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Rimborsi Iva: in Italia si aspettano 2 anni e mezzo, in UK 10 giorni

Rimborsi Iva: in Italia si aspettano 2 anni e mezzo, in UK 10 giorni

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

Due anni e mezzo. Tanto deve attendere, in media, un’impresa in Italia per avere il rimborso dei crediti Iva. Va un po’ meglio – un anno e mezzo – con la procedura semplificata, ma resta un’eternità se si pensa che in Gran Bretagna basta aspettare tra i 7 e i 10 giorni e in Germania appena una decina. Per la stessa operazione in Francia – secondo le stime fornite da Kpmg sui cinque big europei, frutto dell’esperienza sul campo – occorre invece in media un mese, mentre in Spagna l’attesa si dilata a sei. Un divario inaccettabile secondo la Commissione Ue, che nel settembre 2013 ha avviato una procedura di infrazione contro il nostro Paese con l’invio di una “lettera di contestazione”. Roma è fanalino di coda anche nel caso di un’impresa non registrata ai fini Iva nello Stato di rimborso: per il recupero deve aspettare, in media, un anno e mezzo. In questo caso la procedura più veloce è quella francese, dove in appena due mesi la pratica è chiusa.

Come si spiegano queste tempistiche così diverse? «I Paesi più virtuosi, come Gran Bretagna e Germania – sottolinea Davide Morabito, Associate Partner KStudio Associato (Kpmg) – hanno un’attività istruttoria molto rapida e snella, quasi automatica, e prevedono controlli successivi. Una peculiarità italiana è invece la necessità di presentare garanzie bancarie o fidejussioni di tre anni come condizione per ottenere il rimborso». Un ostacolo in più, rileva Morabito, soprattutto per le aziende in difficoltà, che per queste garanzie devono sostenere costi aggiuntivi.

Nel frattempo l’Italia è sotto procedura di infrazione da parte della Ue. «Le autorità italiane – spiegano da Bruxelles – ci hanno risposto e i contatti proseguono». Per chiudere il contenzioso il governo ha introdotto nell’attuazione della delega fiscale (ancora in elaborazione) uno snellimento delle regole. Occorrerà però vedere se, una volta approvate, soddisferanno la Commissione e riusciranno a evitare il “cartellino rosso”, con la messa in mora, seguita dal deferimento alla Corte di giustizia Ue. Le nuove regole puntano sulla semplificazione, innalzando da 5 a 15mila euro la soglia per ottenere i rimborsi senza adempimenti. Per alcune categorie di contribuenti sarà inoltre possibile richiedere il rimborso del credito oltre 15mila euro senza presentare garanzie, ma occorreranno il visto di conformità e le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà. Queste misure, come ha dichiarato in sede di audizione parlamentare il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, consentiranno lo sblocco di 22mila rimborsi. Sempre in sede di audizione, a fine luglio la semplificazione è stata definita «positiva e apprezzabile» dal presidente del Comitato tecnico per il fisco di Confindustria, Andrea Bolla, che ha però invitato a «ripensarne l’attuazione». Secondo Confindustria, infatti, la misura «non è in grado di incidere in modo significativo sul costo degli adempimenti di soggetti che vantano crediti di entità molto maggiore»: se da un lato si fa risparmiare alle imprese il costo della garanzia fideiussoria, dall’altro si sostituisce di fatto questo onere con un altro.

Sul fronte dei tempi l’Italia procede dunque a rilento, ma si cominciano a intravedere alcuni miglioramenti su quello delle erogazioni. Nel 2013, secondo i dati dell’agenzia delle Entrate, sono stati rimborsati 11,5 miliardi contro i 6,8 del 2012. Da gennaio all’inizio di settembre di quest’anno si è invece arrivati a quota 5 miliardi. Allargando il focus su 65 Paesi, si scopre che il sistema italiano è in buona compagnia. Secondo un recente studio di Kpmg, infatti, solo il 40% degli Stati restituisce l’Iva per i soggetti residenti in tempi ragionevoli (che non superano i 56 giorni) e con procedure efficienti. Di questo gruppo fanno parte undici Paesi della Ue tra cui, oltre alle già citate Gran Bretagna e Germania, anche Irlanda, Austria e Olanda. L’Italia si situa invece nel restante 60%, insieme a Francia, Grecia, Spagna e Portogallo. «Questa lentezza – conclude Morabito – è un grande ostacolo per le imprese e rischia di scoraggiare gli investimenti esteri. L’Iva è una componente fondamentale delle scelte strategiche delle multinazionali, perché ha un impatto diretto sul conto economico e diventa dunque un fattore di competitività».

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

Mario Sensini – Corriere della Sera

In vista della prossima legge di Stabilità «il governo sta valutando, oltre alla revisione delle detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali, anche la struttura delle aliquote agevolate dell’Iva» del 4 e del 10%. La possibilità di un nuovo intervento sulla tassa di consumo è stata avanzata ieri in Parlamento dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, quando solo due giorni fa il ministro Pier Carlo Padoan, in televisione a Porta a Porta, rispondendo ad una precisa domanda sull’Iva di Bruno Vespa, aveva detto che il governo «non ha intenzione di aumentare le tasse». Nella maggioranza il Nuovo Centrodestra, e Forza Italia, all’opposizione, sono subito scattate all’offensiva, come le associazioni dei consumatori.

Da quanto pare di capire, tuttavia, il governo non starebbe ipotizzando il semplice aumento delle aliquote Iva agevolate, ma la possibilità di una loro revisione e semplificazione, garantendo una sostanziale parità di gettito rispetto ad oggi. Il governo, piuttosto, sembra propenso a intervenire per sfoltire e, in questo caso, tagliare, la sterminata messe di regimi agevolati concessi a varie categorie di imprese per il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto che per inciso denota un indice di evasione molto elevato, sicuramente tra i più alti d’Europa, e che secondo alcune stime raggiungerebbe addirittura il 25%.

La “pulizia” nel territorio dell’Iva dovrebbe essere uno dei capitoli fondamentali della revisione di tutte le cosiddette “tax expenditures”, e cioè l’interminabile elenco di detrazioni, deduzioni, sconti e benefici fiscali esistenti nell’ordinamento, che sono più di 700 e costano circa 250 miliardi l’anno. Zanetti ha confermato che l’operazione, di cui si parla dal 2011, quando l’allora ministro Giulio Tremonti ne avviò la ricognizione, è allo studio. «Non ci sono ancora posizioni definite, ma si sta valutando. La questione fondamentale – ha detto Zanetti – è che le detrazioni che possono dare il maggior apporto sono anche quelle più sensibili». Ovvero, quelle politicamente più costose.

Gran parte delle detrazioni Irpef riguarda infatti il lavoro, le pensioni, i familiari a carico, la casa, le spese per la salute. Tutti ambiti molto difficili da aggredire, il che limita notevolmente la portata dell’operazione. Nel frattempo, da quando si è cominciato a parlare della loro razionalizzazione, gli “sconti” fiscali hanno continuato ad affastellarsi. Dal luglio del 2011 al giugno del 2014, ne sono stati varati altri 72, di vario genere, con una spesa di 16 miliardi di euro.

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Basta tasse, l’Iva non può essere alzata

Achille Perego – La Nazione

Ce lo chiede l’Europa. Quando un governo deve mettere le mani nelle tasche degli italiani – dalla riforma delle pensioni alle imposte sulla casa – si difende con la scusa di Bruxelles. Vista la sfida lanciata da Matteo Renzi ai “tecnocrati” europei, c’è da credere che questa volta non verrà utilizzato il solito ritornello per inasprire ancora le aliquote Iva. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, dopo le voci circolate con forza negli ultimi giorni e l’immediato allarme lanciato da consumatori e commercianti, ha smentito nuovi interventi sulle tasse. Speriamo. Perché alzare di nuovo l’Iva (l’imposta più evasa dagli italiani, con una percentuale quasi doppia rispetto all’Irpef) si trasformerebbe nell’ennesimo colpo sui consumi. E soprattutto sulle famiglie a minore reddito dove verrebbe quasi annullato l’effetto bonus da 80 euro, che ancora non si è visto sul fronte dei consumi.

È vero che la Ue, tutti gli anni, raccomanda un’armonizzazione dell’Iva, ma le aliquote dei Paesi dell’Eurozona restano una vera e propria giungla. E un’eventuale riforma complessiva, nel nome di un’unione non solo monetaria ma anche fiscale, dovrebbe spettare a Bruxelles. Non si capisce, invece, perché l’Italia, dopo aver già alzato dal 20 al 22% l’aliquota ordinaria (oramai tra le più alte d’Europa) dal 2012 al 2013 – con ridotti risultati per l’Erario che nel 2013 ha perso 3 miliardi di gettito Iva su un totale di 112 – dovrebbe ancora affossare i consumi che dal 2008 sono crollati di quasi l’8%. E hanno visto bruciare ben 78 miliardi di spesa. Una caduta che non si è ancora arrestata anche se il fondo sembra ormai vicino.

Del resto con i redditi degli italiani tornati a livelli di 30 anni fa e il potere d ‘acquisto scivolato a meta anni Novanta, con 2700 euro all’anno spariti dalle tasche delle famiglie, era difficile sperare in una ripartenza dei consumi. Che restano fondamentali per vendere beni e servizi e quindi per la buona salute delle imprese. E per la difesa e la crescita dei posti di lavoro in un Paese che ha un 12,6% di tasso di disoccupazione e ben oltre il 40% per i giovani. Mettere una nuova “tassa sul pane”, alzando dal 4 al 10 o addirittura al 15% l’aliquota Iva agevolata (applicata su molti altri beni di prima necessità come il latte o l’ortofrutta) e colpire anche prodotti e servizi che oggi scontano un’Iva al 10% (tra i quali tutta la filiera del turismo, uno delle poche industrie tricolori che ancora tirano), rischia di trasformarsi in un boomerang anche per le casse dello Stato. Soprattutto se l’inasprimento delle imposte indirette scatterà – come sempre, purtroppo – senza ridurre e tasse sul lavoro e sulla casa. Così siamo sempre in recessione, la luce in fondo al tunnel si allontana e restiamo, come ci ha avvertiti l’Ocse, l’unico Paese del club dei Sette grandi al palo. Forse perché ci siamo dimenticati che la cura delle tasse, Iva compresa, non fa mai rima con la parola crescita.

Basta aumenti Iva

Basta aumenti Iva

Francesco Forte – Il Giornale

Circolano due notizie inquietanti. L’Unione europea avrebbe chiesto all’Italia di aumentare al 10% l’Iva, attualmente al 4% per i generi alimentari e altri beni di prima necessità. E il Pil italiano quest’anno anziché crescere dello zero, come si è visto dai dati sino a luglio, decrescerebbe secondo l’Ocse dello 0,4 (con un peggioramento nel secondo semestre) e ciò danneggerebbe l’equilibrio di bilancio e il rapporto debito/Pil. Di qui una manovra correttiva, che verrebbe attuata sul lato delle imposte, anziché sul lato delle spese e delle privatizzazioni.

Se si seguisse la prima tesi, insieme alla seconda, ciò diventerebbe un vero suicidio. E i famosi 80 euro in busta paga apparirebbero una presa in giro, insensata. Che il Pil debba decrescere dello 0,4 in Italia nel 2014 mentre quello medio dell’Eurozona avrà comunque secondo l’Ocse un modesto andamento positivo, è qualcosa che dipende da ciò che Renzi si deciderà a fare, tanto per il decreto Sblocca Italia, che ancora non è operativo, quanto per l’urgentissima liberalizzazione del mercato del lavoro, di continuo rimandata e ridimensionata.

Comunque, in questo frangente, il governo non si può permettere un aumento generale al 10% dell’aliquota Iva del 4%, che in parte ricadrebbe, come maggior onere, sui consumatori e in parte rimarrebbe a carico delle imprese, accrescendo la crisi che serpeggia in molti esercizi commerciali e in molte imprese dei beni di largo consumo. E non si potrebbe neppure addurre l’argomento adottato per aumentare le imposte sugli immobili e reintrodurre quella sulla prima casa, ossia che esse riguardano i proprietari (come se non ci fossero persone a basso reddito che lo integranti con qualche modesto possesso immobiliare). L’aliquota Iva del 4% riguarda frutta, pasta, pane, verdura, latte, latticini, formaggi, cereali, pesce, crostacei, fertilizzanti, giornali, articoli per disabili, medicinali, vendita di prima casa e analoghi beni considerati di prima necessità.

Guardando con attenzione la lista, si trova che qualche aliquota del 4% è un privilegio, ma non sembra che lo si possa dire per l’elenco di massima appena esposto. Se è vero che esiste una richiesta dell’Unione europea di aumento dell’aliquota dal 4% al 10%, ciò non può riguardare i beni di consumo nella fase finale, perché questa tassazione è competenza dei singoli Paesi. Al massimo la richiesta europea per il consumo finale è di adottare l’aliquota ridotta comunitaria del 5% e non del 4%, ma l’Italia non è l’unico Paese che ha ottenuto questa piccola deroga.

Ciò che l’Unione europea ci può chiedere è di portare al 10% l’aliquota prelevata sui beni importati, per armonizzare il traffico internazionale comunitario. Questo può convenire anche a noi, perché ci consente di penalizzare le aziende produttive e gli esercizi commerciali che non fatturano l’Iva alla propria clientela. Essi perderebbero il diritto al rimborso del 10% sulla merce importata corrispondente e la loro concorrenza sleale rispetto agli esercizi che effettuano le fatturazioni diminuirebbe. L’Iva al confine per il traffico extracomunitario si controlla facilmente per i beni di massa di natura agroalimentare dato il loro volume e dato che, quando si tratta di prodotti freschi, si debbono adottare veicoli speciali a ciò attrezzati, Per il traffico comunitario non c’è la tassazione al confine, ma per i veicoli che trasportano i prodotti freschi è agevole fare i controlli presso i luoghi di destinazione all’ingrosso. Questo gettito comporta un recupero di imposte evase e non un onere per il consumatore, posto che alla fase finale il tributo rimanga al 4%.

Per il pane, la pasta, il latte, la frutta e la verdura ecc. che si vende nei negozi, la decisione dell’aumento appartiene al governo italiano. E sarebbe una ingiuria al buon senso l’effettuare questo aumento proprio ora, che la gente tira già la cinghia e che c’è scoraggiamento. Se il Pil diminuisce, anziché crescere di zero, il governo deve tagliare le pubbliche spese di natura variabile, non aumentare le entrate. In una famiglia, se il reddito cala, si tagliano tutte le spese variabili, non solo quelle dei biondi e non dei bruni e dei calvi o viceversa.

Una doccia gelata l’Iva dovuta sugli aiuti

Una doccia gelata l’Iva dovuta sugli aiuti

Giangiacomo Schiavi – Corriere della Sera

Questa è una storia di lutti, di solidarietà, di rinascita. E anche di una doccia gelata. Una storia che coinvolge persone, legami, speranze. E si svolge attorno a una scuola: un investimento sul futuro. Cavezzo, Emilia: il paese più colpito dal terremoto di due anni fa. Qui la ricostruzione di un polo scolastico è diventata un atto di fiducia nel quale si è ritrovata una comunità. C’è voluto un po’ di tempo, ma la buona volontà e il sostegno convinto della Regione Emilia-Romagna, del Comune, dei sindaci, degli insegnanti e dei genitori dei 600 bambini, ha vinto su tutto: burocrazia, divisioni politiche, ostacoli tecnici. Grazie alla sottoscrizione dei lettori del Corriere e del Tg La7 sono state realizzate aule, laboratori, palestra, sala riunioni, un learning garden, l’orto didattico e un piccolo parco, perché con gli alberi si cresce e si educa all’ambiente.
L’avventura della ricostruzione è stata una lezione di tenacia e di umanità. Fra qualche giorno verrà consegnato alla comunità locale un complesso educativo, civile e sociale realizzato grazie a un’innovativa alleanza tra privati e amministrazione pubblica nel paese che nella terribile primavera del 2012 divenne uno dei simboli del cratere sismico: quattro morti, decine di feriti, settemila sfollati, ottocento abitazioni inagibili, un quadro di rovine e disperazione.

Il giardino della conoscenza

Per arrivare a questo, per cucire assieme i precedenti interventi di Regione e Comunità delle Giudicarie e trasformare un campo di mais al confine del paese in un «giardino della conoscenza», sono stati impiegati i quasi tre milioni di euro raccolti da «Un aiuto subito» la sottoscrizione del Corriere e del Tg La7. Ci hanno dato una grossa mano Renzo Piano e gli architetti della sua fondazione: sono stati a Cavezzo, hanno offerto consulenze e progetti, cercando di integrare con le nuove costruzioni quel che era stato fatto nell’emergenza per garantire le lezioni ai bambini. Il progetto, affidato allo studio Carlo Ratti di Torino, utilizza le migliori tecniche di edificabilità e sostenibilità ambientale. Ci piacerebbe farlo diventare la seconda piazza del paese: un luogo di studio, di sport e di civiltà.

Il «prezzo»della beneficienza

È giusto ringraziare tutti, tutti meno lo Stato, la cui presenza si è materializzata solo sotto forma di esoso esattore. Ciò che resta dei fondi se li prende lui. Per aver realizzato un polo scolastico con i soldi dei lettori, dobbiamo pagare una tassa. Una tassa sulla generosità prevista con l’Iva: trecentomila euro. Mentre si prepara la riforma del non profit, nessuno pensa a rimuovere un balzello che pesa sulla beneficienza: oggi in Italia lo deve pagare l’azienda che decide di ristrutturare a sue spese un padiglione d’ospedale e l’associazione che regala un’ambulanza al pronto soccorso. Un’assurdità. Accade ai Rotary, ai Lyons, alle associazioni e alle fondazioni che decidono di farsi carico di opere o lavori destinati alla pubblica utilità. Si paga l’Iva per la biblioteca restaurata dopo l’alluvione di Aulla, per la Casa del volontariato di Milano, per realizzare il centro sportivo di Scampia gestito gratuitamente dai volontari. Si paga l’Iva su tutto, calamità (ovviamente) comprese.

I paradossi del fisco

L’Iva, per chi compra o vende, è un obbligo di legge. L’imposta sul valore aggiunto si paga al 22 per cento, ma quando si realizzano opere di valore sociale come le scuole si ottiene uno sconto fino al 10 per cento. In sede di bilancio non è un problema: si tratta di una partita di giro. Chi la carica sulla merce acquistata può scaricarla su quella venduta. Per noi (e certamente per altri benefattori) invece è un extra: non abbiamo partite di giro, si paga e basta. Sono i paradossi della nostra disciplina fiscale: invece di essere agevolato, chi fa del bene viene spesso ostacolato. Non serve una doccia gelata qui: basterebbe un emendamento del governo o del parlamento per annullare un’assurda gabella, restituendola ai terremotati di Cavezzo, ai sindaci impegnati nella ricostruzione, alle insegnanti e ai bambini del polo scolastico. Sarebbe un atto di buon senso e l’inizio di una fattiva collaborazione tra privati e istituzioni, in caso di disastri e calamità. Ma nessuno ci ha pensato.

Le giuste distinzioni

Si dirà che la questione è poca cosa rispetto ai guai che stiamo attraversando. Ma l’insieme di tante piccole cose che non vanno sta diventando un intralcio alle tante spinte positive che ci sono nella società. Perché lo Stato invece di favorire il cittadino o l’azienda che gli fa risparmiare milioni di euro pretende da questi una tassa? In un Paese dove abusi e illegalità devastano l’economia pubblica con ruberie di ogni sorta, perché non si fa qualche distinzione sulla disciplina dell’Iva per chi fa del bene? Non sarebbe un incentivo per tante aziende a investire nella solidarietà? Si obietterà: l’Iva si paga perché lo prevede una normativa comunitaria. Ma l’Iva non è uniforme e la normativa europea stabilisce solo limiti e criteri, dando facoltà poi agli Stati di definire esattamente il quadro giuridico. Qual è la risposta di questo governo?

La fiducia che alimenta la democrazia

Chi fa beneficenza non può essere trattato come il gestore di una slot machine , anzi peggio (i gestori hanno avuto uno sconto milionario sugli arretrati da pagare allo Stato). Noi vorremmo che una ricostruzione nata dal cuore con un gruppo di lavoro straordinario, diventasse un valore condiviso anche dallo Stato, in cui vogliamo avere fiducia. È la fiducia, è l’affidamento nelle lealtà delle istituzioni, che dà benzina alla democrazia, ha scritto Michele Ainis. Ma se lo Stato agisce come un esoso mercante, che fiducia si può avere? Uno Stato che non si pone il problema del bene comune suscita disaffezione, fastidio. E anche ostilità. Sentimenti che, davanti a quanto di buono ogni giorno viene fatto in Italia, tutti noi vorremmo non provare.
(PS: la tassa di trecentomila euro rischia di ridimensionare il progetto per Cavezzo. Ma noi non vogliamo lasciare il lavoro interrotto: andremo avanti comunque. Chiederemo un piccolo aiuto a chi può darlo. E uno più grande a chi ha una maggiore disponibilità. Sul conto «Un aiuto subito» presso Intesa San Paolo abbiamo lasciato per mesi 2.975.076 euro a un modesto tasso di interesse. Fosse lo stesso che ci chiede oggi lo Stato, saremmo a posto. La generosità di Intesa San Paolo ha spesso sostenuto avventurose imprese di Stato con milioni di euro, bruciati inutilmente in pochi mesi. A Cavezzo non ci sono capitani coraggiosi del capitalismo, ma cittadini e studenti. Per la banca dovrebbero essere un valore su cui investire; per lo Stato un’occasione per riflettere: questa storia riguarda tutti, non solo noi).

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tagliare di almeno un terzo il tax gap dell’Iva, cioè quel complesso di evasione vera e propria e di mancati pagamenti per errori o crisi di liquidità che ogni anno sottrae all’Erario tra i 35 e i 40 miliardi di euro, a seconda dei calcoli. È l’«obiettivo di medio periodo» scritto nel Rapporto sulla lotta all’evasione che il Governo deve presentare al Parlamento: un obiettivo che servirebbe a riportare l’Italia «nella media dei Paesi europei» fra i quali oggi primeggia per i mancati incassi nell’imposta sul valore aggiunto.
Il primato italiano è scritto nelle analisi comparative sull’evasione appena prodotte dall’Unione europea, dove si legge che il gap italiano dell’Iva non teme confronti né in valore assoluto (la Francia secondo le stime, relative al 2011, ha “perso” 32,2 miliardi all’anno, la Germania 26,9 e il Regno Unito 19,5) sia in rapporto al Pil, perché il gap italiano (2,3% del Pil) doppia abbondantemente quello attribuito a Germania e Regno Unito (rispettivamente 1% e 1,1%) e supera di slancio quello registrato in Francia (1,6%). Questo accade perché il nostro Paese non riesce a incassare più di un quarto dell’«Iva potenziale», con una performance che si tiene lontanissima da quella dei principali Paesi europei (si veda il grafico qui a fianco): peggio di noi fanno solo la Grecia e alcuni Paesi dell’Est Europa.
La nostra amministrazione finanziaria muove qualche obiezione al merito di queste graduatorie europee, perché l’Italia è «Paese leader in campo internazionale per quanto riguarda la metodologia di stima del sommerso», e il confronto rischia paradossalmente di premiare gli Stati che sono meno attenti in questo campo e di conseguenza calcolano un’evasione minore. È lo stesso Rapporto, però, a riportare questi dati, e soprattutto a riconoscere l’esigenza di riportare l’Iva a un livello «europeo» di riscossione effettiva.
Per combattere il fenomeno bisogna prima di tutto capirne le cause, e da questo punto di vista arriva per la prima volta un’ammissione interessante. «È possibile – si legge nel documento – che l’aumento dell’aliquota ordinaria tenda a produrre, mediante la crescita della pressione fiscale effettiva, un innalzamento del tasso di evasione». Come denunciato da alcuni analisti, quindi, gli incrementi che hanno spinto l’Iva ordinaria dal 20% al 21% il 16 settembre 2011 e al 22% dal 1° ottobre 2013 per effetto di diverse clausole di salvaguardia contenute nelle manovre anticrisi rischierebbero di avviare un circolo vizioso in cui i problemi di finanza pubblica aumentano l’Iva, ma l’aumento dell’Iva alimenta a sua volta le difficoltà del bilancio statale. Il rischio si acuisce proprio nelle fasi di crisi, che oltre a ridurre la domanda interna determinano «un clima di incertezza e sfiducia» che costituisce «il terreno favorevole per l’acuirsi di pratiche evasive». Anche così si spiega il rialzo del gap Iva registrato dalle serie storiche dal 2010, dopo le discese quasi costanti nel 2004-2007 e nel 2008-2010.
Al di là di queste oscillazioni, però, il problema è strutturale e chiede soluzioni. Il Rapporto, come previsto, punta le proprie carte sulla tracciabilità dei flussi e in particolare sulla fattura elettronica, che dai rapporti con la Pa si potrebbe estendere alle transazioni fra imprese «in ragione dei risparmi gestionali che ne possono derivare». Da attuare, poi, rimane l’erede del vecchio elenco clienti-fornitori, cioè la comunicazione quotidiana al Fisco delle fatture da parte delle partite Iva (articolo 50-bis del Dl 69/2013). Si tratta di un’opzione, in calendario dal 1° gennaio prossimo, ma se le sue modalità attuative offriranno a chi la sceglie semplificazioni importanti su altri fronti potrà tessere una rete fitta di informazioni utili al Fisco.