le compagnie di assicurazione, i fondi pensione e la Cdp. Ma questi investitori sono il mercato, sono esigenti sul rischio/rendimento, sulla tempistica, sulla trasparenza, sull’affidabilità e hanno vincoli di bilancio. La Cassa, la più gettonata nei progetti taglia-debito, ha 147 miliardi di liquidità (fine 2013) parcheggiati sul conto di Tesoreria dello Stato. Questa liquidità però serve in gran parte, va a fronte di oltre 240 miliardi di buoni postali, strumenti a vista in quanto il sottoscrittore può rivenderli alla Cdp in qualsiasi momento con rimborso del capitale alla pari. La Cassa deve rispettare ratios patrimoniali e ha limiti nell’investimento in azioni.

Oltre agli immobili, nel taglia-debito si tirano spesso in ballo le riserve auree della Banca d’Italia: ma non si possono toccare perché «costituiscono parte integrante delle riserve dell’Eurosistema insieme a quelle conferite alla Bce, sono una garanzia di solvibilità». Se invece l’Italia dovesse chiedere aiuto all’Esm, in forma di linea precauzionale, potrebbe contare su una potenza di fuoco congiunta dei due fondi-salva Stato da 450 miliardi e ambire alle OMTs e il QE, gli acquisti della Bce. Ma nessuno al mondo vuole che l’Italia chieda aiuto e per evitarlo il taglia-debito azzarda la ristrutturazione “soft”: c’è chi propone di offrire ai sottoscrittori, tramite il farraginoso processo delle assemblee degli obbligazionisti, la facoltà di scambiare i BTp con altri bond con cedole diverse e soprattutto scadenze più lunghe. Questo swap può interessare i privati (che detengono meno del 10% dei titoli di Stato) e non può riguardare le banche italiane che detengono oltre 400 miliardi di titoli di Stato, acquistati con i prestiti LTRO della Bce che vanno restituiti nel 2015 (o TLTRO fino al 2018). Le banche non possono scambiare BTp con nuovi titoli a 30 anni. E poi, se vacillano i titoli di Stato, vacillerebbe l’intero sistema bancario.

L’Eurozona dovrebbe risolvere per tutti il “debt overhang” creando un fondo dove far confluire quella quota di debito pubblico dei 18 Stati membri che va oltre il 60% del debito/Pil: la “ristrutturazione” sarebbe silente, sostituire i vecchi titoli di Stato con nuovo debito europeo a scadenza extra-lunga, tassi bassi. Sarebbe “mascherata”, senza lo spettro di default e PSI (private sector involvment): per arrivare a tanto, l’Italia dovrebbe garantire il pareggio di bilancio, il trasferimento di asset pubblici e un flusso di entrate tributarie. Ne varrebbe la pena.  

Taglio da 200 miliardi al debito pubblico in tre mosse

Taglio da 200 miliardi al debito pubblico in tre mosse

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Nel maggio 2005, in tempi non sospetti e un debito/Pil al 105,8%, Il Sole 24 Ore ruppe il ghiaccio con un’intervista al Prof. Guarino che ipotizzava una “sforbiciata” del debito pubblico da 400 miliardi: l’idea destò scalpore. Oggi trasferire immobili, crediti o partecipazioni in holding fuori dal perimetro della pa è un’operazione che affascina, allo studio su molti tavoli. Lo scorso marzo Il Sole 24 Ore ha rilanciato una proposta in tre mosse da 200 miliardi per ridurre il debito: il mattone-bond da 60 miliardi, un ritocco contabile su Efsf-bond da 45 miliardi, privatizzazioni e calo strutturale con avanzo primario per 100 miliardi.

Poter ridurre il debito pubblico dall’oggi al domani per riportarlo in un solo colpo dal 135% almeno sotto il 100% (all’epoca Guarino intendeva passare dal 105% al 70%) è un sogno nel cassetto di tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, compreso quello attuale. L’obiettivo appare alla portata perché il patrimonio dello Stato, tra asset immobiliari, crediti e partecipazioni, è estremamente ricco e variegato, senza contare ovviamente in questo calcolo il patrimonio dei beni culturali.

Sono proprio le dimensioni elefantiache dello stock del debito e la complessità degli asset da dismettere o da valorizzare a non consentire scatti da gazzella. Ecco perché il Sole-24 Ore ha proposto un pacchetto di interventi articolato in tre mosse, categoricamente all’interno del quadro di una gestione dei conti pubblici virtuosa (ma estremamente lenta) che fa leva sull’avanzo primario e l’azzeramento del deficit.

Il primo passo è la privatizzazione concentrata soprattutto nel mondo delle municipalizzate. Un processo che attiverebbe anche risparmi da 800 milioni l’anno. Il secondo intervento è sugli immobili. Il Tesoro ha creato Invimit, una Sgr immobiliare dello Stato: si tratta di uno strumento di mercato dal quale non ci si possono aspettare scatti felini perché la matassa da sbrogliare è quella degli enti locali. Per velocizzare la riduzione del debito, il mattone-bond (proposto dal Sole-24 Ore già nel maggio del 2013) sarebbe realizzabile in tempi ragionevoli, purché circoscritto a un portafoglio di immobili dello Stato smobilizzabili con modalità relativamente semplici, come quelli a solo uso governativo.

Si tratta di trasferire a una società-veicolo questi asset per 60 miliardi: la spv colloca al risparmiatore privato (e forse anche agli investitori istituzionali) quote o azioni (con un trattamento fiscale agevolato o un premio per chi acquista al collocamento e detiene fino a scadenza come nel caso del BTp Italia) e utilizza l’incasso per acquistare gli immobili riducendo il debito pubblico per questa entità.

La remunerazione delle quote o delle azioni verrebbe garantita dal pagamento dell’affitto che lo Stato andrebbe a pagare sugli immobili. Il taglio del debito pubblico non verrebbe abbinato a una contestuale riduzione degli interessi che si pagano ora sul debito: questo deriva dalla formula del “sale-and-lease back” e di tutte le operazioni che mirano a sostituire un BTp con un qualsiasi bond o quota di un fondo o altro strumento d’investimento emesso da una società posta fuori dal perimetro della pubblica amministrazione e non contabilizzata nel debito pubblico: a qualsiasi prodotto finanziario innovativo deve corrispondere un rendimento appetibile, immediato e sicuro per invogliare lo scambio con i BTp. I rendimenti dei titoli di Stato in questo momento sono estremamente bassi e l’investitore privato è a caccia di investimenti sicuri con una remunerazione più elevata rispetto ai BoT e BTp: è un buon momento per proporre alternative, ma lasciare il certo (la cedola di un titolo di Stato) per l’incerto (il dividendo o il coupon di una spv) è un passo da gigante per il risparmiatore.

La terza operazione taglia-debito proposta dal Sole è di natura puramente contabile e vale almeno una quarantina di miliardi: si tratta di trasferire all’Esm le passività dell’Efsf in quanto i bond di quest’ultimo (per una regola Eurostat) gravano sui debiti pubblici nazionali a differenza di quelli del meccanismo di stabilità. La quota degli Efsf bond e dei prestiti bilaterali alla Grecia ammonta ora a 45,6 miliardi per l’Italia. Per consentire questo trasferimento, l’Esm non deve avere bisogno di un aumento di capitale (questo graverebbe sui conti pubblici degli Stati azionisti): in alternativa si possono trasferire asset a garanzia. Nel contesto di questo maquillage, l’Europa potrebbe decidere di utilizzare l’Esm – veicolo per ora mirato al salvataggio degli Stati in crisi e in prospettiva alle ricapitalizzazioni delle banche – anche per finanziare con una sorta di “eurobond” le infrastrutture e gli investimenti per la crescita: e questo avrebbe un impatto indiretto sui conti pubblici nazionali, alleviandoli in parte dal costo delle spese produttive.

Il Sole-24 Ore ha rilanciato altre proposte taglia-debito a firma di Paolo Savona e gli EuroUnionBond ideati da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio. Un’operazione di peso per il debito pubblico porta la firma di Renato Brunetta, alla quale hanno collaborato Paolo Romani, Luigi Casero e Guido Crosetto e i professori Francesco Forte, Rainer Masera e Paolo Savona che arriva a tagliare fino a 400 miliardi in cinque anni (partendo da 100 miliardi dalla vendita di beni pubblici (15-20 miliardi l’anno); 40-50 miliardi dalla costituzione e cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute in Svizzera. Il tutto con l’emissione di speciali obbligazioni con durata 5/10 anni e una opzione (warrant). Non da ultimo, Mediobanca ha proposto anche il trasferimento di asset alla Cassa depositi e prestiti (50 miliardi) e l’uso delle riserve auree della Banca d’Italia.