Italia

Acquisti online: nel 2016 italiani al terz’ultimo posto in Europa

Acquisti online: nel 2016 italiani al terz’ultimo posto in Europa

Negli ultimi 12 mesi solo il 29% dei cittadini italiani di età compresa tra i 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al terz’ultimo posto di questa particolare classifica europea, al pari di Cipro e appena sopra Bulgaria (17%) e Romania (12%). Ai vertici della graduatoria 2016 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (83%), Danimarca (82%), Lussemburgo (78%), Svezia (76%) e Germania (74%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (42%) e i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (40%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 18% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni e il 7% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni.

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 6% ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro.

Nell’ultimo anno i beni più acquistati online dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (12%), vestiti e articoli sportivi (11%), articoli casalinghi (8%), libri e abbonamenti a riviste (8%), attrezzatura elettronica (5%), biglietti per eventi (5%), film e musica (3%). Curiosamente, solo il 3% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di software per computer o per servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…).

«Questi dati fotografano un ritardo evidente dell’Italia nell’e-commerce, conseguenza anche del ritardo delle nostre infrastrutture informatiche» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Secondo i dati di netindex.com, siamo 93esimi al mondo per velocità di download domestica, dopo la Grecia. In Italia la banda larga raggiunge potenzialmente il 99% dell’utenza. Peccato che si tratti di una tecnologia ormai superata se confrontata con quelle più recenti – e assai più rapide – come la Nga (Next Generation Access), che in Italia copre solo il 21% del territorio rispetto al 62% della media Ue. I limiti e la sostanziale inefficienza della nostra rete infrastrutturale si pongono come principale fattore di freno, per le nostre aziende, per quanto riguarda gli scambi commerciali con il resto del mondo. A ciò si aggiunga che il sistema Italia nel suo complesso risente pesantemente della mancata capacità di usare i fondi europei dedicati alle infrastrutture: un misero 12%».

E-business: soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi

E-business: soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi

Soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi: un dato in leggero aumento rispetto al 6,7% del 2015 e al 5,3% del 2014 ma comunque nettamente inferiore alla media degli altri paesi europei (17,80%). Il nostro paese è al terzultimo posto in Europa, seguito soltanto dalla Romania e dalla Bulgaria dove le imprese che nel 2016 vendevano online erano rispettivamente il 7,4% e il 5,4%.  Al primo posto nell’utilizzo commerciale della Rete si collocano le imprese irlandesi (30,3%), segue la Danimarca con il 27,7% di imprese che vende online, la Svezia (26,8%) e la Repubblica Ceca (26,6%). Rispetto ai loro principali competitor, le aziende italiane perdono nettamente il confronto anche con le imprese tedesche (26,2%), britanniche (19,40%), spagnole (19,10%), francesi (16,6%) e addirittura greche (10,2%).

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In termini di valori degli scambi, in Italia le transazioni commerciali online costituiscono soltanto l’8,8% del totale. Peggio di noi in Europa fanno soltanto Romania, Lettonia, Grecia, Cipro e Bulgaria. Anche in questo caso risultiamo nettamente sotto la media europea (16,4%) e molto distanti dalle grandi economie: Regno Unito (19%), Francia (16,7%) e Germania (14,4%). Su tutti spicca comunque il dato dell’Irlanda (35,1%), che si conferma un’economia particolarmente aperta al mercato digitale. Seguono il Belgio, dove le transazioni online rappresentano il 31,3% del valore totale delle transazioni effettuate,  la Repubblica Ceca (30,5%) e la Norvegia (24%).

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Elaborando i dati Eurostat, si osserva ad esempio come al settore ICT appartengano soltanto il 2,9% delle nuove imprese nate in Italia nel 2014, per un totale di 9.600 nuovi posti di lavoro. Mentre nel Regno Unito, in quello stesso anno, sono state invece l’8,4% per complessivi 45mila nuovi occupati.

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La buona e la cattiva spesa pubblica

La buona e la cattiva spesa pubblica

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica in Italia ha rappresentato uno strumento fondamentale per sostenere l’economia in anni di caduta del PIL. Questo centro studi più volte ha sottolineato l’importanza di ridurre l’impegno pubblico. Purtroppo è un fatto che l’impegno pubblico negli ultimi 15 anni sia aumentato significativamente, ben oltre quanto il pubblico si possa immaginare.

Entrate o uscite?

Spesso le parte in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica è troppa o incide solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata o che abbiamo per fortuna servizi pubblici di prima qualità; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica. La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il PIL. Questa è una misura efficace per l’agone politico ma poco significativa perché non dice alcune cose importanti: primo fra tutte, chi contribuisce alle entrate, le imprese o i dipendenti, i consumi o i redditi, i ricchi o i poveri; secondo, non fornisce alcuna indicazione su come verranno utilizzate queste risorse, se per ridurre il debito, per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti o funzioni obsoleti se non dannosi.

Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica. E’ qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche (nazionali, regionali o locali) per fronteggiare il cambiamento. Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generali dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT). Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i CPT danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato.

Quanto incide la spesa?

Per quanto riguarda la spesa, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: vengono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi ad una controparte. Così, se andiamo a vedere com’è variata la spesa pubblica negli ultimi 10 anni, ci accorgiamo di un suo aumento sia in termini assoluto che in termini pro-capite (tabella 1).

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Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è crescita di più di €1.600. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del PIL e sulla crescita della spesa pubblica. La tabella 2 mette ben in luce qual è il contributo della variazione della spesa sulla crescita del PIL (1).

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Nel confronto fra le variazioni del PIL e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del PIL sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuto una crescita superiore al 2,5%.

Troppo pubblico?

Ben venga, a parere di chi scrive, la spesa pubblica se ha una funzione contro ciclica di tipo keynesiano: quando i privati non generano reddito, l’intervento dello Stato a sostegno della domanda può essere funzionale alla ripresa economica. Intervento che però deve essere modulato e ben indirizzato; in caso contrario il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica, una dipendenza difficile da eradicare (tabella 3). Un dato su tutti: come già accennato, mentre la spesa pubblica pro-capite aumentava di €1600 fra il 2005 e il 2014, il PIL pro-capite cresceva della metà.

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Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche (una distinzione utile più al ragionamento che corretta dal punto di vista sostanziale) si è progressivamente ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%.
Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%.

Conclusioni

La presenza della spesa pubblica come generatore del PIL è maggiore di quanto si possa attendere. Questa considerazione deve far riflettere quella qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica e tecnica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati. Per questo l’utilizzo dei CPT, insieme ai molti altri importanti strumenti messi a disposizione del pubblico negli ultimi anni (un plauso ai vari enti che si sono prodigati per aumentare la trasparenza della cosa pubblica), rappresentano un valido strumento per sminare diversi luoghi comuni sul ruolo dello Stato nella nostra economia.


(1) Ricordiamo che il PIL è formato dalla somma di alcune voci che caratterizzano l’impiego di risorse in un Paese. Ricordando l’equazione principale della macroeconomia che viene insegnata il primo anno di ogni corso di laurea in economia, il PIL è dato dalla somma di: consumi, investimenti privati, spesa pubblica (consumi e investimenti pubblici), bilancia dei pagamenti. Ove una componente si riduca, per mantenere costante il valore del PIL è necessario che aumenti un’altra componente

Giovani disoccupati e NEET: per l’Italia record negativo in Europa

Giovani disoccupati e NEET: per l’Italia record negativo in Europa

Dal 2007 al 2015 la disoccupazione giovanile in Italia è aumentata di 17,4 punti percentuali, passando dal 21,4% (ultimo trimestre 2007) al 38,8% (ultimo trimestre 2015). Nello stesso periodo di tempo la categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione, è inoltre cresciuta di 7,4 punti percentuali (passando dal 19,5% al 26,9%). In entrambi i casi il nostro Paese si colloca ai gradini più bassi nelle rispettive classifiche a livello europeo. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, su elaborazione di dati Ocse.

Nel periodo di tempo considerato, la crescita percentuale degli italiani di età compresa tra i 15 e i 24 anni che sono senza lavoro (ma che sarebbero disponibili a lavorare e che hanno effettuato almeno una ricerca attiva di lavoro nelle ultime quattro settimane) risulta superiore a quella di quasi tutti gli altri Paesi europei. Peggio di noi hanno fatto solo Spagna (+27,4 punti percentuali, passata dal 19% al 46,4%) e Grecia (+26,5 punti, passata dal 22% al 48,5%).

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L’Italia fa molto peggio della media dei 28 Paesi dell’UE – in cui il tasso di disoccupazione giovanile a fine 2015 era del 19,7% (+4,4 punti rispetto al 2007) – e perde il confronto con tutti gli altri competitor europei. In particolare con Irlanda (+11,1 punti percentuali, passata dal 9,3% al 20,4%), Portogallo (+8,5 punti, passato dal 23% al 31,5%), Francia (+6,0 punti, passata dal 18,5% al 24,5%), Gran Bretagna (-0,3 punti, passata dal 13,7% al 13,4%) e Germania (-4,3 punti, passata dall’11,3% al 7%).

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Variazione tra il tasso di disoccupazione giovanile in punti percentuali del 2007 e quello del 2015

Preoccupano anche i dati relativi alla categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione. Osservando i dati Ocse si scopre infatti che nella classifica siamo il Paese dell’UE con il più alto tasso di inattività giovanile per quanto riguarda l’anno 2015. Tra il 2007 e il 2015 la percentuale di Neet è cresciuta in Italia di 7,4 punti (passando dal 19,5% al 26,9%), con un incremento inferiore soltanto a quello registrato in Grecia (+8,3 punti, passata dal 16,4% al 24,7%).

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È vero che nello stesso periodo di tempo l’incremento percentuale dei Neet è un dato comune a tutta l’Europa (il tasso medio 2015 nell’UE a 28 Stati è del 16%, +1,3 punti rispetto al 2007) ma in tutti gli altri Paesi si registra una crescita del fenomeno inferiore a quella italiana quando non addirittura un’inversione di tendenza. Nel primo gruppo vanno inseriti ad esempio Spagna (+6,8 punti percentuali, passata dal 15,9% al 22,7%), Francia (+4,3 punti, passata dal 12,9% al 17,1%), Irlanda (+2,1 punti, passata dal 14,5% al 16,6%) e Portogallo (+1,9 punti, passato dal 13,2% al 15,1%). Del secondo gruppo, invece, fanno parte tra gli altri Gran Bretagna (-1,0 punti, passata dal 14,6% al 13,6%) e soprattutto Germania (-3,5 punti, passata dal 12,3% all’8,8%).

Variazione tra la percentuale di NEET del 2007 e quella del 2015

Variazione tra la percentuale di NEET del 2007 e quella del 2015

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Quattordici errori su quindici: con 12 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2016. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse e con le previsioni per l’anno in corso elaborate dal Fondo Monetario Internazionale.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Con la previsione di crescita dell’1,2% per il 2016 (a fronte di una stima del FMI che si ferma a +0,9%), siamo al sesto anno di fila in cui il governo prevede una crescita superiore a quella che poi effettivamente si registrerà. Dal 2011 ad oggi, infatti, l’esecutivo italiano, in sede di predisposizione del Documento di Economia e Finanza ha sbagliato le sue previsioni, sovrastimandole per cifre che vanno dallo 0,3% di quest’anno al 4,1% del 2012.

Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che purtroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 15).

«Il fatto che da sei anni di fila, sistematicamente, sovrastimiamo la nostra crescita – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – è preoccupante. Sulle ipotesi di crescita, infatti, si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

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Occupazione: 72 province italiane ancora sotto i livelli pre-crisi. Nel 2015 perdono posti di lavoro Verona, Padova, Monza e Firenze

Occupazione: 72 province italiane ancora sotto i livelli pre-crisi. Nel 2015 perdono posti di lavoro Verona, Padova, Monza e Firenze

In Italia, dal 2014 al 2015, il numero degli occupati è passato da 22.278.917 a 22.464.753, con una crescità di 185.836 unità in valore assoluto e dello 0,83% in termini percentuali. Questo leggero aumento dell’occupazione, però, non si è distribuito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Secondo un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro”, su dati Istat, tra le 110 province del nostro Paese 67 hanno visto salire il numero degli occupati nel 2015, mentre 43 hanno conosciuto un arretramento rispetto ai livelli occupazionali del 2014.

In cima alla graduatoria delle province con il migliore saldo positivo, si segnalano Milano (+28.167) e Torino (+16.846), che sono due tra le cinque province del Nord nelle prime 15 posizioni, insieme a Bergamo (+9.828), Vicenza (+9.230) e Genova (+9.039), rispettivamente al sesto, nono posto e decimo posto. Ben rappresentato anche il Mezzogiorno d’Italia, con Cosenza (+11.783) e Trapani (+10.533) in terza e quarta posizione, davanti a Bari (+9.753), Palermo (+9.542), Salerno (+8.590) e Sassari (+8.231), rispettivamente al settimo, ottavo, dodicesimo e tredicesimo posto. La provincia del Centro con l’aumento dell’occupazione più marcato dal 2014 al 2015 è Lucca (+9.882) in quinta posizione, davanti a Frosinone (+8.639), Pistoia (8.226) e Perugia (+7.950), rispettivamente all’undicesimo, quattordicesimo e quindicesimo posto della classifica. Fuori dalle prime quindici posizioni, ma comunque con un saldo occupazionale positivo, tra le province maggiori segnaliamo Venezia (+7.909), Cagliari (7.446), Napoli (7.349), Lecce (+6.698), Roma (+4.538) e Catania (+3.602).

In fondo alla graduatoria, invece, spiccano due province del Nord-Est con saldo fortemente negativo – Verona (-15.221) e Padova (-11.589) – appena davanti a Monza e della Brianza (-11.289). Male, al Nord, anche Varese (-6.057), Brescia (-4.260), Udine (-3.714), Mantova (-2.030), Treviso (-1.909) e Rovigo (-1.705). La performance peggiore al Sud è quella di Catanzaro (-8.683), ma arretrano sensibilmente rispetto al 2014 anche Reggio Calabria (-4.956), Agrigento (-3.541), Caserta (-3.447), Barletta-Andria-Trani (-3.289), Vibo Valentia (-3.006), Crotone (-2.512) e Avellino (-2.466). Al Centro, infine, la graduatoria è chiusa da Firenze (-9.325), che fa peggio di Pescara (-6.091), Latina (-4.878), Pesaro e Urbino (-4.332), Parma (-3.534) e Bologna (-1.438).

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Il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha anche analizzato il saldo occupazionale dal 2007 al 2015 per effettuare una comparazione con i livelli pre-crisi. In questo caso i numeri di alcune province, create dopo il 2007, sono stati aggregati per rendere i dati omogenei (Barletta-Andria-Trani con Bari e Foggia; Fermo con Ascoli Piceno; Milano con Monza e Brianza; tutte le province della Sardegna).

Rispetto alla situazione pre-crisi, su 99 casi esaminati (il numero non corrisponde alle 110 province italiane proprio per l’aggregazione di cui sopra) solo 27 sono tornati sopra al livello occupazionale del 2007. Negli altri 72 casi, invece, il dato del 2015 è ancora inferiore – a volte in modo sensibile – rispetto a quello del 2007.

La performance migliore è quella della provincia di Roma, con un saldo positivo di 163.100 unità, molto davanti a Milano con Monza e Brianza (+31.207), Firenze (+17.326), Bolzano (16.744) e Viterbo (+13.302). Bene, al Nord, anche Pavia (+13.142), Trento (+10.696), Lodi (+4.928), Alessandria (+3.956) e Verona (+2.217). Al Centro emergono i risultati di Rimini (+11.475), Pisa (+8.568), Forlì-Cesena (+7.564), Livorno (+6.474) e Bologna (+5.069). Mentre tra le province del Sud l’unica ad avere un saldo leggermente positivo rispetto al 2007 è Brindisi (+591).

Nel Mezzogiorno d’Italia, al contrario, abbondano le province con un saldo occupazionale negativo rispetto agli anni pre-crisi. Particolarmente significativi i dati di Napoli (-65.460), Barletta-Andria-Trani più Bari e Foggia (-62.186), Palermo (-41.012) , Cosenza (-29.239) e Messina (-28.455). È molto negativa anche la performance delle province sarde che, aggregate, perdono 40.862 posti di lavoro rispetto al 2007. Al Nord, le province con il peggiore saldo occupazionale sono Torino (-23.356), Padova (-21.305), Varese (-17.344) e Udine (-15.385). Mentre al Centro spiccano, in senso negativo, Pesaro e Urbino (-17.369), Ferrara (-14.767) e Modena (-9.598).

La crisi, insomma, sembra aver ulteriormente ampliato il divario tra le aree economicamente più avanzate del Paese e quelle – soprattutto al Sud –che invece sembrano ancora stentare nel riprendersi dalla crisi economica cominciata ormai otto anni fa.

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Crisi e salari in Italia

Crisi e salari in Italia

di Giuseppe Pennisi*

Quale è stato l’andamento dei salari in Italia da quando è iniziata la crisi? Gran parte dell’informazione giornalistica è necessariamente di parte in quanto basata su dati parziali in cui spesso il breve periodo viene estrapolato in medio e lungo termine.

Quindi è importante un lavoro della Banca d’Italia on line dalla fine della prima settimana di marzo: l’Occasional Paper No 289 Wages and Prices Setting in Italy During the Crisis: The Firms Prespectives. Ne sono autori Francesco D’Amuro, Silvia Fabiani, Roberto Sabbatini, Raffaella Tartaglia Porcini, Fabrizio Venditti, Elena Viviano e Roberto Zizza – tutti del servizio studi dell’istituto di Via Nazionale. Un lavoro di équipe che si basa su due indagini condotte del network sulle dinamiche dei prezzi e dei salari del Sistema Europeo di Banche Centrali (Sebc) , una “rete”, quindi di economisti dei servizi studi delle Banche centrali nazionali dell’eurozona tutti impegnati in ricerche su temi analoghi, utilizzando metodi uniformi, nonché metodi di rilevazioni e questionari armonizzati per analizzare le più importanti trasformazioni nei mercati del lavoro nazionali. La “rete” ha condotto due indagini empiriche (Stato per Stato) nel 2007 e nel 2009 ed una terza nel 2013, i cui risultati sono disponibili da pochi mesi. Il lavoro pubblicato on line riguarda solamente l’Italia. È auspicabile che vengano diffusi anche gli altri studi Paese.

Il lavoro prende l’avvio da una considerazione specifica all’Italia: il debito sovrano ha colpito severamente l’economia italiana, causando un collasso della domanda interna, un aumento dell’incertezza e difficoltà di accesso alla finanza internazionale. Le imprese hanno risposto riducendo l’input di lavoro (aggiustandone i margini sia di intensità – orari di lavoro – sia di livello di occupazione) piuttosto che riducendo i salari nominali o reali. Tuttavia, le trattative e la prassi di determinazione delle retribuzioni sono state influenzate dal quadro economico generale: la proporzione di lavoratori in imprese che sono ricorse a blocchi dei salari, ed anche a riduzioni, è gradualmente aumentata dal 2010 sino a riguardare il 17% dei lavoratori dipendenti nei settori presi in esame dall’inchiesta. Inoltre, numerose imprese hanno adattato le loro strategie di prezzi aggiustandoli più frequentemente che nel passato (spesso abbassandoli a ragione di una maggiore concorrenza).

Le nuove tecnologie  inducono a prospettare un aumento della produttività del lavoro e, quindi, dei salari reali? Non sembra suggerirlo l’esperienza americana, quale analizzata da Chad Syverson delle Booth School of Business della Università di Chicago nello studio Challenges to Mismeasurament: Explanation for the US Productivity Slowdown.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Palmieri (Forza Italia): “Ecco come recuperare il ritardo nell’e-commerce”

Palmieri (Forza Italia): “Ecco come recuperare il ritardo nell’e-commerce”

di Antonio Palmieri*

Il divario che separa l’Italia dal resto d’Europa nell’utilizzo dell’e-commerce deve essere spiegato soprattutto in termini culturali. Troppi italiani, in generale, ancora non conoscono le potenzialità del web. E dunque troppi imprenditori non riescono a comprendere la possibilità di sfruttare la rete come mezzo di comunicazione per accrescere il business della propria impresa o come mezzo per dare vita ad iniziative di commercio elettronico.

C’è poi un dato strutturale, rappresentato dal ritardo nella penetrazione della banda larga in Italia, che non deve essere sottovalutato. A questo fattore si accompagna la forte presenza di piccole e media imprese nell’economia italiana, che non di presta troppo all’ultilizzo dell’e-commerce: non parlo tanto di dimensioni, quanto di tipologia di business. In molti casi, queste imprese non possono permettersi di affrontare il costo principale dello sviluppo di un’attività di commercio elettronico, che è quello cognitivo, soprattutto in termini di tempo e attenzione.

Sarebbe interessante capire quali sono i settori merceologici in cui, in Italia, l’e-commerce è più sviluppato, magari confrontando questi dati con la situazione negli altri paesi europei. Un’analisi di questo tipo potrebbe suggerirci quali siano i settori sui quali potrebbe valere la pena cercare di incidere con investimenti di tipo culturale. In questo senso, da qualche anno alcune associazioni di categoria si stanno muovendo nella giusta direzione. Ma è arrivato il momento di passare dalla formazione all’azione.

Per quanto riguarda le istituzioni, è invece difficile pensare a interventi diretti per incidere sullo status quo. Qualche anno fa avevo proposto una misura che garantisse un minimo incentivo fiscale per le imprese che avessero aperto una propria piattaforma di e-commerce. Poi questa misura si è persa nel labirinto delle leggi di stabilità. Ma credo ancora che la strada degli incentivi fiscali sia quella giusta. Insieme, aggiungo, a campagne informative che raccontino le enormi potenzialità del commercio elettronico, progettate insieme alle associazioni di categorie e ai grandi player del mercato, che già offrono alcune soluzioni interessanti per le piccole e medie imprese.

Ma, ripeto, prima di tutto ci sono resistenze culturali da vincere. E questo è un lavoro molto complesso, che si può soltanto immaginare nel lungo periodo.

*responsabile Internet e nuove tecnologie di Forza Italia

Fedriga (Lega Nord): “Cifre impietose, Europa da rifondare”

Fedriga (Lega Nord): “Cifre impietose, Europa da rifondare”

di Massimiliano Fedriga*

L’analisi numerica su costi e benefici della presenza italiana nella comune casa europea negli ultimi 15 anni è impietosa: cifre che evidenziano un vero e proprio salasso per i cittadini, a fronte di ritorni modesti e comunque settoriali. Ma il fallimento dell’Unione Europea non va letto esclusivamente in questi pur preoccupanti e significativi dati, bensì anche nella totale incapacità di una struttura elefantiaca e sempre più lontana dalla gente di mettere in piedi strutture e servizi – penso ad esempio alla Politica Estera di Sicurezza Comune, alla gestione dei flussi migratori e alle politiche del lavoro – per far fronte alle necessità dei popoli anziché di quelle di qualche élite. E lo studio di ImpresaLavoro rappresenta in tal senso un chiaro campanello d’allarme sulla pressante urgenza di rifondare l’Europa ripartendo dalle persone, ponendole al centro di un progetto serio, condiviso e responsabile.

* capogruppo della Lega Nord alla Camera dei Deputati

Unione Europea: in quindici anni Italia contribuente netto per 72 miliardi

Unione Europea: in quindici anni Italia contribuente netto per 72 miliardi

In un momento in cui il livello della tensione tra istituzioni italiane e quelle europee sembra essere tornato ai massimi storici di qualche anno fa, i risultati di una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (su dati della Ragioneria generale dello Stato) ci ricordano come – dal 2000 ad oggi – il nostro Paese resti comunque un contributore netto dell’Unione Europea. Ciò significa che versiamo per il budget della Ue più risorse di quante poi ci vengono accreditate dai diversi programmi finanziati dall’Europa.

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Il saldo negativo con l’Europa non è, per l’Italia, una novità. L’analisi dei dati, però, dimostra una tendenza preoccupante. Se infatti il 2000 si era chiuso con una differenza di poco superiore al miliardo di euro, tra gli oltre 11 versati nelle casse di Bruxelles e i quasi 10 tornati nei confini della nostra economia, questa forbice si è andata progressivamente espandendo, fino a raggiungere i 4,2 miliardi del 2005 e i 7,3 miliardi del 2013 (17,1 in uscita e 9,8 in entrata). In totale, tra il 2000 e il 2014, l’Italia ha contribuito al budget europeo per una somma superiore ai 213 miliardi di euro, ottenendo erogazioni per poco più di 141.

Di questi 213 miliardi, secondo i conti della Ragioneria generale dello Stato, poco più di 22 (in media, circa 1,4 all’anno) sono quelli catalogati come “risorse proprie tradizionali”, cioè i dazi versati per l’esistenza di uno spazio doganale unificato; mentre quasi 45 (poco meno di 3 all’anno) sono quelli legati all’imposta sul valore aggiunto. Tutto il resto – circa 146 miliardi, poco meno di 10 all’anno – sono contabilizzati sotto la voce calcolata in base al reddito nazionale lordo.

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Tra le risorse finanziarie che l’Italia riesce a recuperare, la fetta più sostanziosa riguarda i 74 miliardi del FEAGA (Fondo Europeo Agricolo di Garanzia) che rappresentano più della metà dei 141 miliardi arrivati in Italia da Bruxelles negli ultimi quindici anni. Significativi anche i 35,7 miliardi del Fondo europeo di sviluppo regionale e i 15,3 miliardi del Fondo sociale europeo destinato agli interventi di sviluppo socio-economico. Il 61% delle risorse complessivamente trasferite in questi anni è insomma riferito ai settori dell’agricoltura e della pesca. Mentre il 25% è appannaggio del Fondo europeo di sviluppo regionale.

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