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Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri (+764mila) hanno “sostituito” quelli italiani (-640mila)

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri (+764mila) hanno “sostituito” quelli italiani (-640mila)

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri hanno “sostituito” quelli italiani. È questo il principale risultato di una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro su dati Istat ed Eurostat.

In Italia l’occupazione è in ripresa (+124.601 occupati rispetto al 2008). Suddividendo gli occupati totali per cittadinanza, quindi tra italiani e stranieri (UE ed extra UE), emerge però un effetto “sostituzione”: gli occupati stranieri dal 2008 al 2018 sono infatti aumentati da 1.690.090 a 2.455.003 (+764.913 unità, +45,3%) a fronte della riduzione degli occupati italiani da 21.400.258 a 20.759.946 (-640.312 unità, -3,0%). L’occupazione straniera negli anni della crisi ha quindi “sostituito” quella italiana, consentendo al numero totale di occupati di crescere nuovamente al di sopra dei livelli del 2008. Un ulteriore apporto di cittadini stranieri potrebbe quindi anche rendere più complessa la situazione occupazionale dei cittadini nazionali.

Considerando tra tutti i cittadini stranieri solamente quelli extra UE emerge una questione altrettanto significativa: l’Italia è tra i pochissimi Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Secondo i più recenti dati Eurostat (anno 2017), il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57,7%, un dato che si avvicina molto a quello della Croazia (59%) e che risulta nettamente inferiore alla media dell’Unione a 28 membri (68,1%). In tutta Europa soltanto la Grecia (53,6%) ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Germania (77,3%), Paesi Bassi (76,7%), Regno Unito (74,4%), Portogallo (67,8%), Irlanda (67,1%), Francia (65,8%) e Spagna (61,4%).

Guardando invece solamente alla percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto, dal penultimo al quattordicesimo posto: il nostro 59,1% risulta infatti largamente superiore alla media dell’Unione a 28 membri (54,6%).

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta della Repubblica Ceca (-0,8 punti percentuali), della Slovacchia (-0,9) e di Malta (-2,7). Un dato che stride con la media dell’Unione a 28 membri (+13,5 punti percentuali). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Spagna (+5,7), Irlanda (+6,5), Regno Unito (+13,3), Francia (+20,6), Germania (+25,0) e Paesi Bassi (+26,7).

«Ciò che veramente stupisce è che il recupero del livello occupazionale precedente la crisi sia imputabile solamente ai lavoratori stranieri, mentre gli occupati italiani sono ancora inferiori al livello di dieci anni fa» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Ed è anche sorprendente riscontrare che il tasso di occupazione dei residenti extra Ue sia superiore a quello dei nostri connazionali. Queste anomalie, almeno in parte, dipendono dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani

Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili (quelli del 2014), il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). In Europa, solo Grecia (49,3%) e Croazia (54,6%) hanno un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. Mentre sono più avanti di noi Spagna (56,6%), Francia (64,6%), Regno Unito (72,2%) e Germania (75,1%).

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Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, però, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto. Il nostro 56,7%, infatti, è sopra sia alla media Ue (53,2%) sia alla media dell’area euro (52,1%). E il 28° posto su 30, conquistato a stento dai lavoratori di cittadinanza italiana, diventa un 13° posto su 29 (per la Slovacchia non sono disponibili dati aggiornati) quando si tiene conto soltanto dei lavoratori extra-comunitari.

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Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Solo altri quattro Paesi europei oltre all’Italia, infatti, hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-6,5%), Lituania (-7,3%), Ungheria (-8,2%) e Cipro (-14,5%). In tutto il resto d’Europa, la differenza è a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame. In Spagna il tasso di occupazione degli spagnoli è superiore a quello dei cittadini extra-Ue dell’8,5%; nel Regno Unito la differenza è del 12,3%; in Francia e Germania si arriva, rispettivamente, al 19,6% e al 20,4%. In Italia, invece, il tasso d’occupazione dei lavoratori di cittadinanza italiana è inferiore dell’1,3% rispetto a quello dei lavoratori extracomunitari. Una differenza che sale addirittura al 7,2% quando si prendono in esame i lavoratori stranieri provenienti da un altro Paese europeo.

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«La cosa che veramente stupisce è il basso tasso d’occupazione dei nostri lavoratori» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Non è immaginabile una grande potenza industriale con numeri di questo livello. Ma in quadro economico così fragile e con una ripresa tanto debole, è anche sorprendente riscontrare che il tasso d’occupazione dei residenti extracomunitari sia addirittura superiore a quello dei nostri connazionali. Un’anomalia che, almeno in parte, dipende dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Più ottimisti che pessimisti, ma dopo sei anni di crisi siamo soprattutto attendisti

Più ottimisti che pessimisti, ma dopo sei anni di crisi siamo soprattutto attendisti

Daniele Marini – La Stampa

Stanchi e provati come dopo un lungo e tortuoso viaggio del quale ancora non si vede chiaramente il traguardo. Durante il tragitto, le condizioni di vita per molti sono peggiorate e l’orizzonte è sempre molto incerto, quasi imperscrutabile. Tuttavia, nello stesso tempo, si guarda al futuro con una qualche speranza, soprattutto con un atteggiamento di attesa disincantata, dopo tante disillusioni e mancate promesse. È il sentimento generale degli italiani che emerge dall’ultima rilevazione dell’indagine LaST (Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa). Potrebbe essere diversamente, dopo che sono trascorsi oltre sei anni dall’avvio conclamato della crisi economica? Dopo che, nel frattempo, abbiamo sperimentato in rapida successione quattro esecutivi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi)? Dopo che la disoccupazione è cresciuta a ritmi elevati e investito una parte consistente delle giovani generazioni, facendo diventare il lavoro (e con esso il senso del futuro) la preoccupazione maggiore degli italiani?

Evidentemente no, non potrebbe essere altrimenti. E questo anche a dispetto dei piccoli segnali recenti che hanno messo in luce qualche positività. Il numero degli occupati che – per il momento – ha conosciuto un lieve miglioramento. Il novero delle persone che hanno ricominciato a cercare attivamente un’occupazione. Le banche che segnalano una ripresa dei risparmi delle famiglie, ma che rimangono giacenti. Indicatori oggettivamente positivi, ma soggettivamente ancora non in grado di influenzare gli orientamenti. Perché la percezione determina la realtà. E ciò spiega – com’era plausibile ipotizzare – come mai gli 80 euro non sono finiti nei consumi, ma nei risparmi, in attesa di tempi più certi e migliori. Lo si può comprendere meglio se consideriamo come gli italiani percepiscono le loro condizioni economiche. Rispetto a tre anni fa, in generale, una leggera maggioranza (53,4%) ritiene che il proprio bilancio economico familiare sia rimasto sostanzialmente stabile. Fra questi, soltanto meno di un decimo (8,7%) l’ha visto aumentare. Per il 46,6%, invece, il reddito mensile disponibile in famiglia è diminuito.

Dunque, le risorse economiche disponibili per gli italiani quando è andata bene sono rimaste invariate e per una parte assai consistente sono andate peggiorando. Di sicuro, non abbiamo conosciuto alcuna mobilità economica, e quindi sociale, ascendente. I più penalizzati da questa situazione sono le donne, i 50-60enni, chi possiede un basso livello di studio e le persone ai margini del mercato del lavoro (disoccupati, pensionati e casalinghe). Se queste sono le condizioni economiche oggi, rispetto a tre anni fa, quali sono le prospettive? Quando si prevede di uscire da questa crisi? L’incertezza è l’elemento dominante.

Complessivamente, tre interpellati su quattro (75,1%) ritengono si dovrà aspettare almeno un anno e mezzo prima di uscire dalle difficoltà e fra questi ben il 68,2% vede la fine del tunnel oltre l’anno e mezzo. Pochi (10,2%) immaginano si debba aspettare al più solo un anno prima di conoscere prospettive migliori e una quota marginale (2,2%) intravede già segni di ripresa. Se a chi rinvia ad almeno un anno e mezzo l’attesa di un miglioramento aggiungiamo quanti non se la sentono di fare previsioni (12,5%), otteniamo che quasi i nove decimi della popolazione vivono nel day by day, privi di un orizzonte temporale definito: si naviga a vista, in assenza di una direzione precisa.

L’aspetto preoccupante è che questa indeterminatezza sul futuro sembra innervare in misura maggiore le prospettive economiche personali e familiari, più ancora di quelle del territorio in cui si vive, dell’Italia o dell’Europa. A immaginare che nel futuro prossimo la situazione economica conoscerà un miglioramento per il proprio nucleo familiare è in media il 42,1% degli italiani. Analogamente, il 61,1% fra gli intervistati ritiene che ciò accadrà per l’area di residenza, il 62,5% per l’Italia e il 46,3% per l’intera Europa. Dunque, si pensa (o si auspica) che l’economia del Paese possa riprendersi, ma si medita che le proprie condizioni faranno più fatica a risollevarsi. Una conferma indiretta a questa difficoltà a sognare un futuro positivo viene dal recente Prosperity Index 2014 (Legatum Institute) che mette a confronto 142 Paesi sull’idea di sviluppo futuro: l’Italia si colloca al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013.

Per provare a offrire una misura di sintesi, abbiamo creato un indicatore di fiducia sul futuro, sommando le prospettive di crescita economica per i diversi ambiti. Ne scaturiscono quattro profili prevalenti. Gli Ottimisti sono un terzo degli interpellati (34,3%) e annoverano chi, per tutte le dimensioni, ipotizza percorsi di miglioramento economico e, in proporzione, comprendono quanti sono oggi più in difficoltà (operai), i sessantenni o hanno avuto una diminuzione di reddito rispetto agli anni precedenti. Quindi, un ottimismo dettato dalla speranza. Il gruppo più cospicuo, però, è quello degli Attendisti (39,2%), quanti oscillano attorno a una condizione di stabilità o di leggero miglioramento. Il terzo gruppo è quello dei Preoccupati (21,7%): comprende ha una visione tendenzialmente pessimista per le condizioni economiche future, idea particolarmente diffusa fra le giovani generazioni e chi ha un titolo di studio elevato. Infine, troviamo i Pessimisti (4,8%), nucleo marginale che prevede un sostanziale declino generalizzato.

Fiducia e senso di un futuro possibile sono il motore dello sviluppo. Ma questi lunghi anni di difficoltà hanno intaccato l’aspettativa di realizzare un miglioramento per sé e per i propri familiari. Come se negli italiani si stesse incrinando la proverbiale capacità di adattamento alle difficoltà. E, in questa lunga traversata, avessero tirato un po’ i remi in barca.

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Le famiglie italiane tornano a risparmiare: lo fa il 33% del totale

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

«La riduzione dello stock di risparmio negli ultimi anni è stata importante e ora le famiglie stanno attivamente cercando di porvi rimedio». Il presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti introduce così i dati della consueta ricerca Ipsos alla vigilia della novantesima giornata del risparmio che si celebra oggi a Roma, presenti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e Antonio Patuelli presidente dell’Abi. Dati che, spiega, confermano come il valore del risparmio sia qualcosa di molto presente nel Dna degli italiani, soprattutto nei momenti difficili. Infatti nel 2014, per il secondo anno consecutivo, è cresciuta di quattro punti la quota di italiani che negli ultimi dodici mesi sono riusciti a risparmiare: la percentuale è passata dal 29% del 2013 al 33% attuale; contemporaneamente si è ridotta per il secondo anno di fila e in modo consistente la percentuale delle famiglie in saldo negativo di risparmio, dal 30% al 25 per cento.

Dalla ricerca Ipsos risulta anche che il mattone ha smesso di essere l’investimento ideale degli italiani. Solo il 24% continua ad essere affezionato all’investimento immobiliare rispetto al 35% del 2012 e al 70% del 2010 e la preferenza degli italiani per la liquidità è stabilmente elevata: riguarda 2 italiani su 3. Cresce invece, raggiungendo il nuovo massimo storico del 36%, la quota di chi reputa questo il momento di investire negli strumenti ritenuti più sicuri: risparmio postale, obbligazioni e titoli di stato.

Nel corso della presentazione della ricerca, al presidente dell’Acri viene anche richiesto un commento sull’esito degli stress test per le banche italiane. E Guzzetti sottolinea la solidità del sistema bancario italiano ed esprime soddisfazione per per il risultato di Intesa Sanpaolo (i dieci miliardi di eccedenza di capitale) che conferma il piano dell’ad Messina per quanto riguarda la remunerazione degli azionisti, tra cui figura la fondazione Cariplo. Ma poi non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalle scarpe: «Abbiamo avuto 15 banche sotto esame, di queste, due già sapevamo essere in difficoltà e la loro situazione è stata conclamata ora dalla Bce» afferma. «Guardando il sistema nel suo complesso, le banche italiane si sono difese bene». Certo, aggiunge «sarebbe stato meglio ancora una volta tenere fermi i criteri di Basilea 3, invece di annacquare qualche criterio nei test e favorire qualche banca tedesca che, altrimenti, forse non sarebbe finita in testa alle classifiche».

Il riferimento del presidente dell’Acri è esplicito a Commerzbank, che ha ancora il 17% di capitale in mano pubblica, e a Deutsche Bank, che ha fatto «un aumento di 9 miliardi di euro coperto dai cinesi». Guzzetti dice di augurarsi che «i problemi di Genova e Siena» si risolvano positivamente con soluzioni nel territorio e aggiunge: «Mi hanno stupito questi due italiani che si sono difesi» a proposito dell’imparzialità e omogeneità dei giudizi della Bce sulle banche europee. Si riferisce al presidente dell’Eba, Andrea Enria e a Ignazio Angeloni, responsabile del dipartimento per la stabilità finanziaria all’Eurotower: Guzzetti non li cita per nome ma conferma trattarsi di loro rispondendo ad un domanda diretta dei cronisti. «Queste dichiarazioni – afferma – mi hanno ricordato il detto excusatio non petita…»

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Rosaria Amato – La Repubblica

Più soddisfatti dei propri redditi ma solo perché hanno imparato ad accontentarsi di poco e a stringere la cinghia, fortemente delusi dall’euro ma europeisti perché prevale la sfiducia verso le istituzioni nazionali, più ottimisti ma solo perché si sono rassegnati: gli italiani ormai considerano la crisi economica come una situazione quasi stabile, si aspettano di venirne fuori almeno tra cinque anni.

Dall’indagine Ipsos-Acri, presentata come ogni anno alla vigilia della Giornata Mondiale del Risparmio, emergono diversi aspetti positivi, che farebbero quasi pensare alla “luce fuori dal tunnel” di cui nessuno negli ultimi mesi si azzarda più a parlare. Eppure, guardando meglio i dati del sondaggio, le percentuali positive in rialzo sembrano più frutto di adattamento a uno stile di vita decisamente peggiorato rispetto al passato che di un rinato ottimismo. Infatti l’87% degli italiani pensa che la crisi sia ancora “molto grave”. Però è in recupero la fiducia nelle prospettive personali: ottimista il 24% contro il 21% di sfiduciati, percentuali ribaltate rispetto al 2013. Gli italiani non se la prendono con l’Europa (rimane favorevole all’Unione il 51%), anche se il 74% si dichiara insoddisfatto dall’euro. Però le colpe della crisi sono attribuite ai politici di casa nostra: il 56% ritiene che la situazione attuale sia dovuta al malgoverno e alle mancate riforme, appena il 5% dà la colpa alla Ue. Inoltre gli italiani convinti che tra 20 anni essere nell’euro sarà un vantaggio salgono dal 47 al 52%. La sfiducia nella nostra classe dirigente è tale che la maggioranza degli intervistati dall’Ipsos, il 66%, è pronto a delegare la tutela del risparmio all’Unione Bancaria europea, anche se poi solo il 7% sa veramente di cosa si tratta.

Sulla gestione di consumi e risparmi le famiglie, così impoverite che una su quattro non riuscirebbe a far fronte a una spesa imprevista di 1000 euro, hanno da tempo attuato una strategia difensiva. Tutti, anche i più abbienti, hanno rivisto al ribasso i propri consumi: viaggi e vacanze sono stati ridotti dal 60% degli italiani, la frequenza dei ristoranti è calata per il 59%, quella agli spettacoli per il 55%, tagli anche nell’abbigliamento, solo la spesa per i farmaci è rimasta invariata.

Rispetto al 2013 è aumentata la percentuale di chi preferisce investire sulla qualità della vita attuale (42% contro il precedente 39%), anche se la maggioranza (54%) investe pensando al futuro. E infatti gli italiani continuano a risparmiare: il 46% dichiara di non dormire tranquillo se non mette qualcosa da parte, solo l’8% si dichiara allegramente cicala. Però l’utilizzo di questo risparmio è molto cambiato rispetto al passato: due intervistati su tre scelgono la liquidità, crescono i sottoscrittori di polizze assicurative e fondi pensione, risalgono lievemente titoli di Stato e anche le azioni. Ma soprattutto il mattone non ha mai avuto così poco appeal: se nel 2004 era la scelta preferita dal 70% degli italiani, adesso la percentuale è scesa al 24%, il minimo storico dall’inizio dell’indagine, il 2001.

Le mani sui risparmi

Le mani sui risparmi

Vittorio Malagutti – L’Espresso

Mettere le mani nelle tasche degli italiani passando dalla porta di servizio del loro conto in banca. Matteo Renzi e il suo governo hanno scelto di celebrare così la “Giornata mondiale del risparmio”, che cade, come ogni anno, il 31 ottobre. C’è poco da festeggiare, in effetti. Conti correnti e depositi vincolati, fondi d’investimento e gestioni patrimoniali, obbligazioni e dividendi. Con l’eccezione dei titoli di Stato e dei buoni postali, la legge di stabilità appena annunciata dall’esecutivo ha il suono sgradevole di una litania di nuove tasse per tutte le forme d’investimento. Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum. Questa volta, invece, la manovra riscrive per intero la tassazione delle rendite finanziarie.

La tagliola finirà per colpite anche la previdenza. con una sorprendente inversione di marcia rispetto al passato. Ricordate gli inviti ad accantonare risorse in vista di un avvenire sempre più incerto? Niente da fare, adesso il governo vuole aumentare il prelievo fiscale anche sui fondi pensione. Perfino la rivalutazione del trattamento di fine rapporto (Tfr), cioè la parte di futura liquidazione che il lavoratore sceglie di lasciare in azienda, sarà tassata come mai prima d’ora.

I provvedimenti messi nero su bianco nella legge di stabilità rischiano di avere un primo, paradossale effetto sul piano psicologico. In una fase d’incertezza senza precedenti, tra recessione e disoccupazione, le nuove imposte vanno ad amplificare i timori per il futuro prossimo venturo perché colpiscono il gruzzolo, grande o piccolo che sia, messo da parte dalle famiglie per fronteggiare gli imprevisti. E se aumenta l’insicurezza è difficile che gli italiani riprendano a spendere. Gli acquisti vengono rimandati in attesa di tempi migliori. Addio crescita economica, allora. Il motore del Pil non riparte e la recessione si trasforma in stagnazione, con il corollario del calo dei prezzi, cioè la deflazione. Tutto il contrario, insomma, di quanto va predicando il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che nello stimolo ai consumi vede l’antidoto migliore alla crisi.

«Bisogna spostare il peso del Fisco dal lavoro alle rendite». Questo il mantra dei renziani, che hanno sbandierato per mesi il taglio dell’Irap alle imprese annunciato dal governo e in buona parte rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di stabilità. Il premier non ha perso tempo. La scorsa primavera, da poco insediato a Palazzo Chigi, Renzi aveva già provveduto a smantellare la riforma della tassazione del risparmio varata a fine 2011 dal governo di Mario Monti. Allora la parola d’ordine era «semplificare». E così le aliquote. con l’eccezione di titoli di Stato e fondi pensione, furono unificate a quota 20 per cento. Non mancarono le correzioni al ribasso: l’imposta sui rendimenti dei conti correnti e dei depositi vincolati passò dal 27 al 20 per cento. Renzi invece ha di nuovo alzato l’asticella fino al 26 per cento. Con il risultato che, se la legge di stabilità verrà approvata nella versione attuale, alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5 per cento dei proventi.

Stangata? Dipende dai punti di vista. Davide Serra, il finanziere grande sponsor e consigliere del presidente del Consiglio, in passato si è più volte espresso a favore di un giro di vite ancora più pesante sulle rendite finanziarie. «L’aliquota andrebbe portata dal 20 al 30-35 per cento», ha dichiarato l`anno scorso in un’intervista il gestore del fondo Algebris, con base a Londra. Il governo per ora si è fermato a mezza strada, a quota 26 per cento. L’obiettivo dichiarato è quello di rastrellare almeno 3,6 miliardi di entrate supplementari nel 2015. Questa almeno è la cifra che compare nei documenti presentati dall’esecutivo.

Costretto a trovare nuove fonti di gettito per finanziare voci di spesa supplementari come gli 80 euro di sgravi Irpef, il ministro Padoan ha pensato bene di attingere a un serbatoio di risorse che la crisi ha fin qui intaccato solo marginalmente. Anzi, secondo lo studio più aggiornato della Banca d’Italia, a fine 2012 le attività finanziarie di proprietà delle famiglie italiane, pari a 3.670 miliardi di euro, erano addirittura cresciute del 4,5 percento rispetto all’anno precedente. Lo stesso non si può dire dei salari oppure dei profitti societari, che invece sono diminuiti per effetto del rallentamento dell’economia. Di conseguenza sono calati anche i proventi del prelievo fiscale su queste due categorie di redditi.

Va detto che negli ultimi anni la geografia del risparmio degli italiani è profondamente cambiata. I titoli di Stato, che offrono rendimenti ridotti ai minimi termini, ormai rappresentano poco meno del 5 per cento del portafoglio complessivo delle famiglie, contro il 20 per cento di una ventina di anni fa. D’altra parte, i fondi d`investimento hanno visto crescere a gran velocità la raccolta. Nei primi nove mesi del 2014 le nuove sottoscrizioni hanno raggiunto i 97 miliardi, quasi il doppio rispetto ai 55 miliardi dell’anno precedente. Secondo i calcoli della società di ricerche Prometeia, da inizio 2012 al primo trimestre 2014 le famiglie italiane hanno riversato circa 95 miliardi su fondi, polizze assicurative e prodotti previdenziali, riducendo di oltre 100 miliardi le loro attività sotto forma di Bot, Cct e Btp.

Non basta. Il boom delle Borse, almeno fino a settembre, ha anche garantito guadagni importanti ai risparmiatori che hanno puntato sulle azioni, direttamente oppure tramite i fondi. Festeggiano gli investitori, ma anche il Fisco, perché le plusvalenze della compravendita di titoli si trasformeranno in un gettito supplementare per l’Erario. E con il rialzo dell’imposta dal 20 al 26 per cento previsto dalla legge di stabilità i proventi per le casse dello Stato saranno ancora maggiori. Tutto questo, ovviamente, a condizione che i mercati non si avvitino al ribasso e che la manovra proposta dal governo Renzi arrivi al traguardo dell’approvazione parlamentare senza perdere per strada il previsto aumento delle aliquote.

Molto più ridotto, invece, sarà l’incasso garantito dal prelievo sui rendimenti dei conti in banca. I tradizionali depositi ormai offrono interessi su base annuale di molto inferiori all’uno per cento. Secondo una simulazione della Cgia di Mestre (Associazione artigiani e piccole imprese) l’aumento d’imposta dal 20 al 26 per cento si dovrebbe tradurre in un aggravio pari nella media a 93 centesimi, per un conto di 12 mila euro. Briciole, rispetto alle nuove tasse sui ricchi proventi del trading azionario o di quote di fondi comuni.

Il vero salasso a carico dei risparmiatori è un altro. Si chiama imposta di bollo, una sorta di mini patrimoniale sulle attività finanziarie. È stata introdotta nel 2012 sotto forma di un prelievo pari allo 0,1 per cento del valore di tutte le attività finanziarie (esclusi i conti correnti bancari) di proprietà di ogni singolo contribuente. L’aliquota è poi stata ritoccata due volte.Dapprima è salita allo 0,15 per cento (nel 2013) per poi raggiungere la soglia dello 0,2 per cento dall’inizio del 2014. Come dire che un portafoglio del valore di 50mila euro subirà un prelievo di 100 euro, il doppio rispetto a due anni fa. A questa somma vanno poi aggiunte le tasse da pagare sui rendimenti o sui guadagni realizzati con la compravendita di prodotti finanziari.

Particolare importante: l’imposta di bollo e sulle rendite finanziarie non si applicano in modo proporzionale al reddito del contribuente o al valore del suo patrimonio. Chi possiede titoli per 10mila euro, con rendimenti per poche decine di euro, è sottoposto ad aliquote identiche a chi amministra un portafoglio milionario di attività. All’estero non funziona cosi. In alcuni Paesi, come la Francia o la Spagna, l’imposizione è progressiva per scaglioni sulla base dei guadagni realizzati. In Gran Bretagna, invece, le rendite finanziarie vengono inserite nella dichiarazione annuale dei redditi, tassati secondo aliquote via via più alte al crescere delle entrate del contribuente. Da tempo molti esperti segnalano che allinearsi a questi modelli stranieri porterebbe maggiore equità nel sistema italiano, che finisce per favorire i più ricchi. Ma per cambiare serve tempo e invece il governo ha una fretta terribile di far cassa. Tutto rinviato, allora. E più tasse per tutti.

Ecco chi siamo

Ecco chi siamo

Gino Gullace Raugei – Oggi

Cuori nella tempesta economico-finanziaria: i numeri dicono che (forse) il peggio è passato ma il meglio ancora non si vede. A raccontarci l’Italia al tempo della crisi è Giuseppe Roma, direttore generale del Censis (Centro studi investimenti sociali). «Da una parte il Paese appare con tutte le sue grandissime capacità, la sua cultura, la secolare creatività e l’antica inventiva che ci ha fatto essere in qualche modo protagonisti del futuro; dall’altra parte, invece, si vede un Paese sempre pronto a dividersi in una miriade di gruppetti litigiosi che pensano ai loro comodi e non all’interesse nazionale. La storia contemporanea è dominata da giganti, la Cina, il Brasile, l’India e noi ci ostiniamo a rimanere un topolino che rischia di essere schiacciato». La crisi ci ha ributtato agli Anni 50: dominano l’incertezza e la paura del domani. Le statistiche ci dicono però due cose: negli ultimi anni difficili ci ha salvato la vecchia, cara famiglia all’italiana e se la macchina dell’economia ricomincerà un bel giorno a girare sarà merito soprattutto delle donne.

Le grandezze della crisi
Dal 2008 ad oggi il nostro Pil (il Prodotto interno lordo, indice della ricchezza nazionale) è diminuito di circa l’8 per cento. «Vale a dire», spiega il professor Roma, «una somma di circa 119 miliardi di euro, più del Pil dell’Ungheria». Ogni italiano (siamo 60.782.668) ha perso in media 1.957 euro e 79 centesimi. Ma non per tutti è cosi. Già, incredibilmente, tra occupati che diminuiscono e tasse che aumentano, c’è anche chi ha trovato il sistema di diventare più ricco: i 10 uomini più facoltosi d’Italia dispongono infatti di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, equivalente a quello di quasi 500 mila famiglie di operai; e, dichiarazione dei redditi alla mano, i nostri 2 mila Paperoni, cioè lo 0,003 per cento della popolazione. posseggono oggi 169 miliardi (senza contare il valore degli immobili), pari alla ricchezza totale del 4,5 per cento degli italiani.

Famiglie paracadute
Fortunati a parte, la crisi ha reso tutti gli altri più poveri: il reddito degli operai è diminuito del 17,9 per cento, quello degli impiegati e dipendenti del 12, degli imprenditori del 3,7. Risultato: oggi il 72,8 per cento delle famiglie italiane considera insostenibile una spesa extra per un improvvisa malattia o per significative riparazioni della casa o dell’auto; il 24,3 per cento fa fatica a pagare tasse e tributi; il 22,6 per cento spesso non ha soldi per bollette e assicurazioni mentre il 6,8 per cento non riesce più a pagare le rate del mutuo. Il 14 per cento delle famiglie si è trovata nelle condizioni di svendere oro e argento di famiglia per pagare i debiti. Credevamo di esserci americanizzati, finendo con l’annacquare i tradizionali, forti legami parentali; le difficoltà economiche ci hanno invece fatto riscoprire la classica, numerosa famiglia all’italiana che credevamo ormai consegnata ai libri di storia sociale. «In questi anni c’è stato un fortissimo recupero dei valori di solidarietà tra genitori e i figli, nonni e nipoti, fratelli, cugini e persino suoceri» spiega Roma. La famiglia è stata il più efficace degli ammortizzatori sociali, il paracadute che ci ha salvato dalla rovinosa caduta economica. Per il 76 per cento degli italiani la rete familiare include da 6 a 15 persone: un piccolo clan. Solo negli ultimi dodici mesi sono 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto qualche forma di aiuto economico dalle rispettive reti familiari.

Ripresa in rosa
Le famiglie sono il vero termometro della crisi: lo dicono i dati relativi al risparmio. Nel 2008 le famiglie italiane hanno depositato in banca poco più di 52 miliardi di euro; nel 2009 la somma si è ridotta a 56.7 miliardi: il 30 per cento di meno. Nel 2010 le famiglie italiane non solo non sono riuscite a risparmiare, ma hanno dovuto ritirare dai conti correnti ben l4,7 miliardi di euro; nel 2011 è andata anche peggio, coi prelievi che hanno sfiorato i 21 miliardi. L’anno successivo la tendenza si è però invertira: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca 37,4 miliardi. Vuol dire che la crisi ha attenuato i suoi effetti reali? «Siamo effettivamente in una fase in cui il peggioramento degli indici economici tende a rallentare», spiega l’economista Francesco Extrafallaces, «ma questo non vuole dire che la crisi è passata. L’anda- mento del risparmio ci dice piuttosto che le famiglie italiane si sono adattate alle difficoltà». Come? Risparmiando sulla spesa e rinunciando a molte cose: se in casa si rompe qualcosa cerchiamo di ripararlo da soli, con le donne protagoniste assolute del ritorno al bricolage: il 29,3 per cento fa tutto da sola, il 15.2 guida e dirige il braccio dell’uomo di casa. Dal 2009 al 2013 1,6 milioni di imprese italiane hanno cessato di vivere. Secondo l’Ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza, la crisi ha assassinato anche moltissime aziende storiche, quelle con almeno 50 anni di attività: ne sono sparite 9mila, cioè una su quattro. In questo che sembra un drammatico bollettino di guerra c’è un clamoroso numero in controtendenza che rivela un’Italia che non t’aspetti: secondo Unioncamere, nel 2015 le imprese italiane la cui titolare è donna hanno fatto registrare un significativo saldo positivo, con circa 5mila unità in più. E le regioni in cui è più spiccato il processo di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale sono quelle del Sud: Molise (dove sono il 29,7 per cento del totale), Abruzzo (27,8), Basilicata (27,7) e Campania (26,5). A livello nazionale le aziende rosa sono l.429.880, il 23,6 per cento del totale. Le imprenditrici giovani, che hanno cioè meno di 35 anni, sono ben 171.414, cioè il 12 per cento del totale. «Le donne rappresentano una grande speranza per il futuro», dice il professor Giuseppe Roma. «Sono più preparate dei loro colleghi maschi. più determinate ed hanno una qualità importantissima: riescono a fare squadra coi loro dipendenti e questo consente alle loro aziende di adattarsi meglio alla crisi, superando le diffìcoltà». Ricordate la nave albanese Vlona che arrivò nel porto di Bari stracarica di disperati in fuga dalla miseria? Era l’8 agosto del 1991: gli immigrati stranieri residenti in Italia erano allora 625 mila. Oggi sono oltre 5 milioni e parliamo di quelli con regolare permesso di soggiorno; i clandestini si presume invece che siano circa 500 mila.

Gli immigrati: la sfida più difficile
L’Italia è il quinto Paese europeo per numero complessivo di extracomunitari residenti. Le ondate migratorie che da 30 anni investono l’Italia sono il fenomeno sociale più importante della nostra storia recente», ci dice Anna Italia, ricercatrice del Censis. Nell’Italia di oggi, gli immigrati rappresentano una parte importante del tessuto sociale: abbiamo l.6 milioni di stranieri dediti ai servizi domestici un milione dei quali sono badanti che si occupano dell’assistenza agli anziani. Dei 180 mila ristoranti presenti nel nostro Paese, il 10 per cento, cioè 18 mila circa, sono etnici; di questi, uno su 4 è cinese e 1 su 8 arabo. Eppure quando si parla di extracomunitari ci balzano agli occhi le drammatiche immagini dei barconi stracarichi di disperati sulle rotte della morte nel Canale di Sicilia. «Arrivano in media 70 mila persone ogni anno», dice Anna Italia. «Sono quasi tutti in fuga dalle persecuzioni in atto nei loro Paesi d’origine e vengono in Italia per chiedere asilo. Perché, se hanno diritto all’assistenza che spetta agli stranieri perseguitati, scelgono un modo così rischioso per raggiungere l’Italia? «Perché la legge italiana prevede che un cittadino straniero possa chiedere asilo politico solo se si trova in Italia; non può farlo presso le nostre ambasciate o consolati che si trovano sul’altra sponda del Mediterraneo», spiega Anna Italia. I numeri dicono che nel nostro Paese oggi gli extracomunitari stanno occupando spazi importanti anche nei piani più alti del sistema economico. In alcuni settori la presenza di imprenditori stranieri è massiccia; è il caso delle costruzioni edili, dove il 21,2 per cento delle imprese ha proprietari stranieri (in gran parte rumeni); oppure del commercio al dettaglio (il 20 per cento). Mentre i negozianti italiani sono diminuiti del 3,3 per cento, quelli stranieri sono aumentati del 21,3 per cento. In città come Pisa, Caserta e Catanzaro. le botteghe di extracomunitari sono rispettivamente il 35,4, il 34,5 e il 52,7 per cento del totale.

Gli emigranti: giovani e arrabbiati
Siamo la terra promessa di moltissimi stranieri, ma nello stesso tempo molti giovani italiani lasciano il Paese per cercare fortuna altrove: il 54,1 per cento dei nostri emigranti ha meno di 55 anni. Fuggono all’estero soprattutto i giovani che hanno alle spalle famiglie con redditi medio alti: la percentuale di 5,6 per cento di nuclei familiari con un reddito mensile di mille euro che hanno almeno un componente fuori dai confini nazionali, diventa del 10.6 per cento nelle famiglie con un reddito di 4 mila euro. Come negli Anni 50, gli italiani emigrano in Australia; dal 2012 al 2013 c’è stato un aumento di partenze del 116 per cento e negli ultimi tre anni ben 32 mila giovani si sono stabiliti a Melbourne o Sydney. Il 72,7 per cento degli emigranti afferma che la scelta di partire è stata giusta e piena di soddisfazione. Tra tutte le ombre, questa è quella più cupa che si addensa sul futuro del nostro Paese.