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Quando lo Stato ostacola l’impresa

Quando lo Stato ostacola l’impresa

Luca Cellamare – Gazzetta del Mezzogiorno

Pare che in Italia sia impossibile varare misure realmente efficaci per il rilancio della produttività anche utilizzando strumenti diretti alla semplificazione fiscale. I relativi interventi, infatti, si sono tradotti paradossalmente in nuovi adempimenti a carico di contribuenti e professionisti. In relazione alla famigerata delega fiscale, poi, sono stati spesi «fiumi di parole», ma ancora senza costrutto.

Al contrario, a nostro avviso, gli interventi del governo paiono ostacolare la ripresa. È questa l’impressione ad esempio se si considerano le novità introdotte dal decreto Renzi (decreto 66 del 2014) in materia di rivalutazione dei beni aziendali. Come noto, la legge di stabilità 2014 (147 del 2013) ha riproposto la possibilità per le imprese di effettuare una rideterminazione dei valori dei beni di impresa con conseguenti vantaggi sia sul piano fiscale che civilistico. Ad esempio la rivalutazione consente, dal punto di vista fiscale, una deducibilità (differita) di maggiori quote di ammortamento, o la possibilità di prendere in considerazione un maggior valore ai fini del calcolo delle società di comodo. Dal punto di vista civilistico, invece, è consentita una maggiore patrimonializzazione dell’azienda con conseguenti riflessi positivi sia per l’accesso al credito che in termini di affidabilità agli occhi degli stakeholders.

Ebbene, ai fini del perfezionamento della rivalutazione, è richiesto il versamento di una imposta sostitutiva che, come previsto originariamente, poteva essere assolta in «tre rate annuali». Con il decreto Renzi il versamento dell’imposta è stato ridotto all’improvviso ad un’unica rata da effettuarsi entro il prossimo 16 giugno! Salvo sorprese, pertanto, molte imprese già in ginocchio ed in crisi di liquidità adesso dovranno sborsare in unica soluzione quello che avrebbero dovuto pagare in tre anni. Altrimenti dovranno rinunciare ad uno dei pochissimi strumenti ancora a disposizione per recuperare un po’ di ossigeno. Ma oltre al danno la beffa. Per le imprese che hanno già approvato il bilancio, infatti, la questione si complica ulteriormente. Queste devono considerare l’ipotesi di convocare una nuova assemblea per riapprovare un bilancio correttivo. Oppure devono «rischiare» optando per un versamento tardivo della sostitutiva, dato che la norma e la prassi sembrerebbero dare spazio ad una sorta di «ravvedimento operoso».

Al di là di questo recente intervento palesemente diretto a far cassa, a danno però delle numerose società che hanno optato per la rivalutazione, il legislatore nazionale è apparso negli ultimi anni estremamente attivo in materia di tracciabilità del denaro. Gran parte delle risorse erariali, infatti, sono state spese per far fronte alla necessità di mettere a nudo ogni singolo contribuente, monitorandone i rapporti commerciali, i depositi bancari e qualsivoglia altra movimentazione di ricchezza. La ratio avrebbe dovuto essere quella di annientare l’economia sommersa e quindi sconfiggere l’evasione fiscale. Di fatto, però, l’evasione tocca ancora valori estremamente elevati, la burocrazia ha raggiunto livelli esasperati e l’Italia non attrae gli investitori esteri. Al contrario, l’unico risultato «veloce» è sempre quello di «spremere» i soliti noti, al fine di attuare nei loro confronti un’attività di recupero delle imposte conseguenti per lo più non ad una effettiva evasione, ma all’ontologica incertezza del diritto tributario.

Eppure all’attualità l’amministrazione rappresenta una enorme «macchina a raggi X». Un «Big Brother» del ventunesimo secolo che ricorda la celeberrima opera di George Orwell «1984» in cui un’entita a capo di una intera nazione tiene sotto costante controllo la vita dei cittadini. Emblematica è la recente introduzione del Sid, ossia un canale di comunicazione mediante il quale le banche comunicano periodicamente all’anagrafe tributaria i dati relativi ai movimenti finanziari effettuati dai propri clienti e grazie al quale i conti correnti non sono più un segreto per l’Agenzia delle Entrate, che comunque già disponeva di controlli invasivi da attuarsi nel corso delle indagini bancarie. Inoltre è prevista a breve l’entrata a regime di due altre grandi novità all’insegna della tracciabilità e della dematerializzazione del denaro: la fatturazione elettronica per i fornitori della pubblica amministrazione e l’obbligo per commercianti e professionisti di dotarsi dei Pos.

Circa la fatturazione elettronica, tra qualche giorno scatta l’obbligo di documentare le cessioni di beni e le prestazioni di servizi realizzate nei confronti di ministeri, agenzie fiscali ed enti di previdenza, esclusivamente in via telematica. Anche in tal caso gli obblighi maggiori ricadono sui privati che sono tenuti ad aggiornare i propri software con nuovi moduli per l’elaborazione dei documenti e la loro conservazione, sostenendo ovviamente costi aggiuntivi. A tanto si aggiunga che l’invio delle fatture elettroniche può avvenire esclusivamente mediante un Sistema di Interscambio, per cui può essere necessario rivolgersi ad intermediari abilitati. Non si esclude, inoltre, che a breve l’obbligo della fattura elettronica possa diventare cogente anche nei rapporti tra privati e non solo nei confronti dei fornitori della pubblica amministrazione.

Infine, la protesta si fa sempre più serrata in relazione all’obbligo di installazione del Pos a carico di artigiani, commercianti e professionisti che, in base al decreto 179 del 2012, sarebbero tenuti ad accettare pagamenti oltre i 30 euro mediante carte di debito (bancomat). Sebbene l’obiettivo sia quello di consentire la tracciabilità dei pagamenti, le perplessità riguardano in primo luogo la difficile realizzabilità, dato che tutti i consumatori e gli utenti dovrebbero dotarsi di carte di debito. Ancor più avvilenti, però, sono le spese connesse all’operazione: i costi di installazione del Pos, il canone mensile per il terminale e la commissione, in favore della banca, che oscilla tra l’1% e il 3% per ogni transazione commerciale. Quel che e certo è che tale obbligo (tuttavia, in particolare per i professionisti, si tratterebbe soltanto di un onere privo di sanzioni in caso di inosservanza) consentirà al sistema finanziario di realizzare facilmente cifre da capogiro!

E’ il momento di recuperare gli investitori stranieri

E’ il momento di recuperare gli investitori stranieri

Alberto Mazzuca – La Gazzetta del Mezzogiorno

Statali in piazza, pensionati in piazza, disoccupati in piazza. Slogan, proteste e manganellate. È solo l’inizio dello scenario che avremo anche il prossimo anno. Sara infatti un 2015 migliore rispetto a questo 201l disastroso (-0,4 % del Pil). Ma sarà anche il quarto anno di recessione consecutiva. Il che significa dover sopportare altri disagi. La correzione al ribasso effettuata dall’Ocse sul Pil italiano (ripresina dello 0,2% nel 2015 e dell’1% nel 2016) ci colloca infatti al penultimo posto nei paesi del G20, davanti solo alla Russia. E ci racconta una storia in parte diversa da quella che il governo ci racconta mettendo tanta carne al fuoco, come se questo paese fosse in grado di correre i cento metri dopo essere stato ingessato per anni.

Non è questione, come sostiene il premier Renzi, di “pigrizia”. Basta leggere la relazione della Banca d”ltalia per vedere che nel 2014 il rapporto tra entrate fiscali e Pil rimane costante al 48,5 % e nel 2015 salirà mentre le spese correnti restano invariate. Viene ridotta di qualcosa solo la spesa in conto capitale. Significa che le misure decise sono troppo timide, che si fa affidamento sull’iniezione di liquidità che faranno la Bce (oltre mille miliardi) e l’Ue (i ridicoli 300 miliardi in tre anni), che si spera in una maggiore apertura di credito da parte del sistema bancario. Quest’anno le banche, dice l’Abi, hanno erogato più di 5 miliardi alle imprese ma l’unica cosa che salta agli occhi è la grande invasione di slot machine e gioco d`azzardo.

Per dare una vera svolta al paese ci vuole ben altro. Ci vuole un patto sociale (e non la guerra), ci vogliono soprattutto scelte precise che non mettano in fuga gli investitori stranieri. Non è l’art. 18 a spaventarli ma la criminalità che ha un impatto sul Pil di almeno l’1% e ha fatto perdere dal 2006 al 2012, in particolare nel Sud, ben 16 miliardi. E se l’Italia è con Grecia e Bulgaria ai primi posti in Europa come corruzione, è al quarto come criminalità organizzata dopo Romania, Bulgaria e Polonia. Eppure l’introduzione del reato di autoriciclaggio per chi reimpiega soldi ottenuti illecitamente va a passo di lumaca. Curioso: gli italiani debbono correre, i criminali hanno un occhio di riguardo.

Contabilizzare le attività illecite?

Contabilizzare le attività illecite?

Mario Lettieri e Paolo Raimondi – La Gazzetta del Mezzogiorno

Nel 2014 gli Stati membri dell’Unione Europea apporteranno cambiamenti importanti nei metodi di contabilità nazionale per la definizione del Prodotto interno lordo (Pil) e del Reddito nazionale lordo. Non si tratta di un’opzione ma dell’attuazione di una direttiva dell’Onu. Gli Usa l’hanno adottata nel 2013. Adesso tocca all’Europa. Di conseguenza i parametri di Maastricht saranno profondamente modificati, anzitutto i rapporti decifit/Pil e debito/Pil utilizzati, come è noto, per definire la situazione della finanza pubblica dei singoli Paesi. I mercati ovviamente ne tengono conto per decidere i loro comportamenti finanziari. Ad esempio, lo spread naturalmente riflette anche il livello di tali rapporti. Le organizzazioni internazionali e sovranazionali di controllo oggi li valutano per imporre politiche restrittive o commisurare sanzioni nei confronti di chi li viola. In Europa il Reddito nazionale lordo è utilizzato per determinare il contributo di ciascun Paese al bilancio dell’Unione.

È da decenni che si parla della necessità di migliorare il sistema di contabilità nazionale in quanto i metodi utilizzati sono notoriamente insoddisfacenti. Il parametro del Pil infatti fu “inventato” nel lontano 1934 ed è stato un utile riferimento anche se ritenuto altamente impreciso finanche dai suoi promotori. Il problema della riforma oggi è l’introduzione di proposte intelligenti e necessarie e di altre purtroppo davvero improponibili anche sul piano etico. Ad esempio, le spese in Ricerca e Sviluppo, fino ad oggi considerate come costi intermedi, verranno conteggiate come spese di investimento perché contribuiscono, come capitale intangibile, alla crescita della capacita produttiva. Ciò comporterà un impatto positivo sulla domanda aggregata e quindi sul Pil. Però anche le spese per gli armamenti saranno contabilizzate come spese di investimento! E qui incomincia la “perversione” del nuovo metodo contabile. Con il Pil si misura non solo la forza economica di un Paese ma anche la sua serietà e la sua affidabilità. Ne consegue che le dittature militari, che preparano una guerra di aggressione, diventano, con i numeri delle loro economie, degli esempi virtuosi da imitare!

La nuova riforma perciò supera tutti i limiti della decenza laddove introduce nel nuovo calcolo del Prodotto interno lordo anche le attività illegali. Di fatto la nuova direttiva indica esplicitamente che “le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione ed il contrabbando”. Sarà addirittura l’Eurostat a stabilire le linee guida della metodologia di stima. Tutto ciò è giustificato “in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico”. È proprio l’avverbio “indipendentemente” che contiene il virus piu distruttivo per la società ed il benessere dei suoi cittadini. Allora anche la rapina diventa un’attività economica, “indipendentemente” dal fatto che distrugge l’ordine sociale e uccide. Anche una guerra di aggressione diventa un evento economico di grande profitto, “indipendentemente” dal fatto che comporta distruzioni, genocidi e fame. È una vera e propria aberrazione. Anche se vi fosse l’esigenza di conoscere l’ammontare delle singole e di tutte le transazioni finanziarie, non sarebbe comunque giustificato il vulnus allo status giuridico. Ma che le attività illegali entrino di diritto a far parte del Pil che poi determina alcuni parametri che influiscono sulla vita dei Paesi e di intere popolazioni è inaccettabile.

È in atto una enorme campagna mediatica per dimostrare la bontà delle nuove regole. Si sottolinea in particolare che tutti i governi europei ne beneficeranno in quanto i parametri di Maastricht verrebbero ridefiniti a loro favore. Se il Pil aumenta allora si guadagnano dei margini sul famoso 3% relativo al rapporto deficit/Pil. Anche il rapporto Pil/debito pubblico migliorerebbe. Pazzesco! Il Trattato di Maastricht diventa così il verbo intoccabile. Invece di cambiarlo si pensa di produrre dei dati “falsi” per aggirarne gli effetti più negativi. Eppure è noto che anche il magico 3% non ha alcuna base scientifica. Fu definito arbitrariamente da un giovane impiegato del governo francese nel 1981 su richiesta del presidente Francois Mitterand che, sembra, necessitasse di mettere freno alle astronomiche promesse di spesa pubblica fatte durante la campagna elettorale.

Se le spese di R&S fossero giustamente conteggiate il Pil aumenterebbe del 5 % in Svezia, del 3% in Germania e Francia e di poco più dell’1% in Italia. Ma che fare con le attività illegali notoriamente difficili da quantificare? Se si prendessero i dati della Banca d’Italia sull’economia illegale, allora il nostro Pil dovrebbe aumentare dell’11%. E secondo l’Istat, nel 2010 l’intera economia sommersa “valeva” circa il 17% del Pil. Riteniamo che la crisi economica che investe i Paesi dell’Ue non si risolva così: il rimedio ci sembra peggiore del male. Ogni ripresa economica non può prescindere dalla legalità a tutti i livelli e ha bisogno di ben altro rispetto al “trucco contabile” proposto.

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Le aspettative crescenti dell’uomo della Provvidenza

Gianfranco Summo – La Gazzetta del Mezzogiorno

Il bluff è uno degli aspetti più affascinanti del poker, almeno per gli appassionati del gioco. In fin dei conti è la strategia dove si mette sul tavolo la personalità del giocatore piuttosto che le sue carte. A vincere una mano con la scala reale sono buoni tutti, a zittire gli avversari con un punticino ci vuole forza, carisma, credibilitá.

Non coraggio, ma credibilità. Ecco, Matteo Renzi con il decreto (annunciato) Sblocca Italia sta puntando le sue ultime fiches di credibilità. Un grande italiano d’Europa, Mario Draghi, giocò nell’estate del 2012 una mano di poker con un bluff memorabile: annunciò al mondo di essere pronto a tutto per salvare l’euro e questa semplice «minaccia» fu sufficiente a rassicurare mercati, Ue e singoli Paesi. In realtà la Bce non spese un euro. Ma bastò l’autorevolezza di Draghi a rendere credibile l’annuncio. Però quell’annuncio non era stato preceduto da un’altra diecina di affermazioni pirotecniche e non si è mai visto il presidente della Bce mangiare un gelato davanti all’Eurotower per fare dispetto alle critiche di un giornale. E quindi Draghi è tuttora un pilastro dell’Europa, al punto che si scomoda la Merkel in persona se legge che il presidente della Bce prende posizione contro il rigorismo germanico. 

Non si può bluffare ad ogni giro, come sa pure un mediocre giocatore di poker. O anche solo di briscola- Allora, il decreto Sblocca Italia: per non tramutarlo in una bufala, innanzitutto il governo Renzi dovrà dimostrare che i dieci miliardi promessi siano soldi «nuovi». Se (come sembra) si tratta solo di mettere insieme opere già finanziate, se si tratta di attingere a fondi europei già disponibili, allora il bluff è scoperto fin da ora. E non basta sostenerlo dicendo che il decreto accelera le cantierizzazioni. Perché se solo di questo si tratta, allora vuol dire che il governo si scomoda e «occupa» un decreto semplicemente per una operazione di pura burocrazia. Che ci stanno a fare, dunque, ministri e ministeri? Non basta che facciano il loro lavoro, individuino priorità e disponibilità e diano corso a quello che dovrebbe essere la normalita di un Paese, cioé rispettare termini e scadenze di una opera pubblica? 

Verrebbe da pensare che il decreto Sblocca Italia serva a fare marketing e allo stesso tempo mascherare i limiti di una squadra di governo non ancora padrona delle proprie prerogative. E sarebbe doppiamente grave. Triplamente grave, poi, se consideriamo che in amministrazione, come in natura, non esiste il vuoto e lì dove la politica non riesce a fare il suo lavoro, ci pensano i burocrati. Esattamente il senso contrario a quello promesso da Renzi. 

Con una delle sue (tante) battute che farebbero invidia a Berlusconi, Renzi spiegò agli italiani in una intervista televisiva a La7 che lui ha detto che vuole cambiare verso, non può cambiare l’universo. Un simpatico modo per frenare forse gli entusiasmi che egli stesso ha acceso, quegli entusiasmi che lo hanno portato a guidare il governo e dell’Italia senza essere neppure stato eletto una sola volta al Parlamento. Dalle primarie del Pd, alla guida del partito e di lì alla presidenza del Consiglio dei ministri a furore di popolo. Tanto viscerale consenso ha come contraltare inevitabile una aspettativa altrettanto vertiginosa. 

Quindi Renzi non si stupisca se dopo soli sei mesi gli imprenditori cominciano a mugugnare, proprio quegli imprenditori che avevano traslocato armi e bagagli dal berlusconismo ad un Pd finalmente decomunistizzato. Ha cominciato due mesi fa la Confindustria di Giorgio Squinzi, poi la Confcommercio e ieri è arrivato il presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori, Paolo Buzzetti: servirebbero progetti per cento miliardi, ma basterebbero anche dieci miliardi purché siano «veri».

Ora Renzi non si spazientisca, non se la prenda con gli italiani che non apprezzano la sua buona volontà. Non faccia come l’italiano medio per il quale la colpa è sempre di qualcun altro. Renzi è un uomo politico giustamente ambizioso e ha ancora una grandissima fortuna dalla sua parte: l’Italia è allo stremo e non ha neppure la voglia, oltre che la forza, per cercare un altro leader; l’Europa, in tutte le sue articolazioni, è preoccupatissima perché l’Italia non è il Portogallo (che in termini di pil vale quanto la provincia di Treviso…) e salvare l’Italia o lasciarla affondare è roba da far crollare l’intero sistema dell’Unione e forse anche mezzo mondo. Due circostanze che fanno di Renzi l’uomo della provvidenza malgrado tutto e tutti, lui stesso compreso. Allora, un po’ di pazienza, Matteo Renzi: le carte buone arrivano, meno chiacchiere e più serietà. Anche perché i soldi sul tavolo da gioco sono i nostri ultimi risparmi.

Il frutto più subdolo e velenoso della crisi

Il frutto più subdolo e velenoso della crisi

Gianfranco Summo – La Gazzetta del Mezzogiorno

Gli italiani stanno facendo un corso accelerato di economia. A loro spese, purtroppo. A proposito di spesa, ora tocca alla parola deflazione. Vuol dire che i prezzi continuano a diminuire mese dopo mese. Il contrario dell’inflazione, che prevede un aumento dei prezzi. Detto così sembra una bella cosa: non è il sogno di ogni consumatore fare la spesa a buon mercato? Purtroppo no, non va bene. I prezzi sono un po’ come la febbre. Va male se salgono troppo o troppo velocemente, va malissimo anche se scendono sotto un livello minimo.

L’Italia è in deflazione perché gli italiani hanno sempre meno soldi da spendere. E chi dovesse averli, cerca di spendere con attenzione perché teme di perdere il lavoro o di guadagnare meno, insomma perché guarda al futuro con preoccupazione. L’immediata conseguenza di questo comportamento è la diminuzione dei prezzi. I commercianti mantengono il prezzo finché possono: poi cominciano a ridurlo progressivamente pur di incassare e pagare tasse, fornitori, dipendenti e fare margine anche per se stessi. Un margine sempre più basso. E su quel margine pagano, naturalmente, meno tasse. E sulle merci vendute lo Stato incassa progressivamente meno Iva man mano che le merci si deprezzano al punto che diventa antieconomico produrle.

Ecco perché la diminuzione dei prezzi non è una buona notizia: si impoveriscono tutti, anche chi spende meno. Perché chi spende meno a sua volta vede il reddito minacciato dai mancati guadagni del suo datore di lavoro (che sia lo Stato o un privato). La deflazione è dunque un circuito negativo. Il frutto più velenoso e subdolo della crisi. Perché colpisce tutte le categorie sociali in modo trasversale. E perché ha anche una componente psicologica che è la più difficile da invertire.

Ma si può dare torto al famoso padre di famiglia che decide di ridurre i consumi dal momento che vede – ad esempio – la metà dei suoi compagni di lavoro perdere il posto? Quindi sgombriamo subito il campo dalla più facile delle tentazioni: la colpevolizzazione della vittima. Se gli italiani non spendono non è colpa loro. Hanno ragione. Vediamo crollare intorno a noi tutte le certezze sulle quali abbiamo basato le nostre vite. Il minimo che può accadere è decidere di gestire le risorse certe in attesa di tempi migliori.

Che cosa fare, allora? E, soprattutto, chi può fare qualcosa? Intanto il grande sconfitto della deflazione è la Banca centrale europea, che ha come compito statutario quello di mantenere un livello di inflazione tendente al 2% annuo (insomma la febbre a 36,5 ogni giorno).
Qui la faccenda si complica, ma non poi tanto come si può temere. La Bce è il soggetto regolatore della circolazione dei soldi nell’Unione europea. In pratica, stampa i nostri soldi. Visto che un pezzo di Europa si sta impoverendo sempre più, potrebbe stampare più soldi ma per farlo dovrebbe avere l’autorizzazione di tutti i Paesi dell’Unione. Così hanno fatto le banche centrali di Usa, Gran Bretagna, Giappone. Così ha fatto in passato anche la Banca d’Italia con la lira. Ma la Bce non ha l’autonomia per farlo e i Paesi forti dell’Unione si guardano bene dal cambiare le cose.

Il presidente (italiano) della Bce, Mario Draghi, ha provato a forzare la mano. Come? Prestando danaro praticamente a costo zero alle banche, nella speranza che le banche a loro volta lo prestino a imprese e famiglie a tassi ragionevoli e dunque facendo circolare più soldi nelle tasche degli italiani (degli irlandesi, degli spagnoli, dei greci, dei portoghesi, dei francesi). Non ha funzionato. Le banche inizialmente si sono tenute in cassa quasi tutto quel danaro, esattamente come molte famiglie conservano in casa i risparmi e non spendono. Perché tutti hanno paura, anche le banche. Con una variante, però: le banche alla fine in questa situazione ci stanno guadagnando, a differenza delle famiglie. Perché le banche hanno il mondo intero come mercato sul quale investire i propri soldi (e quelli prestati dalla Bce) e guadagnarci comunque.