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Il paradosso del nostro benessere

Luca Ricolfi – La Stampa

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate. Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale. Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare).

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

È così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare. Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori. Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

I rimedi che servono all’Europa

I rimedi che servono all’Europa

Stefano Lepri – La Stampa

Si può obiettare a Draghi un po’ di schematismo, quando afferma che la ripresa economica c’è nei Paesi che hanno fatto riforme di struttura e manca in quelli che esitano. Al momento, nell’area euro a gonfie vele non ci va nessuno. Ma il presidente della Bce fa bene a insistere su quel punto, perché lì l’Europa è bloccata. Finché Italia e Francia non avranno preso di petto i rispettivi problemi non sarà possibile avviare quelle azioni collettive che pure al nostro continente servono. È ovviamente nel nostro interesse avere un Paese che funzioni meglio. In più, un governo che mostri impegno a renderlo tale ridurrà la diffidenza che spinge i Paesi nordici dell’euro a chiudersi nei rispettivi egoismi nazionali. A breve termine, solo più incisive azioni di politica economica a Parigi e a Roma possono rendere facile alla Bce la misura anticrisi aggiuntiva che molti le sollecitano, ovvero una massiccia espansione monetaria («quantitative easing») come attuato dalla Federal Reserve Usa o dalla Banca d’Inghilterra.

Forse sarebbe un po’ tardi. Forse i rischi sono cresciuti, come avvertiva ieri il governatore della Banca dell’India Raghuram Rajan, economista di grande fama: si sono spinte troppo in alto le Borse senza dare impulsi sufficienti alla produzione. Però all’Europa occorrono rimedi fuori dall’ordinario. Il rallentamento che pare estendersi (vedremo nei prossimi giorni altri dati sui Pil del secondo trimestre) non può essere attribuito tutto alla cattiva influenza dei Paesi malati come il nostro.

Può darsi che la ricetta tedesca di puntare tutto sull’export non funzioni più tanto bene nemmeno per la Germania stessa. Mostra aspetti di fragilità la ripresa della Spagna, indicata come esempio perché alcune importanti riforme le ha fatte.

La scarsa fiducia delle imprese nel futuro, che fa mancare gli investimenti, non è un fenomeno solo italiano; stupisce anzi di più nel Nord Europa. In una prospettiva più ampia, occorrono progetti comuni: Draghi indica in quella direzione parlando di sovranità condivisa sulle riforme. Non è molto il tempo per reagire: né in Italia né in Europa. Un avvio rapido delle riforme da noi – inutile discettare se sia più urgente la parte politico-costituzionale o quella economica – può essere utile a tutti gli altri Paesi.

Il rischio, ben presente ai politici, è che gli interventi siano impopolari nell’immediato, fruttuosi molto più tardi. Ma esitando la situazione non potrà che peggiorare. Il nuovo soccorso della Bce, se arriverà, arriverà soltanto verso la fine dell’anno. Se l’Italia si muove, in altre capitali diverrà meno facile negare che esistano nell’area euro problemi comuni per i quali le ricette fin qui sperimentate non bastano. Non nascondiamoci tuttavia che la Francia rappresenta oggi una incognita forse maggiore. Certo non è facile muoversi se autorevoli intellettuali sostengono, contro la riforma del Senato, che la più solida garanzia di libertà è un governo debole o se la sinistra Pd e Sel si uniscono ai Fratelli d’Italia nel firmare il referendum contro il Fiscal Compact europeo. La grande crisi ha posto l’Europa, l’Europa in particolare, davanti a problemi del tutto nuovi. Dunque fa invecchiare rapidamente le idee. Anche di questo occorre tenere conto.

Perché siamo gli ultimi della classe

Perché siamo gli ultimi della classe

Mario Deaglio – La Stampa

Perché mai quando il resto del mondo ricco si prende il raffreddore, l’Italia rischia la polmonite? Perché mai, gli altri Paesi fanno passi avanti, sia pure con fasi alterne, sulla via della ripresa mentre l’Italia si conferma sempre l’ultima della classe, pur avendo fatto molti sforzi negli ultimi anni? Questo interrogativo è riproposto con forza da una discesa superiore alle attese del prodotto lordo italiano. Indebolisce l’euro sui mercati finanziari, pone fine alla «luna di miele», breve oltre che tempestosa, tra governo e Paese, si riflette immediatamente sulle valutazioni che la finanza internazionale compie sul debito pubblico italiano, facendo aumentare il temutissimo «spread», vero termometro della nostra debolezza.

Per cercare un risposta occorre separare i dati dalla retorica dello sfascio. Tenendo anche conto dell’imprecisione delle misurazioni statistiche, i dati confermano un quadro di stagnazione assai più che denunciare un grave peggioramento; l’economia italiana non sta affondando. Si tratta però di un vecchio barcone che galleggia a fatica, pur presentando al suo interno segnali di ripresa, differenziati tra settori e regioni, che non riescono a rafforzarsi in maniera decisiva. La domanda interna ha tenuto e il rallentamento dell’economia deriva pressoché esclusivamente dal rallentamento delle esportazioni che ci hanno mantenuto a galla per tanto tempo. Non bisogna cedere a suggestioni troppo negative, alle reazioni a caldo di mercati finanziari che hanno sbagliato troppe volte. Tutto questo è corretto, ma sarebbe superficiale e anche irresponsabile cavarsela così. Ci sono alcune lezioni sgradevoli che il governo e l’opinione pubblica devono meditare.

La prima lezione è che la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani. Le famiglie italiane – nel loro complesso e tenendo conto di situazioni di crescente disagio reale – hanno le risorse per dare una forte spinta positiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere. Preferiscono invece aumentare i risparmi perché influenzate dal taglio negativo delle notizie economiche. Le riprese vere non avvengono per magia. Non si può pretendere che quelle riforme approvate dopo vent’anni di immobilismo agiscano in circa trenta settimane di un nuovo governo. Si tratta di un processo lungo e duro che oltre ai tecnicismi richiede l’ottimismo. Senza ottimismo, senza progettualità, senza piani aziendali e piani di vita personali è difficile che ci sia davvero una ripresa che vada al di là di un rimbalzo tecnico. Il governo deve prendere atto che, pur avendoci provato e pur godendo di un largo e sostanziale consenso, quest’ottimismo non è (ancora?) riuscito a suscitarlo.

La seconda lezione è che le cose non si cambiano con sforbiciate più o meno lineari sulla spesa pubblica e con la distribuzione a pioggia di piccoli benefici fiscali. Le cose cambiano davvero solo se esistono vere politiche di cambiamento: lo sapeva anche la signora Thatcher che, con tutto il suo iper liberismo, impostò con decisione alcune linee guida per lo sviluppo dell’economia britannica. Queste linee sono carenti nel programma del governo – che ha dato prova in questi giorni di voler tornare ad antiche abitudini di spesa che sono alla base del nostro debito pubblico – ma, quel che è peggio, sono pressoché totalmente assenti nel dibattito politico. Non possiamo rilanciare davvero l’economia se non abbiamo un’idea, per quanto approssimativa, del tipo di Paese che vorremmo che l’Italia diventasse tra dieci o vent’anni e se non la perseguiamo con coerenza e decisione.

La terza lezione è che questi cambiamenti sono intrinsecamente dolorosi, proprio perché sono dei cambiamenti. L’esperienza politica – e in particolare quella parlamentare – dell’ultimo anno mostra una grande diffusione della convinzione che i cambiamenti devono soprattutto riguardare gli «altri». Per non modificare la propria situazione – giusti o sbagliati che siano i cambiamenti proposti – piccole categorie di lavoratori sono disposte a bloccare tutto, come si è visto con un’importante prima teatrale e con il servizio bagagli dell’aeroporto di Fiumicino. Se non si è disposti a cambiare non si riparte. È questa la vera lezione dei brutti dati economici del secondo trimestre.

Il costo delle riforme mancate

Il costo delle riforme mancate

Luca Ricolfi – La Stampa

La lezione è semplice. Renzi ha la testa dura, ma i numeri hanno la testa ancora più dura. Sbeffeggiata dal premier fino a pochi giorni fa, l’economia si sta riprendendo un’amara rivincita. L’Istat ha annunciato che l’Italia è di nuovo in recessione (altroché ripresa nel 2014!), lo spread ha ricominciato a salire, la fiducia nell’Italia è gravemente compromessa sia sui mercati finanziari sia nelle cancellerie europee. Dopo aver trattato con sufficienza chi considera importante qualche decimale in più o in meno, ora Renzi può toccare con mano che è vero l’esatto contrario: crescere o invece decrescere dello 0,2% fa differenza, avere un debito pubblico in diminuzione o in aumento fa differenza, entrare in recessione piuttosto che uscirne fa differenza. Una differenza enorme.

Dal momento che è da gennaio, ossia da ancor prima che Renzi disarcionasse Letta, che insisto sull’imprudenza delle scelte di Renzi, oggi vorrei provare a lasciarlo in pace. Non è tempo di recriminazioni e di impietosi «io l’avevo detto». Quello su cui vorrei soffermarmi, semmai, è l’ambiente in cui Renzi e i suoi fedeli operano, dove per «ambiente» intendo il complesso di credenze, convinzioni, abiti mentali che finora gli hanno reso così facile procedere come uno schiacciasassi. Sono esse, a mio parere, le vere responsabili dell’incapacità dell’Italia di risollevarsi; sono esse il male che neutralizza (o «gattopardizza», direbbe Alan Friedman) ogni vero cambiamento; sono esse l’acqua in cui il pesce Renzi nuota. Di che cosa è fatta l’acqua in cui, come un banco di gagliardi tonnetti, si muovono i nuovi governanti?

Il primo ingrediente è la credenza che il cambiamento delle regole generali (legge elettorale, forma di governo, tipo di federalismo), un’attività in cui politici, giornalisti e diversi tipi di intellettuali si trovano tremendamente a proprio agio, sia più importante della bassa cucina delle politiche economico-sociali. Che bello discutere di bicameralismo, Senato elettivo o non elettivo, democrazia, rappresentanza, soglie, preferenze, sbarramenti e premi di maggioranza! Che barba la spending review di Cottarelli, le regole del mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, le privatizzazioni, le pensioni! Qui c’è un’incredibile leggerezza e confusione, come se su una nave che affonda, con i passeggeri che si dibattono fra i flutti, le scialuppe di salvataggio che non bastano a recuperare tutti, il comandante stesse appassionatamente discutendo come sostituire la vecchia radio di bordo con un modernissimo, e sicuramente utilissimo in futuro, sistema di navigazione satellitare.

Il secondo ingrediente, spesso imputato a Tremonti ma evidentemente molto radicato nella mentalità del Paese, è l’idea che buona parte dei nostri guai economici vengano dall’esterno e che, di conseguenza, anche la nostra salvezza sia destinata a venire da fuori. È l’Europa che impone l’austerità, è l’euro che è sopravvalutato e frena le nostre esportazioni, è la congiuntura nell’eurozona che è in ritardo. Dunque è la Commissione europea che deve allentare il rigore, è Mario Draghi che deve indebolire l’euro, e quanto alla ripresa si tratta solo di aspettare. Con le parole del premier: «È un po’ come l’estate: non è che è arrivata quando volevamo, magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo ma arriva» (esercizio: provate a immaginare che cosa sarebbe successo se, dopo 7 anni di crisi, una rassicurazione del genere l’avesse data Berlusconi). Questa visione vagamente fatalistica e attendista, che verosimilmente ha le sue radici nella storia d’Italia, con la sua lunga soggezione a invasori e popoli stranieri, è di per sé un potente fattore di sottovalutazione dell’urgenza e dell’impatto delle riforme economico-sociali. Se, almeno nel breve periodo, quasi tutto dipende da quel che succede nel mondo esterno, se il vero problema è l’Europa, beh allora perché tanta fretta sulle riforme economico-sociali? Meglio dare un segnale di cambiamento (ma i governanti preferiscono chiamarlo «svolta epocale») sul terreno delle regole, sul resto ci si annoierà più avanti. Il guaio è che questa diagnosi è difficilmente conciliabile con i dati. È vero che l’Europa cresce di meno di altre aree del mondo, ma il punto è che le differenze interne all’Europa, comprese quelle interne all’eurozona, sono enormi: la differenza fra i tassi di crescita dei Paesi-gazzella e quelli dei Paesi-lumaca è di 7-8 punti, l’Italia cresce meno della media degli altri Paesi, e la sua posizione in graduatoria è oggi esattamente quella di prima della crisi: solo 2 Paesi su 30 fanno peggio di noi.

C’è anche un terzo ingrediente, però. È il keynesismo di comodo che si impadronisce di chiunque, di destra o di sinistra, si trovi a dover governare il Paese. Che cos’è il keynesismo di comodo? È la convinzione che, nonostante lo stato drammatico dei nostri conti pubblici, la via maestra per far ripartire l’economia sia qualche forma di sostegno alla domanda di consumo, come gli 80 euro in busta paga o l’allentamento del patto di stabilità, non importa se al prezzo di aumentare il debito pubblico, ossia il fardello che lasceremo alle generazioni future. Che questa convinzione sia sostenuta, oltre che dagli interessi elettorali dei governanti, da più o meno sofisticate teorie economiche, poco toglie alla sua radicale mancanza di senso della realtà. Solo chi non ha la minima idea dei problemi di chi conduce un’impresa può pensare che la decisione di chiudere o non chiudere, di licenziare o di assumere, possa dipendere da un aumento dello 0,2% o anche dello 0,5% della domanda di consumo, e non da un sostanzioso recupero di redditività, sotto forma di riduzione del prelievo fiscale sui redditi di impresa. Per questo mettere 10 miliardi sull’Irpef anziché sull’Irap è stata una mossa geniale sul piano elettorale, ma stolta sul piano economico.

E anche qui, non si creda che Renzi sia stato particolarmente innovativo: la stessa scelta, rinunciare a mettere tutte le risorse sull’Irap, fu fatta già da Prodi nel 2007, contro il parere del suo ministro dell’Economia, il compianto Tommaso Padoa Schioppa. E’ una vecchia storia. Ai politici piace spostare risorse, ridistribuire da un gruppo sociale (nemico) all’altro (amico), perché in cuor loro sono convinti che l’ampiezza della torta da spartirsi in fondo non dipenda dalle loro scelte, mentre è vero il contrario: la politica ha fatto molto per soffocare l’economia, e molto potrebbe fare per cominciare a riparare il danno. Ma questo qualcosa si chiama riforme economico-sociali, a partire dalla dimenticata riforma del mercato del lavoro, spostata alle calende greche perché troppo scottante, o meglio troppo divisiva per il Pd. E’ sulle riforme difficili, sulle misure necessarie ma impopolari, che passa il confine fra spavalderia e coraggio, fra la retorica delle «svolte epocali» e la prosa delle scelte che contano.

 Ci sarebbe poi, se vogliamo dirla tutta, anche un ultimo ingrediente che fornisce il suo speciale sapore all’acqua delle non-riforme in cui i nostri governanti nuotano con tanta disinvolta naturalezza. Quell’ingrediente è la nostra facilità a passare da un modello al modello opposto, il nostro bisogno di affidarci a qualcuno, la nostra attrazione per ciò che appare vincente, la nostra perenne oscillazione fra indignazione e indifferenza, fra entusiasmo e apatia. Insomma, lo stato dei nostri media e della nostra opinione pubblica. Ma questo, ne convengo, è un altro discorso.

Tagli, dare più potere al commissario

Tagli, dare più potere al commissario

Franco Bruni – La Stampa

Il governo Renzi ha avuto finora molto appoggio dall’opinione pubblica. Ma ha almeno due debolezze, in parte nascoste da due corrispondenti forze. Nascosta dal gran successo alle europee è la prima debolezza: un supporto parlamentare ancora fragile. Nascosta dal chiaro impeto strategico del suo presidente è la seconda debolezza. L’insufficiente precisione tecnica, la fretta con cui sorvola sui dettagli dei disegni e delle procedure di riforma del Paese, soprattutto dell’economia. Il caso Cottarelli sembra all’incrocio fra le due debolezze: da un lato i tagli del commissario sono boicottati e sprecati da un Parlamento che offre ancora coperture alle lobby, dall’altro il suo lavoro soffre delle carenze, tecniche e procedurali, con cui ne sono stati decisi il mandato, i poteri, i supporti tecnici, e con cui viene curato il suo collegamento con le decisioni politiche. Un commissario alla revisione della spesa non è indispensabile: ma se c’è deve poter lavorare con efficacia.

Cominciamo dai problemi politici. In Italia gli sprechi della spesa pubblica sono talmente grandi che in parte si possono eliminare alla svelta anche senza progetti di riorganizzazione ben definiti. Quando si buttano i soldi dalle finestre basta chiudere le finestre. Occorre però almeno la forza politica per farlo: disboscare le imprese pubbliche e gli enti locali non è tecnicamente difficile, basta che, diversamente a quel che succede ai suggerimenti di Cottarelli, ci sia una maggioranza pronta a vincere le resistenze del bosco. Il terreno politico-burocratico-parlamentare non è pronto a digerire quella rivoluzione dell’economia che Renzi continua giustamente a promettere incontrando il favore dell’elettorato. Lo mostra la grossolanità con cui i risparmi individuati dal commissario vengono destinati alla spesa prima di essere realizzati, usando, oltretutto, la clausola di salvaguardia che dispone, qualora i risparmi non avvenissero, di procurarsi le risorse proprio con quei tagli lineari per evitare i quali è stato chiamato un commissario. Lo mostrano i passi indietro fatti dal Parlamento sulle pensioni, con gravi e costose deroghe alla riforma Fornero. C’è disordine, troppo: il fatto che sia colpa del Parlamento o anche del governo non cambia molto. Renzi non è sul pezzo, in altre importantissime faccende affaccendato, ha chiarito la sua strategia economica ma non pare in grado di presidiare la disciplina delle singole cose che servono per evitare che si cammini all’incontrario.

Veniamo ora ai problemi tecnico-procedurali. C’è una parte dell’eccesso di spesa pubblica che non si elimina tagliando sprechi clamorosi ma dettagliando bene certe riforme strutturali: sanità, scuola, lavoro, enti locali, ecc.. Il risparmio di spesa è parte della riforma. La quale comprende spesso anche la decisione circa l’impiego dei risparmi che consente. Perché è inutile insistere sul fatto che in Italia la spesa pubblica è eccessiva, senza riconoscere che, soprattutto sul fronte investimenti, ci sono tanti capitoli in cui la spesa è troppo scarsa. La giusta riduzione complessiva della spesa non basta per ridurre le tasse più dannose per la crescita. Per abbassare quelle tasse, come quelle sul lavoro, bisogna alzarne altre, riformare cioè l’insieme della tassazione e, soprattutto, ridurre drasticamente l’evasione. Perciò il lavoro di Cottarelli dovrebbe essere strettamente collegato al disegno e all’attuazione di piani di riforma generale dell’economia, pubblica e privata. Ciò richiede, in primo luogo, che i poteri e gli strumenti del commissario siano rafforzati e meglio definiti. È istruttivo il caso del commissario anticorruzione all’Expo: anche Cantone ha dovuto lamentarsi per evitare di essere scagliato allo sbaraglio senza chiarezza nel mandato e nei poteri. In secondo luogo serve che i piani di riforma generale dell’economia esistano davvero e siano tempificati e cifrati credibilmente, nelle spese, nelle entrate e nei risparmi che comportano. Il commissario alla revisione della spesa può anche contribuire ad accelerare la preparazione di questi piani: come semplice tagliatore di sprechi è sprecato.

Per far buone riforme occorre competenza tecnica, precisione e consapevolezza dell’importanza dei dettagli, abitudine non a improvvisare ma a elaborare e controllare procedure e regole da applicare con regolarità. Sono caratteristiche che non mancano a Carlo Cottarelli. E nemmeno gli manca la convinzione politica che deve firmare le scelte tecniche. Renzi ha ragione quando insiste che la politica e le sue scelte devono essere in prima fila. Ma sbaglia se presenta la scelta politica come un obiettivo privo di dettaglio tecnico, se esagera nel tenere politica e tecnica separate, se si circonda di tecnici ai quali non riconosce l’influenza politica che meritano. Cottarelli ha commissionato a gruppi di esperti diversi rapporti su singoli capitoli della revisione della spesa; non ha avuto l’autorizzazione a diffonderli: una mancata trasparenza che è anche mancanza di rispetto per chi ha lavorato, oltre che con competenza, con passione civile e convinzione politica.

È augurabile che Carlo Cottarelli rimanga e, soprattutto, che la revisione della spesa sia inserita con chiare responsabilità nell’apparato tecnico-politico dedito all’approntamento e all’avvio, concreto e ben contabilizzato, di un piano organico e pluriennale di riforme economiche che è l’unica cosa che l’Europa ci chiede per poter guardare al nostro debito pubblico con minor preoccupazione.

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia è il Paese bloccato dalle minoranze. Ma non nel senso che le minoranze fanno il loro mestiere opponendosi alla maggioranza a colpi di idee e progetti migliori e alternativi. No, ci mancherebbe. Nel senso che le minoranze si rifiutano di accettare l’a,b,c del funzionamento democratico, e cioè che la maggioranza debba, a un certo punto, esercitare il suo diritto a decidere. Per le opposizioni questo è un atto di lesa maestà. Con l’aggiunta della solita tripletta: illiberale, autoritario, un golpe. Tre storie di questi giorni ci dicono la stessa cosa. Il Senato, l’Alitalia e il Teatro dell’Opera di Roma. Non proprio tre cosette da poco, ma tre settori strategici: politica, lavoro, cultura. Il messaggio è il medesimo: meglio il fallimento piuttosto che cambiare.

Alitalia. Dopo sette mesi di trattative per salvare un’azienda sull’orlo del baratro, l’accordo con Ethiad viene di nuovo messo in discussione. Nel momento in cui gli azionisti votavano la ricapitalizzazione, il referendum tra i lavoratori rischiava di bloccare tutto. L’80% dei votanti ha detto sì all’accordo, ma secondo la Uiltrasporti non solo la consultazione non è valida perché non è stato raggiunto il quorum, ma non sarebbe valido nemmeno l’accordo con Ethiad, che a questo punto andrebbe rinegoziato. E conta poco che la maggioranza del sindacato, Cgil, Cisl e Ugl, che rappresentano il 65% dei lavoratori, la pensi in modo contrario; la minoranza, forte dei cavilli offerti dal Tu sulla rappresentanza, chiede che si torni alla casella di partenza. Nel frattempo gli emiri stanno per alzarsi e scappare via, mentre noi continuiamo a ripeterci che il problema più grosso del nostro Paese è che gli investitori stranieri non ci considerano più.

Il Teatro dell’Opera. Dopo ben 19 incontri con la Cgil e gli autonomi della Fials, anche la terza recita della Bohème salta e si va verso la liquidazione coatta dell’ente. Anche qui non è sufficiente che il 70% dei lavoratori abbia accettato il piano di risanamento, che non prevede né licenziamenti né mobilità, ma semmai un aumento della produttività in linea con l’Europa. Le minoranze riottose hanno deciso di scioperare e di far saltare tutto. Reclamando addirittura ampliamenti dell’organico che nello stato di indebitamento dell’ente vuole dire: mandiamo tutto a catafascio.

E poi c’è il Senato. Fino ad oggi la sbandierata volontà di superare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari è sempre stata contraddetta, nei fatti, per oltre vent’anni, dalla silenziosa resistenza corporativa di quasi tutto il ceto politico. Il rottamatore ha travolto quel tipo di resistenza e rotto l’incantesimo. Una larga maggioranza di forze politiche dell’establishment ha preso atto che si deve cambiare ed è pronta a mozzarsi un braccio (del Parlamento). Paradossalmente però ora sono proprio i castigatori della casta a mettersi di traverso, insieme ad alcuni eredi del Pci (fieramente monocameralista) e una variopinta compagine di sedicenti protettori della Costituzione. Anche in questo caso le minoranze che si oppongono pretendono non solo di avere una sede istituzionale in cui esporre le loro opinioni, ma di rinviare sine die le decisioni. Chiunque capisce che nelle oltre cinque ore disponibili per i loro interventi i grillini (nella nuova versione salva-casta) avranno tutto il tempo necessario per esporre le loro ragioni. Per quale motivo l’aula del senato dovrebbe essere impegnata ad libitum come teatrino o sfogatoio? Che c’entra questo con la democrazia? Il contingentamento dei tempi, di fronte al palese ostruzionismo di una minoranza, è un dispositivo previsto ovunque, incluso il regolamento del Senato.

In Italia dunque si continua a giocare col fuoco. Ci si attacca a tutto, formalismi, bizantinismi e microemendamenti, pur di rimanere fermi. Meglio se immobili. Peccato però che dall’altra parte i cittadini aspettino riforme e cambiamento. Da 30 anni si sentono dire che si fanno le riforme istituzionali e siamo ancora il Paese in cui è il Parlamento stesso a bloccare tutto e non c’è una legge elettorale decente. Siamo il Paese con più disoccupati in Europa, ma soluzioni ragionevoli con sacrifici tollerabili in fondo non vanno bene, meglio tornarci sopra e aprire infiniti tavoli di discussione. E il Paese in cui per la terza volta si dice al pubblico, scusate questa sera lo spettacolo salta. Statevene a casa. E a forza di blocchi, resistenze e paralisi non rimarrà che stare a casa veramente. A guardare l’inesorabile declino di un Paese che non si muove più.

Per le imprese ricavi in crescita ma occupazione al palo

Per le imprese ricavi in crescita ma occupazione al palo

La Stampa

Le imprese, dopo una lunga crisi, prevedono che nel 2014 per il fatturato tornerà il segno più ma anche che l’occupazione continuerà a contrarsi nella stessa misura dell’anno prima. Un quadro del lavoro in cui soffrono di più i settori tradizionali del manifatturiero ed il Sud, dove la flessione prevista è peggiore di quella del 2013, mentre resterà negativa ma in misura minore nel Centro Nord. Migliorano ma sono ancora più negative del quadro generale le attese per le costruzioni. È lo scenario che emerge dall’indagine della Banca d’Italia sulle imprese dell’industria e dei servizi privati non finanziari: un bilancio del 2013 che emerge da interviste alle imprese che si sono svolte nei primi mesi di quest’anno e che registra anche programmi e aspettative per il 2014; gli imprenditori «si attendono una ripresa del fatturato», + 2,1%, ma «la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa», -1%, come lo scorso anno. Dopo un 2013 che si è chiuso con un fatturato «lievemente diminuito», – 0,3% (sintesi del +0,4% nell’industria a fronte di un -1% nei servizi), per quest’anno «le imprese si attendono una ripresa del fatturato più accentuata nell’industria (+3,1%) rispetto ai servizi (+1,1%)». Non così sul fronte del lavoro: l’occupazione media calerà ancora dell’1%, con un -0,9% nell’industria (-1% nella manifattura) ed un -1,1% nei servizi. Se la flessione totale è come quella dello scorso anno, le attese delle imprese vedono la contrazione di posti di lavoro peggiorare dal -1,3% al 2,6% nel Sud e Isole e ridursi dal -1% al -0,8% nel Centro Nord.

Che fare se la Sanità non regge più

Che fare se la Sanità non regge più

Luigi La Spina – La Stampa

In teoria, il nostro è il miglior sistema sanitario del mondo, perché assicura l’assistenza gratuita a tutti. Lo sarebbe senz’altro, se fosse vero. È questa una delle tante illusioni di cui l’Italia si è fatta vanto in questi anni, compatendo non solo i poveri americani che hanno dovuto aspettare Obama per contare su una sanità un po’ più accessibile, ma anche i vicini di casa europei che possono godere, forse, di strutture ospedaliere più moderne ed efficienti, ma che pagano di più per essere curati. Ora, sembra che non sia più possibile continuare a mascherare la reale situazione di disagio e, in alcuni casi, di vera ingiustizia a cui sono sottoposti tanti italiani che si ammalano, perché in molte regioni italiane la spesa pubblica per la sanità continua a crescere in maniera incontrollata, con il rischio che il nostro sistema di welfare faccia crac. Al di là dei solenni impegni di risanamento delle nuove giunte regionali, dopo la consueta denuncia degli sprechi attribuiti alla precedente amministrazione, i costi della sanità pubblica continuano a crescere per motivi del tutto comprensibili.

La prima causa è quella demografica: il continuo allungamento delle speranze di vita, confortante soprattutto per noi italiani rispetto alle popolazioni di altri paesi del mondo, lo è meno per chi dovrà fornire le cure indispensabili ad anziani sempre più numerosi. Anche perché sono arrivati e stanno per arrivare alla soglia della vecchiaia, generazioni nate dopo il secondo dopoguerra, nel periodo del cosiddetto «baby boom». Per tutti costoro dovranno provvedere i contributi allo Stato di figli e nipoti, poveri nel numero e ancor più poveri nella capacità finanziaria di stipendi a rischio di precarietà e di tagli imposti dalla crisi.

Pure il secondo motivo della futura insostenibilità del nostro sistema di welfare deriva dal progresso, quello della moderna medicina. Ormai i costi per procurare ai nostri ospedali le più avanzate attrezzature diagnostiche e chirurgiche, ma anche per assicurare ai malati i farmaci più recenti, sono aumentati in maniera impressionante. Né sarebbe augurabile che si facessero risparmi in questi necessari investimenti, pena una assistenza di serie B rispetto alle altre nazioni dell’Occidente. È vero, inoltre, che sprechi e inefficienze sono assai diffusi, ma sull’esito delle rituali battaglie propagandistiche dei nostri amministratori regionali è bene far poco conto: l’assistenza sanitaria è un enorme bacino di clientelismo politico, di potere baronale e sindacale, anche quando non si registrano casi di corruzione penalmente perseguibile. Queste fortissime macchine di resistenza corporativa innalzano muri di gomma di fronte ai quali anche i migliori propositi di riforma e di razionalizzazione delle spese sono destinati a infrangersi.

Ecco perché lo slogan del welfare all’italiana, «sanità gratuita per tutti», è una illusione che tradisce la realtà. Quella di chi, di fronte alle lunghissime liste d’attesa per un intervento chirurgico, per una visita specialistica, ma anche per un semplice controllo di prevenzione, è costretto a rivolgersi alle cure di una struttura privata, con costi salatissimi. Quella di numeri che dimostrano le evidenti contraddizioni del sistema, basti osservare che quel cinquanta per cento della popolazione esente da ticket costituisce l’ottanta per cento degli assistiti da parte del servizio pubblico nazionale. Quella di coloro che non possono usufruire dei cosiddetti «livelli essenziali d’assistenza», perché i deficit delle sanità regionali sono tali da costringere i dirigenti a ridurre personale e strutture anche in quei settori. È ora di colmare il divario insopportabile tra illusione e realtà del nostro welfare sanitario, prendendo atto di un sistema che non regge più e che, soprattutto, non reggerà più nel prossimo futuro. Assicurare l’assistenza gratuita a coloro che non si possono permettere le cure è non solo un diritto del cittadino, ma un dovere di uno Stato civile. Garantirlo a tutti non è più possibile e prometterlo vuol dire perpetrare una truffa.

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

La Stampa

Sono le Pmi di Italia e Spagna le grandi vittime della crisi del debito sovrano che si è abbattuta sull’Europa negli ultimi quattro anni. Lo rivela, o meglio lo conferma, uno studio pubblicato dalla Bce nel suo bollettino mensile di luglio. «L’impatto della crisi del debito sovrano sui finanziamenti e sui bilanci della banche – osserva l’Eurotower – ha probabilmente avuto conseguenze più pesanti sulle aziende più piccole e che dipendono maggiormente dai prestiti bancari e sulla loro attività reale, come mostrato anche dai primi studi empirici effettuati su dati italiani». L’andamento disomogeneo in Europa dei tassi sui prestiti alle imprese non finanziarie, «soprattutto a partire dal 2011, suggerisce considerevoli differenze nei costi di finanziamento delle piccole imprese localizzate in Francia e Germania da una parte, e in Italia e Spagna dall’altra. Simili disparità riflettono probabilmente sia il contesto economico e il rischio sovrano associato sia i rispettivi costi della raccolta delle banche nazionali», spiega la Bce. In particolare, «tra le aziende spagnole e italiane non solo il livello assoluto dei tassi bancari era sostanzialmente più elevato rispetto alle imprese francesi e tedesche ma anche i maggiori premi versati alle Pmi» in termini di interessi bancari «rispetto alle grandi aziende sono aumentati considerevolmente nel 2011 e nel 2012».

La forbice tra piccole e grandi aziende si spiega in due modi: le Pmi si finanziano quasi esclusivamente attraverso prestiti bancari e l’assenza di canali di finanziamento alternativi le rende più vulnerabili; le piccole aziende dipendono dalla domanda interna più delle grandi (che invece riescono a spalmare il rischio su più mercati) e dunque i loro bilanci hanno sofferto maggiormente all’apice della crisi, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna. Le Pmi italiane e spagnole insomma si trovano a dover fronteggiare una situazione molto più complicata delle loro concorrenti tedesche e francesi. Oggi per ottenere un credito a breve termine (inferiore a un anno) per un importo superiore al milione di euro una Pmi spagnola paga un tasso d’interesse medio del 5%, una italiana del 4,3%, una tedesca del 3% e una francese del 2,3% circa. La situazione è migliorata solo in minima parte nell’ultimo anno. Il tutto in un contesto congiunturale che stenta a migliorare. I dati negativi della produzione industriale in Italia, Francia e Germania a maggio fanno pensare a una frenata del Pil nell’area euro nel secondo trimestre dopo il già non esaltante +0,2% del primo trimestre. «I rischi geopolitici nonché l’andamento dei Paesi emergenti e nei mercati finanziari mondiali – afferma la Bce – potrebbero influenzare negativamente la condizioni economiche, anche tramite effetti sui prezzi dell’energia e sulla domanda mondiale di beni e servizi provenienti dall’area euro». Secondo l’Eurotower «un altro rischio è connesso a riforme strutturali insufficienti nei Paesi dell’area».

Bagni, saline, hotel e funivie: la saga dei Comuni tuttofare

Bagni, saline, hotel e funivie: la saga dei Comuni tuttofare

Alessandro Barbera – La Stampa

L’ultima relazione della sezione regionale della Corte dei Conti dice che il bilancio della Sicilia è regolare. Fanno eccezione – definiamoli così – alcuni non trascurabili dettagli. Anzi, trentatré: le società partecipate dalla Regione. C’è chi estrae il sale (Italikali), chi fa consulenza imprenditoriale (Sicilia Sviluppo), chi commercia all’ingrosso (Mercati Agri Alimentari) o produce software (Sicilia e-servizi). A quelle latitudini la crisi dei debiti sovrani non è mai arrivata, diversamente non si spiegherebbero le due acquisizioni dell’anno scorso: le quote dell’aeroporto di Trapani e il 20 per cento di Interpoli siciliani. Per la Corte è impossibile «una valutazione precisa dei valori patrimoniali», «l’assenza di introiti», l’«impatto considerevole derivante dagli oneri sostenuti» per gli oltre settemila dipendenti: più di un miliardo di euro fra il 2009 e il 2012, 300 milioni solo l’anno scorso. Per cogliere fino in fondo le ragioni che spingono i tedeschi a non dare troppo spazio alle richieste di flessibilità dell’Italia è in numeri come questi.

In passato alcuni politici hanno tentato di convincerci che per risolvere il problema basterebbe separare l’Italia in due e liberarsi del Sud. Poi uno scorre un’altra relazione – questa volta della sezione «autonomie» della Corte dei Conti – e capisce perché alla fine gli italiani non gli hanno creduto. Delle circa 7.500 società censite, il 34 per cento stanno nel Nord Ovest, una su quattro nel Nord Est. La sola Provincia di Trento conta quaranta partecipazioni. Gestisce quattro alberghi – fra cui il mitico Hotel Lido Palace – campi da golf, funivie, masi di montagna e distretti tecnologici. Qualcuno obietterà che occorre distinguere fra chi fa utili e chi non li fa. Sappiamo che molte, troppe, fanno più perdite che utili e che l’unica soluzione per risolvere i loro problemi è un piano industriale per accorpare le più importanti. La chiusura delle Province inizia a dare i suoi effetti, se ieri il presidente di Vercelli, in una lettera piccata a Renzi, ha annunciato «la vendita degli ultimi gioielli di famiglia». A titolo di esempio, è sempre più difficile sostenere che abbia senso per il Comune di Treviglio occuparsi di trattamento degli scarti di legname con la “Ecolegno bergamasca”. L’universo delle partecipate italiane conta 87 società per la pesca e la silvicoltura, 166 si occupano di sport e divertimento, 187 fanno commercio all’ingrosso o riparazione di auto e moto. Altre 149 società si occupano di noleggio, viaggi e di «servizi di supporto alle imprese», 106 di costruzioni, 383 gestiscono hotel e ristoranti. Settori nei quali la crisi non è mai davvero arrivata Eppure nel 2012 la società che gestisce gli impianti sportivi di Cortina è riuscita a perdere più di un milione e mezzo di euro.

Fra le grandi città quella specializzata nel mandare in rosso le società controllate è senza dubbio Genova. Non c’è solo il noto caso dell’azienda dei trasporti, meno di dieci milioni nel 2012 e una privatizzazione bloccata dallo sciopero selvaggio degli autisti genovesi. Nella lista della Corte dei Conti svettano “Sportingenova” – i cui due milioni di rosso sono nulla rispetto ai nove persi da “Milanosport spa” – e i 109mila euro persi da “Bagni marina genovese spa”, la società proprietaria di alcune delle spiagge più belle del litorale. Se c’è un settore in cui far tornare i conti non è difficile è quello delle concessioni. Se poi la concessione è una spiaggia e c’è da gestire ombrelloni e bagnini, per andare in perdita occorre impegno.