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L’austerità? In Italia mai provata

L’austerità? In Italia mai provata

Alberto Mingardi – La Stampa

La politica italiana è litigiosa e polarizzata, ma su alcune cose destra e sinistra hanno più in comune di quanto lascino ad intendere. Per esempio, è convinzione generale che «l’austerità ha fallito». Le differenze sono questione di sfumature: chi sta all’opposizione vuole uscire dall’euro, chi governa agisce per una maggiore «flessibilità» delle regole europee. Cambiano i mezzi, il fine è lo stesso: far ripartire il cuore dell’economia italiana, tornando a pompare denaro pubblico.

Che cosa sia l’«austerità», non è proprio chiarissimo. Solo alcuni anni fa si parlava di «consolidamento fiscale», per riferirsi a quell’insieme di politiche che dovrebbero riportare il bilancio pubblico verso il pareggio. Il consolidamento fiscale può avvenire dal lato delle entrate, e cioè con un aumento della pressione fiscale, o da quello delle uscite, e dunque con una riduzione della spesa pubblica. Nella narrazione oggi prevalente, l’austerità «fallimentare» è proprio quella che coincide con la riduzione della spesa (in alcuni casi, fraintesa con un rallentamento del tasso di crescita della spesa). Diminuire le spese pubbliche significherebbe «mettere in discussione il nostro modello sociale», cosa a cui nessun politico è disponibile, perché teme un’erosione dei consensi. L’esempio della Grecia è quello citato più spesso: l’austerità pilotata dalla «troika» farà il pieno di voti a Syriza e a Alexis Tsipras. Dal punto di vista delle classi dirigenti, il principale fallimento delle politiche d’austerità è il non assicurare la rielezione a chi le pratica, spalancando le porte alle forze d’opposizione.

Guardiamo però ai Paesi cosiddetti Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. In Italia il «consolidamento fiscale» è passato per la riforma delle pensioni, per un inasprimento della pressione tributaria, soprattutto sugli immobili, e per una «spending review» che prima di arrivare alla fase operativa è sparita dalle pagine dei quotidiani e dall’agenda politica. Negli altri Paesi, vi è stato un mix di interventi sul fronte della spesa e su quello delle entrate, orchestrato in Portogallo, Irlanda e Grecia dalla cosiddetta «troika». Le soluzioni sperimentate sono state sicuramente imperfette, ma hanno provato ad intaccare il corpaccione della spesa con maggior determinazione che dalle nostre parti.

Nessuno di questi Paesi pare avviato verso un turbinoso sviluppo alla cinese. Eppure le stime del Fondo Monetario Internazionale accreditano il Portogallo di una crescita di poco meno dell’uno per cento nel 2014, l’Irlanda di una crescita del 3.6, Grecia e Spagna rispettivamente dello 0,6 e dell’1,3. Per il 2015, le aspettative di crescita sono dell’1,5 % (Portogallo), del 3% (Irlanda), del 2,8 e dell’1,6% (Grecia e Spagna). Poco? Può darsi. Ciascuno di questi Paesi aveva problemi e criticità già prima della crisi: non esistono panacee. L’economia greca, per esempio, è ancora ingessata da bardature che rendono estremamente complessa l’attività produttiva. L’iper-regolamentazione è un male comune.

Quel poco però è di più della crescita negativa che il nostro Paese ha registrato nell’ultimo anno e dello 0,8% che il Fondo Monetario prevede per questo (la Banca d’Italia prevede invece lo 0,4%). L’essersi progressivamente avvicinata al pareggio di bilancio, raggiunto nel 2014 con un anno d’anticipo sulla tabella di marcia, non ha impedito alla Germania di essere il Paese più invidiato dell’eurozona. In Italia, secondo l’Istat, nell’ultimo trimestre del 2014 l’incidenza sul Pil delle uscite totali delle pubbliche amministrazioni è aumentata, dal 47,4 (2013) al 48% del Pil. Nei tre trimestri precedenti, il rapporto era rimasto invariato rispetto all’anno precedente. Si dirà che si è ridotto il denominatore, ovvero il Pil. Il che è verissimo, ma dimostra soltanto che la spesa pubblica è considerata una sorta di «variabile indipendente», com’era il salario per Luciano Lama.

Quello sull’austerità è un «dibattito filosofico-culturale», come ha detto Matteo Renzi al Parlamento europeo. Ma, quando affermano che l’«austerità ha fallito», i nostri leader politici chissà a quale Paese si riferiscono. Negli stessi Piigs, il fallimento non è affatto evidente. Della Germania meglio non dire. Quanto all’Italia, perché l’austerità potesse fallire, prima avremmo dovuto sperimentarla.

Blitz contro un mondo pietrificato

Blitz contro un mondo pietrificato

Francesco Manacorda – La Stampa

Difficile condividere la sicurezza di Matteo Renzi sul fatto che il decreto varato ieri dal governo per trasformare le dieci maggiori banche popolari in società per azioni cambi segno a una situazione in cui «abbiamo troppi banchieri e troppo poco credito». Non esistono studi che dimostrano che con meno banche e banchieri le imprese vedano aumentare il credito concesso, né ci sono evidenze sul fatto che le banche popolari facciano crediti in misura inferiore di quanto accada alle banche che sono Spa.

Più facile comprendere le ragioni che hanno spinto Renzi a un vero e proprio blitz per decreto sulle popolari e immaginare quali saranno le conseguenze di questa mossa. Le ragione principale, per usare le parole del ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, è quella di «dare una scossa» al sistema davvero pietrificato delle popolari, che basandosi sul voto capitario – una testa un voto, indipendentemente da quante azioni si abbiano in tasca – ha finora consentito alla maggior parte di esse di mettersi al riparo da qualsiasi rischio di scalata da parte di altre banche e in molti casi ha assicurato la permanenza al vertice degli stessi uomini per periodi che si misurano non in anni ma in decenni. E la conseguenza facilmente prevedibile di questa scossa è un aumento delle concentrazioni bancarie.

Era comunque opportuno muoversi per sanare un’anomalia più e più volte segnalata anche dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: la maggior parte delle dieci maggiori popolari che rientrano nel decreto sono assimilabili ormai, per dimensione e modalità operative, ai grandi gruppi bancari. Corretto, dunque, uniformarle a questi sotto alcuni profili: una governance che permetta a chi ha la maggioranza del capitale di incidere e non ostacoli né contendibilità né ricambio ai vertici, una maggiore trasparenza nei rapporti con le autorità di vigilanza, financo – sostengono alcuni – la possibilità di accedere al mercato del credito con condizioni migliori. L’urgenza della manovra è dettata anche dall’entrata in vigore dell’Unione bancaria e dalla necessità di avere condizioni il più possibile uniformi tra i vari istituti.

Si reciderà in questo modo il rapporto delle popolari con il territorio, come protestano insolitamente concordi esponenti di destra, di sinistra e dei Cinque stelle? Non necessariamente. Anche in questo caso non è dimostrata la relazione tra la governance di una banca e il suo rapporto con la realtà in cui opera. E il fatto stesso che una vasta porzione di banche più piccole, in particolare quelle di credito cooperativo, non venga toccata dal provvedimento, dimostra che secondo il governo il cambio di registro non è necessario per tutti.

La conseguenza prevedibile della mossa di ieri, magari anche prima che si siano esauriti i 18 mesi di tempo dati alle popolari per cambiare il loro statuto, è dunque che le nuove società per azioni – non più frenate dal voto capitario che sottopone qualsiasi decisione al voto della maggioranza non delle azioni, ma degli azionisti – saranno protagoniste di fusioni e acquisizioni. Magari tra di loro; magari unendosi a qualche Spa già esistente; magari salvando qualcuna delle Spa bancarie in difficoltà. Se infatti i critici delle popolari citano casi scandalosi come quello della Popolare di Lodi o di Banca Etruria, dal mondo del credito cooperativo si può rispondere ricordando casi come Mps, Carige e Banca Marche, in cui l’essere società per azioni non ha evitato di finire in un mare di guai. Come a dire che non basta solo il modello Spa per eliminare i rischi di una cattiva attività bancaria.

Se la giustizia frena l’economia

Se la giustizia frena l’economia

Francesco Manacorda – La Stampa

Peso della corruzione a parte, chissà se il 2015 sarà finalmente l’anno buono per schiodare l’Italia da quella umiliante posizione – 147 a su 198 Paesi – che l’indagine «Doing Business» della Banca Mondiale ci assegna quando si parla di esecuzione forzosa di un contratto per via giudiziaria. Centoquarantasettesimi nell’ultima rilevazione e centoquarantasettesimi anche nella precedente, con un progresso certificato dello 0,00 per cento e 1185 giorni per chiudere un procedimento contro una media di 540 giorni per i Paesi più ricchi dell’Ocse. È vero, l’indagine fatta sotto le insegne della Banca Mondiale non è il Vangelo; talvolta anzi viene contestata. Ma è innegabile che il mix di tempi della giustizia lunghi e scarsa certezza del diritto è una miscela esplosiva per qualsiasi operatore economico. E innegabile è anche che chi dall’estero guarda all’Italia come terra di possibili investimenti ha più ragioni per essere preoccupato che rassicurato dalla nostra giungla normativa e regolamentare.

Ora il governo si sta muovendo proprio perché la giustizia non sia più uno dei tanti fardelli che ostacolano la crescita. E sebbene i ritardi rispetto ai pirotecnici annunci fatti da Matteo Renzi all’inizio del suo mandato siano evidenti, qualcosa è stato fatto. Lo ha spiegato anche ieri, intervenendo alla Camera, il ministro della Giustizia Andrea Orlando parlando ad esempio dell’introduzione del processo civile telematico da metà 2014 e delle formule di risoluzione delle controversie alternative al giudizio. Altri aspetti della riforma del diritto rimangono però da concretizzare, come ha ricordato anche di recente Donatella Stasio sul «Sole 24 Ore», spiegando che salvo il decreto legge sugli arretrati della giustizia civile, passato con la fiducia, gli altri sei provvedimenti annunciati dal governo il 29 agosto scorso non sono ancora arrivati in Parlamento.

Accelerare è opportuno, così come correggere altre storture che riguardano la certezza del diritto. A questo riguardo la norma che arriverà con l’«investment compact» che il governo vara oggi e che prevede invarianza delle regole fiscali e amministrative per quei soggetti che investiranno almeno 500 milioni in Italia, si presta a una duplice lettura. Dal punto di vista sostanziale è benvenuta: via libera a tutte le misure che possano attirare capitali e via libera ai grandi investimenti che creano occupazione e ricchezza. Ma da un punto di vista formale non si capisce perché la certezza del diritto, con l’impossibilità di vedersi applicare norme con effetto retroattivo diventi una sorta di privilegio graziosamente accordato dal governo a una categoria di grandi investitori e non sia invece un dato di fatto acquisito per qualsiasi operatore economico, piccolo o grande che sia. E sulle difficoltà di dare ai cittadini un diritto certo va segnalato il balletto sull’evasione fiscale e relative soglie di non punibilità in cui il governo è rovinosamente inciampato.

Nel percorso delle riforme, quella della giustizia potrà essere il passo più importante anche per quel che riguarda l’economia. C’è da ragionare anche su come finanziare un cambiamento che costa. Se andranno nella direzione di snellire e semplificare davvero il sistema, quelli per cambiare il sistema giudiziario saranno soldi ben spesi.

Non fermate Draghi

Non fermate Draghi

Stefano Lepri – La Stampa

È facile prendere la disoccupazione a un nuovo massimo in Italia, a un nuovo minimo in Germania, come simbolo di ciò che non va nell’area euro. Difficile davvero sarà far capire ai tedeschi che non possono più dire agli altri Paesi «imitateci e starete meglio». Nelle condizioni straordinarie di oggi, rivelate dai prezzi che scendono, la ricetta tedesca offre solo altri anni di sofferenze. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla produttività e conti pubblici in ordine. A noi, come ai francesi, tocca interrogarci su che cosa sbagliò chi governava allora. Ma nel frattempo il mondo è cambiato. Dalla bassa crescita l’Europa non può uscire stringendo la cinghia per esportare di più. Il crollo del prezzo del petrolio indica sfiducia che esistano al momento forze capaci di dare un impulso significativo all’economia dell’intero pianeta; non basta che negli Stati Uniti la ripresa si consolidi se la Cina rallenta. Il nostro continente non può affidare le sue speranze ad altri, o i suoi equilibri politici saranno travolti ove dalla xenofobia, ove dal massimalismo di sinistra.

Ci chiamerà alla prova la Grecia. Gli eccessi di debito sono caratteristici di un mondo globalizzato dove i capitali sono cresciuti più dei redditi; si formano in mercati finanziari volubili dove il credito un giorno facile (i Btp decennali ieri rendevano l’1,9%) a un cambio degli umori può venire a mancare (ì decennali greci hanno superato il 10%). Ad Atene occorre districare le due facce di un fallimento. Da una parte il governo uscente ha mancato nelle riforme di struttura (liberalizzazioni, privatizzazioni, efficienza amministrativa) dall’altra ha invece realizzato senza ricavarne vantaggi visibili l’unica «riforma» davvero caldeggiata dal potere economico tedesco, ridurre i salari. Ora anche Berlino dietro le quinte si prepara al negoziato. Non preoccupa più di tanto l’improvvisa simpatia mostrata dall’economista di riferimento della destra tedesca, Hans-Werner Sinn, per il leader dell’estrema sinistra greca Alexis Tsipras (nella speranza che un’uscita della Grecia dall’euro metta i brividi a Italia e Francia).

Da parte nostra dobbiamo tenere presente che una eventuale ristrutturazione del debito greco costerà, dati i tassi di mercato, più cara all’Italia che alla Germania dove molti sono pronti a strillare alla rapina. L’accordo da cercare con il nuovo governo di Atene comporterà rinunce per tutte le parti; occorrerà saperlo orientare verso un migliore coordinamento tra le politiche di tutti. Gia le elezioni greche rischiano di far slittare di un mese e mezzo, a inizio marzo, le prossime misure anti-deflazione della Banca centrale europea. Sarebbe grave, perché sono già in ritardo, come mostrano i dati di ieri sui prezzi. E sul ritardo contano i dottrinari tedeschi per giudicarle poi inutili (dopo aver volta a volta tentato di dimostrarle pericolose o illegali).

È vero che l’acquisto massiccio di titoli da parte della Bce ha controindicazioni. Può ad esempio gonfiare i valori di Borsa assai più che dare impulso reale all’economia: in altre parole, mettere più soldi in tasca ai ricchi invece di dare lavoro. Ma nelle condizioni in cui si trova l’Europa (anche al

di là dell’area euro), tutto va tentato. Era in linea di principio giusto chiedere alla Grecia di restituire i debiti contratti dai suoi cattivi governi. Ma imporle tempi stretti ha condotto attraverso la depressione economica all’effetto opposto, l’impossibilità a pagare per intero. Occorre concluderne, per tutta l’area euro, che il «Fiscal Compact» è inapplicabile finché dura la deflazione.

Fisco meno caro ma non per tutti

Fisco meno caro ma non per tutti

Alessandro Barbera – La Stampa

L’anno volge al termine e per l’italiano è giunta l’ora di porsi la ferale domanda: nel 2015 pagherò più tasse? Negli ultimi cinque anni la risposta è stata sempre la stessa. Quest’anno le cose andranno diversamente. Non per tutti però. Partiamo dal dato più importante, la cosiddetta pressione fiscale. Il documento di economia e finanza dice che nel 2015 sarà lievemente più alta: il 43,4, appena un decimale in più di quest’anno. Le apparenze non traggano in inganno: l’aumento è dovuto al fatto che le regole contabili europee non contabilizzano il bonus Irpef da ottanta euro come una riduzione fiscale. Nonostante il tentativo di superarlo, il governo si è trovato costretto a confermare un meccanismo perverso che tramuta quei dieci miliardi di minori tasse in maggiori spese. Nella pressione fiscale sono invece calcolati il taglio dell’Irap alle imprese, la decontribuzione per i nuovi assunti, l’aumento delle tasse sui fondi pensione che va ad aggiungersi a quello già previsto quest’anno per depositi bancari e titoli. Il governo Renzi ha scelto di aumentare le tasse sulle rendite (erano mediamente più basse che nel resto dell’Ue) per abbassare quelle sul lavoro. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2012) dicono che se un dipendente italiano costava mediamente all’imprenditore 41 mila euro, al lavoratore andavano meno di trentamila: peggio di noi in Europa facevano solo Danimarca, Germania e Francia. In ogni caso nel 2015 la somma di dare e avere sarà positiva: nel complesso le tasse scenderanno. Ma «complessivamente» non significa necessariamente per tutti. La manovra di Renzi è «di sinistra» molto più di quanto, a sinistra, non si voglia ammettere.

Casa, niente sorprese
Tasi e Imu non riserveranno sorprese grazie al tetto che bloccherà il tetto massimo per le tasse sulle casa. Con un però: i Comuni potranno aumentare l’aliquota Tasi fino allo 0,8 per cento se suddivisa fra prima casa e altri immobili. Chi ha molti investimenti nel mattone ha buone probabilità di pagare di più. In alcune Regioni le brutte sorprese per i più ricchi arriveranno in ogni caso dalle addizionali Irpef. Attenzione alle cronache locali, non c’è momento migliore del Natale per far passare lievemente le cattive notizie. Il Lazio di Nicola Zingaretti ha già messo a bilancio un aumento dell’addizionale dall’1,73 al 2,33 per cento ai redditi sopra i 28mila euro. Per inciso, l’esenzione dagli aumenti ancora non c’è: la maggioranza ha promesso una legge entro aprile. Per i più ricchi in Piemonte si prepara un salasso: aliquota invariata fino a 28mila euro (oggi è del 2,13 per cento), dello 0,44 per cento fino a 55mila, dell’un per cento al di sopra, al quale va poi aggiunto l’aumento del bollo auto. L’addizionale salirà anche in Liguria, con una fascia di esenzione uguale a quella promessa dal Lazio: 28 mila euro annui. In ossequio al federalismo fiscale che c’è, i toscani non avranno di che lamentarsi: invece di aumentare le aliquote il presidente Rossi ha preferito il taglio delle partecipate.

Chi ottiene di più
A questo punto si può tracciare l’identikit di chi con certezza l’anno prossimo pagherà meno tasse: è un lavoratore dipendente, ha uno stipendio di circa 1400 euro al mese e ha al massimo una casa di proprietà. Sopra quella soglia tutto dipenderà da cosa possiede, quante persone ha a carico e soprattutto da dove vive: se possiede più di una casa, ha risparmi, non ha figli a carico e vive nel Lazio o in Piemonte ha ottime probabilità di pagarne di più. Lo scenario si farebbe ancora più cupo se nel frattempo il governo non riuscisse a tagliare la spesa nei numeri promessi. In quel caso – il primo gennaio 2016 – scatterebbero le clausole di salvaguardia previste dalla legge di Stabilità: l’aliquota media Iva salirebbe dal 10 al 12 per cento, quella più alta dal 22 al 24, più un ritocco sulla benzina. La regola aurea del nuovo fisco nei Paesi occidentali è «dalla persona alla cosa». La speranza è di schivarle entrambe.

I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

Giuseppe Bottero e Marco Sodano – La Stampa

Studiate: conquisterete una posizione, la solidità economica. Potrete entrare nel mondo dei professionisti tra notai, architetti, avvocati, ingegneri. Poi la crisi che ha cambiato il mondo ha cambiato anche questo mondo e nel 2015 il reddito medio dei professionisti italiani si fermerà sotto i 30 mila euro, dopo essere già sceso, negli ultimi sette anni, del 15% con punte che arrivano al 24. Significa aver visto sfumare un quarto dei propri guadagni.

È il dramma parallelo a quello della disoccupazione: quello dei poveri che lavorano, le persone che guadagnano meno di 6,9 euro l’ora. E tra questi i professionisti giovani, che continuano a crescere – nel corso del 2013 gli iscritti agli ordini in Italia sono aumentati del 15,7% – ma guadagnano sempre di meno, sfiorano il limite della sussistenza. Per Andrea Camporese, segretario dell’Adepp «il sistema sta costruendo una grande platea di poveri, pensionati che non riusciranno a vivere. Non porsi questo tema oggi è molto grave». E in questo panorama preoccupa soprattutto l’ultima leva: gli incassi chi ha meno di quarant’anni sono inferiori del 48,4% rispetto a quelli dei colleghi over 40. Se i più anziani ed esperti già patiscono la crisi, chiaro che per i nuovi arrivati è il disastro. Giusto che la retribuzione premi l’esperienza, ma quando la distanza arriva ad allargarsi tanto è evidente che il sistema s’è incagliato. Ci sono senz’altro molti ex precari, nella nuova leva dei professionisti: sono stati i pilastri instabili della «generazione mille euro» poi sono messi in proprio, nella maggior parte dei casi più per necessità che per scelta.

I poveri che lavorano sono tanti e soprattutto sono in crescita: rappresentano l’11,7% del totale degli occupati. E la percentuale sale al 15,9% se si allarga l’insieme a quello che contiene le partite Iva. Si arriva alla cifra di 756 mila persone che, semplicemente, non ce la fanno. «A differenza del passato il fenomeno riguarda anche autonomi con dipendenti e i lavoratori più istruiti» racconta Silvia Spattini del centro studi Adapt. Intanto è facile prevedere che la battaglia per la sopravvivenza si farà ancora più dura perché nell’arena stanno entrando anche i cinquantenni usciti dal lavoro e pronti a mettersi in proprio, con un tesoretto in tasca e la possibilità di giocare sui prezzi, abbattendoli.

Ultima doccia gelata, il mancato stop all’aumento dei contributi Inps per gli iscritti alla gestione separata. Dal primo gennaio, infatti, supererà il 30 per cento e poi, gradualmente, raggiungerà il 33%. «I freelance sono l’unica categoria penalizzata, alla faccia del governo sensibile ai giovani e al lavoro del futuro», dice Anna Soru, presidente di Acta, sorta di sindacato di quella che il New York Times, ha ribattezzato “creative class”. Sono soddisfazioni.

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Walter Passerini – La Stampa

Ha sessant’anni e li dimostra tutti. L’apprendistato, che trae le origini della sua attuale sistemazione normativa nella legge 25 del 1955, è l’unica forma di contratto di lavoro a fini formativi. Nato nelle botteghe artigiane rinascimentali, l’istituto ha subito diverse modifiche nel tempo, per arrivare al Testo unico del 2011, che così lo definisce: un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed all’occupazione dei giovani. L’apprendistato è un contratto a causa mista, nel quale accanto alla causa di scambio (lavoro contro retribuzione), tipica del contratto di lavoro dipendente, si aggiunge la finalità formativa (D.Lgs. 14 settembre 2011, n.167). L’ultima modifica è il Decreto Poletti (D.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78).

Negli ultimi anni il contratto di apprendistato è stato definito il canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma il suo successo nel frattempo ò colato a picco. Negli anni d’oro è arrivato a superare una media di oltre 600mila contratti l’anno. Tra il 2010 e il 2012 è passato da 528.183 contratti a 469.855, per crollare subito dopo l’entrata in vigore del Testo unico ai suoi minimi: nel 2013 ci sono stati 240mila contratti di apprendistato, nel 2014 meno di 200 mila nei primi nove mesi, che dovrebbero portare il numero finale di quest’anno sotto quota 300 mila.

Come mai questo dimezzamento di contratti mentre la normativa e la politiche del lavoro tendono a sostenerlo? Ci sono tante ragioni. La presenza di un pacchetto di ore di formazione ha sempre ottenuto tiepidi consensi da parte delle imprese, quando non vere opposizioni: il decreto Poletti di quest’anno ha alleggerito il problema, ma non basta. I vantaggi economici per le imprese sono tanti: decontribuzione totale per tre anni per le imprese sotto i nove dipendenti; al 10% per le altre. Anche il vincolo di stabilizzazione è stato abbassato dal decreto Poletti: la quota di stabilizzazioni prima di assumere altri apprendisti è passata dal 50% al 20%. Ma anche questo evidentemente non è sufficiente. Nelle ultime settimane sembra poi che le aziende intenzionate ad assumere giovani si siano fermate, in attesa dei nuovi provvedimenti previsti dal Jobs Act.

Una delle ragioni del rovinoso cammino del contratto di apprendistato consiste proprio nella concorrenza spietata che altre formule di assunzione gli fanno, essendo ritenute più convenienti da parte delle aziende (contratto a termine, in primis). Infine, l’attesa dell’arrivo del nuovo contratto a tutele crescenti ha eroso ulteriore fascino all’apprendistato, e assomiglia a un’eutanasia: strano un contratto a tempo indeterminato che può avere una scadenza, come è l’apprendistato. Non si può escludere che le complessità burocratiche abbiano giocato in ruolo. E forse anche la scarsa conoscenza, per non dire confusione, sulle tre tipologie: apprendistato per la qualifica, professionalizzante o di mestiere, in alta formazione e ricerca. A cui se ne aggiunge una quarta, destinata ai lavoratori in mobilità. È soprattutto la terza tipologia a soffrire: sembra proprio che usare uno stesso nome (apprendistato) per riunire garzoni di officina, impiegati di banca e laureati, masterizzati o dottori di ricerca non sia molto efficace; anche se per realizzare il miracolo di una nuova vita dell’apprendistato non basterà certo un semplice cambio di nome.

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Paolo Baroni – La Stampa

La fabbrica delle regole e delle complicazioni non si ferma mai. Nonostante gli sforzi del governo, che finalmente iniziano a dare i primi frutti, soprattutto grazie all’operazione del 730 precompilato a domicilio, la pressione burocratica sulle imprese non accenna a scendere. È una vera tela di Penelope: dal 2008 ad oggi, per una norma che semplifica ne sono state emanate 4,3 che complicano la gestione degli adempimenti tributari. È vero che nel 2014 il ritmo delle complicazioni fiscali è rallentato, ma la strada si presenta ancora tutta in salita. Anche perché l’attuazione della delega fiscale, a nove mesi dalla sua approvazione, è in fortissimo ritardo.

I primi 272 giorni di Renzi
Fino ad oggi il governo Renzi, esclusa la legge di Stabilità ancora in fase di costruzione, ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale di cui 26 (29,9% del totale) semplificano, 12 (13,8%) sono neutre e ben 49 (56,3%) hanno impatto burocratico sulle imprese. II saldo rimane così ancora una volta positivo anche se diminuisce rispetto al passato. Le norme che semplificano sono pressoché interamente concentrate (25 su 26) nel decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate. Negli ultimi 6 anni, il 61% delle 703 nuove norme ha aumentato i costi burocratici. In pratica il fisco si è complicato alla velocità di 1 norma alla settimana.

Il Burofisco Index
Per misurare l’impatto della burocrazia fiscale Confartigianato ha inaugurato il Burofisco Index che sintetizza il saldo tra le norme che semplificano e quelle che complicano la vita degli imprenditori. Nel 2014 l’indice di impatto burocratico ha registrato il calo più vistoso dal 2009, posizionandosi a quota +24, con una diminuzione drastica rispetto al +93 del 2013. «Le nostre rilevazioni – commenta Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato – indicano qualche miglioramento, ma siamo ben lontani da un fisco a burocrazia zero per le imprese». «La delega fiscale è inattuata per l’80-90% – spiega Daniele Capezzone (Fi), presidente della Commissione finanze della Camera -. I1 governo, tranne eccezioni individuali, non ne ha affatto compreso il valore strategico. Possibile che nell’attuazione della delega creda di più il rappresentante dell’opposizione, cioè io, che ne sono stato l’estensore ed il relatore, piuttosto che il governo che l’ha ricevuta in regalo?». Secondo Merletti «la strada è ancora lunga. Oltre a snellire gli adempimenti, occorre anche riordinare i regimi contabili semplificati, come previsto dalla delega». Ciò significherebbe incidere sulle modalità di tenuta della contabilità di ben 2.200.000 aziende, tra ditte individuali e società di persone, pari all’80% del totale. Il restante 20% di imprese ò interessato dall’applicazione della nuova Iri (Imposta Reddito Imprenditoriale) anch’essa prevista dalla delega fiscale. «Un primo passo è stato compiuto nella legge di stabilità con il nuovo regime forfettario. Ma è insufficiente – insiste Merletti – perché pur semplificando gli adempimenti, l’esiguo tetto dei ricavi previsti rischia di vanificare l’impianto complessivo della norma». Intanto però a marzo la delega scade, col rischio di invalidare la riforma. Per evitare il peggio Capezzone annuncia di aver «già presentato una proposta di legge per prorogare di 8 mesi la scadenza».

Sempre più complicazioni
La tendenza alla crescita della pressione burocratica sulle imprese in Italia resta sempre molto alta. Secondo l’analisi effettuata dalla Direzione politiche fiscali di Confartigianato sui 47 provvedimenti emanati nell’arco dei 2.397 giorni che intercorrono nell’arco delle ultime due legislature, scaturiscono 703 norme fiscali: di queste ben 427 complicano e appena 98 semplificano. In prati- ca nell’arco degli oltre sei anni il Fisco si complica alla velocità di 1 norma alla settimana (7,3 giorni).

A passo di gambero
Il problema è dato dalla relativa scarsità delle norme di reale semplificazione: appena 96 su 691 (il 13,9% del totale) nei 6 anni esaminati. Di qui l’effetto tela di Penelope. Dei 47 provvedimenti esaminati solo 15 (31,9%) contengono almeno una norma di semplificazione, ma solo in 2 casi c’è un intervento di alleggerimento pieno: si tratta del decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate (saldo impatto burocratico -22) e il Dl70 del 2011 (-19). Risultato: gli imprenditori italiani impiegano 269 ore l’anno per pagare le tasse, il 53,3% in più rispetto alla media del PaEsi dell’Ocse. Il nostro Paese, secondo il Doing business 2015 della Banca Mondiale, si colloca al 122° posto nella classifica di 189 nazioni del mondo. Una impresa in Regno Unito ne impiega invece 159 in meno, il “vantaggio burocratico” è di 132 ore in Francia, di 102 ore in Spagna e di 51 ore in Germania. E anche questo dovrebbe essere uno spread che bisognerebbe puntare a ridurre.

Gli errori di Roma e Berlino

Gli errori di Roma e Berlino

Stefano Lepri – La Stampa

In Germania, parlar male dell’Italia è un espediente efficace per nascondere il fiato corto del successo tedesco. In Italia, parlar male della Germania serve benissimo a sviare l’attenzione dai guai di casa, i giovani senza lavoro come lo scandalo romano. Purtroppo, dato che la politica francese rimane in stato confusionale, il dibattito nell’area euro rischia di ridursi a questo. Volendo essere ottimisti, la reciproca diffidenza potrebbe diventare incentivo a comportarsi meglio. Però gli strumenti sono rozzi, se per pungolare il governo italiano alle riforme (cosa necessaria) si continua a minacciarlo, come ieri all’Eurogruppo, perché non adotta una ricetta in questo momento inadatta (le regole di bilancio del «Fiscal Compact»).

Con un passo avanti, il documento approvato a Bruxelles almeno condona all’Italia il mancato rispetto della regola del debito. Continua invece a insistere sull’«obiettivo di medio termine» di calo del deficit. Il limite delle regole per governare l’area euro è appunto che sono severe dove in questo momento meno serve, e lo sono poco nei campi dove è oggi urgente agire. Magari avessimo strumenti più efficaci – come quelli sollecitati da Mario Draghi – per spingere sia la Germania a correggere ciò che il resto del mondo le rimprovera (eccesso di risparmio e carenza di investimenti) sia l’Italia a mettere ordine in casa propria. Non li abbiamo, e per evitare di infilarci in circoli viziosi occorre un sovrappiù di inventiva.

Da entrambe le parti è necessario resistere alla tentazione di indicare colpevoli di comodo. Nel nostro caso, significa non illudersi che senza regole europee, o addirittura senza euro, staremmo meglio. L’alto debito italiano resterebbe un fardello in qualsiasi situazione immaginabile, e se smettessimo di pagare il 60% del danno cadrebbe su noi stessi. Può essere interessante guardare al Giappone, Paese diversissimo dal nostro ma che paradossalmente incarna alcuni sogni della politica italiana. Ha un debito pubblico ancora più elevato ma stabile perché in moneta nazionale e detenuto in grandissima parte all’interno. Dunque senza immediati rischi può spendere in deficit nel tentativo di rilanciare l’economia. Eppure è da lunghi anni che la ricetta del deficit non funziona; continua a nutrire una classe politica – assicura chi conosce entrambi i Paesi – non migliore della nostra. Per di più, di questi tempi la Banca centrale acquista la gran parte dei nuovi titoli di Stato emessi, con una espansione monetaria assai più massiccia di quella che attendiamo dalla Bce.

Con un po’ di ironia, si potrebbe aggiungere che il Giappone è inoltre il sogno della Lega Nord, perché ha pochi immigrati, o degli imprenditori, perché i profitti sono alti. Di nuovo in recessione dopo lunghi anni di ristagno, ricorre ora a elezioni anticipate nella speranza che rafforzino il governo. Agli occhi dei tedeschi, dà la prova che le ricette opposte alle loro non funzionano. D’altronde, nell’area euro almeno una parte dei mali va attribuita all’austerità a tempi stretti che ancor oggi è la prescrizione numero uno a Berlino. Senza cedere a certezze prefabbricate, sarebbe bene discutere insieme di rimedi nuovi, adatti a una crisi mai vista prima. Ciò che manca ovunque è la capacità di rinnovare strutture economiche e amministrative logore. Sia nella Francia che non sa fare riforme, sia nella Spagna che ne ha fatte (non molte) alla tedesca, gli attuali governi non hanno più l’appoggio della maggioranza dei cittadini. Il governo italiano deve rimuovere ostacoli forse ancor più grandi, ma almeno un patrimonio di consenso lo ha ancora: non lo sprechi, è una speranza anche per gli altri.

L’Ue: nel 2015 servono 6 miliardi in più

L’Ue: nel 2015 servono 6 miliardi in più

Marco Zatterin – La Stampa

Nessuna sorpresa, a Palazzo Chigi, quando il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble è arrivato ieri mattina all’Eurogruppo e ha espresso apprezzamento per lo sforzo italiano per le riforme, ricordando fra l’altro che da noi «è passata una riforma rilevante del mercato del lavoro». Era il segnale di distensione atteso sulle rive del Tevere, un gesto maturato nella seconda parte della domenica quando Matteo Renzi e Angela Merkel si sono sentiti in una telefonata di messa punto, resa necessaria dal rimbalzare delle polemiche sull’intervista della cancelliera alla Welt am Sonntag. Risulta che i toni di Berlino siano stati accomodanti, che Frau Merkel abbia ridimensionato la questione, e annunciato che Schaeuble sarebbe arrivato a Bruxelles con un ramoscello d’olivo. Così è stato. Messa giù la cornetta, il premier che le cronache davano in precedenza parecchio irritato, si confessava convinto che l’incidente fosse rientrato e il caso potessi dirsi chiuso.

Le interpretazioni contano parecchio di questi tempi, specie perché economia e assetti politici instabili in tutto il continente alzano il livello di sensibilità dei governi europei. Il clima si riflette bene nei toni delle pagelle delle leggi di Stabilità europee riesaminate dall’Eurogruppo, esercizio in cui i ministri economici dell’Eurozona si sono concessi una dose ricca di cerchiobottismo, originando un comunicato che lascia aperte molte letture. Soprattutto sui paesi rimandati a marzo, Francia, Belgio e Italia. E in particolare su quest’ultima. Il dato politico nostrano è che l’Eurogruppo è d’accordo con il rinvio a marzo del giudizio sulla legge di Stabilità e approva l’«ampia agenda di riforme» del governo Renzi. Quello tecnico è che i ministri di Eurolandia condividono l’analisi secondo cui Roma «rischia di non rispettare il Patto di Stabilità», misurano la differenza fra la correzione dei conti richiesta e quella promessa in 0,4 punti, quindi ricordano che «misure efficaci sarebbero necessarie per un miglioramento dello sforzo strutturale».

Il numero è preciso, la strategia no. «Il divario va colmato – spiega il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem -. Lo si può fare con nuove misure o attraverso la valutazione di quelle già prese, o ancora la Commissione può dire che lo 0,1 è lo 0,2…». Basta il risultato. E allora? Facciamo bene e poi vedremo. Ci sono oltre tre mesi per negoziare. Le parole scritte sono più insidiose di quelle pronunciate dagli alfieri dell’Eurozona. In linea con la Commissione Ue – mossiere nel processo di coordinamento economico e finanziario del semestre europeo -, l’Eurogruppo ammette il rischio di sforamento dell’Italia rispetto agli obiettivi di medio termine e, «mentre riconosce che le sfavorevoli circostanze economiche e l’inflazione molto bassa hanno complicato la riduzione del debito», ribadisce che «l’alto debito rimane una ragione di preoccupazione». E’ qui che si rimarca il «gap» di 0,4 punti di pil (6 miliardi abbondanti) sul deficit strutturale e si auspica efficacia nelle misure. «Nessuna richiesta aggiuntiva: legge di stabilità 2015 attuata in modo efficace rilancerà economia italiana», twitta il ministro Padoan. Il testo, in effetti, non ne parla.

Ciò non toglie che lo stesso Dijsselbloem ricordi che ogni paese a rischio di non rispettare l’europercorso «dovrebbe prendere nel momento opportuno le misure appropriate». Bruxelles attenderà marzo e l’olandese – alla stregua di Pierre Moscovici, commissario per l’Economia e pure Wolfgang Schaeuble – ribadisce che «il tempo a disposizioni deve essere utilizzato per colmare il divario». Risponde il ministro Padoan: «Siamo molto determinati a mettere in pratica il programma come l’approvazione della riforma del lavoro ha dimostrato». Pertanto, aggiunge con riferimento alla polemica innescata con la Merkel, «non condividiamo riserve del genere».

Ai piani alti della Commissione le contese bilaterali paiono un elemento di disturbo, ma nessuno lo dice. Moscovici sembra pensare all’Italia quando afferma che «rispettare le regole è assicurarne la credibilità», ma anche alla Germania con il suo «dobbiamo tenere conto di quello che è possibile fare». E se qualcuno non ci riesce? «Non ci mettiamo in questa logica – risponde il francese -. Noi lavoriamo perché le cose vadano secondo i programmi».