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Blasoni: “Diamo libertà di scelta ai lavoratori”

Blasoni: “Diamo libertà di scelta ai lavoratori”

Massimo Blasoni – Panorama

L’ormai strutturale deficit di gestione dell’Inps è l’emblema dell’insostenibilità del nostro impianto previdenziale: un modello che per anni ha eluso il mercato e che ora sta provando a salvarsi con una tardiva transizione al sistema contributivo. I numeri ci dicono che si tratta di uno sforzo probabilmente non sufficiente, il cui costo verrà fatto pagare alle giovani generazioni: non esiste infatti alternativa alI’adozione di un sistema liberale basato sulla scelta del cittadino.

La gestione pubblica e monopolista della nostra previdenza ha infatti fallito, bruciando in cinque anni più di 40 miliardi di patrimonio Inps a cui si aggiungono i disavanzi annualmente ripianati dalla fiscalità generale. Ai lavoratori deve essere finalmente lasciata la possibilità dl decidere dove investire i propri contributi, optando tra una molteplicità di soggetti finanziari accreditati e vigilati dalla Stato.

Dipendenti PA: in Italia sono il 14,42% degli occupati, record in Valle d’Aosta (21,78%) e nel Mezzogiorno.

Dipendenti PA: in Italia sono il 14,42% degli occupati, record in Valle d’Aosta (21,78%) e nel Mezzogiorno.

NOTA

Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su dati della Ragioneria Generale dello Stato e dell’ISTAT, evidenzia come le regioni a Statuto speciale siano quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare questa classifica è la Valle d’Aosta con 11.909 dipendenti, pari al 9,26% dei residenti. Significa che un valdostano su dieci (bambini e anziani inclusi) campa di denaro pubblico. A seguire il Trentino Alto Adige (78.868 dipendenti, pari al 7,50% dei residenti) e il Friuli Venezia Giulia (85.610 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Subito dietro si collocano il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (396.865 dipendenti pari al 6,76% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (109.066 dipendenti, pari 6,56% dei residenti). Per converso le regioni più grandi ed economicamente più sviluppate presentano tassi di presenza di dipendenti pubblici nettamente più bassi: 4,11% in Lombardia, 4,55% in Veneto e 4,92% in Piemonte. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, anche la Campania ha un rapporto non altissimo (4,99%) di dipendenti pubblici in rapporto ai suoi residenti e comunque minore di quello che si registra in Emilia Romagna (5,09%), nelle Marche (5,23%), in Umbria (5,49%) e in Toscana (5,51%).

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L’analisi territoriale è particolarmente interessante se effettuata anche con riferimento al totale dei soggetti occupati. Se in Italia i 3,2 milioni di dipendenti pubblici costituiscono il 14,49% dei lavoratori, l’analisi territoriale evidenzia situazioni molto diversificate. Anche in questo caso il record spetta alla Valle d’Aosta, con il 21,78% di dipendenti pubblici in rapporto al numero dei lavoratori occupati (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Calabria, con il 21,58% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. Più in generale, in cima a questa classifica compaiono tutte le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale: Sicilia (21,11%), Sardegna (19,96%), Molise (19,37%), Basilicata (19,36%), Campania (18,54%) e Puglia (17,94%). In coda a questa speciale classifica si collocano invece due regioni del Nord: il Veneto (10,96%) e la Lombardia (9,71%).

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Rassegna Stampa
La Notizia
Lavoratori stranieri in Italia

Lavoratori stranieri in Italia

NOTA

Dal 2005 al 2014 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di quasi 60 miliardi di euro (per la precisione 59 miliardi e 266 milioni). Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia.
Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%).

Anno

Limitatamente a quest’ultimo anno, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 119,4 milioni), nel Lazio (985,1 milioni), in Toscana (587,1 milioni), in Emilia-Romagna (459,7 milioni), in Veneto (426,3 milioni) e in Campania (306,7 milioni).

Regioni

Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro Studi “ImpresaLavoro” (che contempla cittadini di 176 nazionalità differenti) risulta che nel 2014 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (876 milioni) e cinesi (819 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Bangladesh (360 milioni), dalle Filippine (324 milioni), dal Marocco (250 milioni), dal Senegal (245 milioni), dall’India (225 milioni), dal Perù (193 milioni), dallo Sri Lanka (173 milioni) e dall’Ucraina (144 milioni).

Nazioni

Decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito in patria nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano gli spagnoli (42,9 milioni), seguiti dai francesi (29,4 milioni), dai tedeschi (27,8 milioni), dai britannici (21,5 milioni) e infine dai greci (12,2).

GUARDA LE INFOGRAFICHE

Produttività: il vero problema dell’Italia

Produttività: il vero problema dell’Italia

Abstract

L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007, in realtà, stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Come dimostriamo in questo lavoro, non basta analizzare i livelli di salario reale per capire se un paese è più o meno competitivo: bisogna guardare anche alla produttività. Da questo punto di vista, ci si accorge che dal 2007 al 2013 oltre agli stipendi è calata la produttività e per cause che spesso non hanno a che fare con la crisi economica.

Le retribuzioni

Hanno suscitato un vivo dibattito, per almeno un giorno, i dati ISTAT sulle retribuzioni in Italia.

grafico 1

FONTE: Struttura del costo del lavoro – ISTAT (2014)
 
Come si può vedere, i dati riportati, che fanno riferimento alla situazione nel 2012, presentano un Paese in cui la somma fra la retribuzione lorda e i contributi sociali si pone subito sotto la media dell’Area Euro. Un fatto che smonta molti luoghi comuni sull’alto costo del lavoro in Italia: un costo elevato se paragonato a quello presente in Polonia, ma inferiore a quanto pagato in Francia o in Germania. Secondo dati più recenti riguardante il periodo fra 1° trimestre del 2009 e il 2° trimestre 2014, il costo del lavoro è variato sostanzialmente poco e non sempre al rialzo, con una netta flessione verso l’immobilità dal 3° trimestre del 2013.

grafico 2

FONTE: ISTAT- INDICATORI DEL LAVORO NELLE IMPRESE (2014)
 
A questo punto, c’è da chiedersi cosa sia accaduto negli altri paesi, per poter capire se effettivamente negli anni stiamo assistendo a una crescita o a una riduzione del salario degli occupati italiani relativamente ai loro colleghi di altri paesi europei.
Secondo quanto descritto in un recente lavoro dell’ILO, International Labour Organization, l’agenzia dell’Onu che si occupa di monitorare le variabili chiave del mercato del lavoro (occupati, retribuzioni, qualità forza lavoro, ecc…) e di promuovere nel mondo le migliori pratiche per favorire un’occupazione diffusa, regolare e sicura, in Italia il salario reale, ovvero la retribuzione lorda commisurata al costo della vita, è scesa dal 2007 del 6%. Un calo questo più rilevante di quello registrato, per esempio, in Portogallo o in Irlanda.

grafici 3 4

FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15
 
In Italia, soprattutto dal 2010, il potere d’acquisto dei salari è sceso del 6% e c’è quindi poco da meravigliarsi se la domanda interna non si riprende: meno soldi ai lavoratori, meno consumi. Questo vuol però anche dire che se il lavoro costa meno, a parità di ogni altro fattore le aziende diventano più competitive. Questa spinta verso una maggior competitività dovrebbe riflettersi nel tempo nella produzione di beni e servizi meno costosi, e quindi più appetibili sui mercati internazionali. Così, di solito, vengono interpretati questi dati nei mass media.
Eppure, mancano due elementi per comprendere se davvero questa riduzione del reddito da lavoro porterà veramente a un aumento della competitività del sistema, un aumento che a regime potrà creare nuovi posti di lavoro e rilanciare la domanda interna. Il primo elemento riguarda la produttività. Il secondo elemento ha a che fare con la massa di denaro appannaggio dei lavoratori stipendiati, la stragrande maggioranza della forza lavoro.

La produttività

A un bravo imprenditore dovrebbe interessare poco quanto costa un dipendente: finché costui rende all’impresa più di quanto essa spenda per averlo a sua disposizione, ci sono buone ragione per assumere delle persone. Si pensi al calcio, un settore in cui la forza lavoro è molto costosa (si prendano i dati sui giocatori più pagati del calcio nazionale o europeo per farsene un’idea).
Seguendo questa catena di ragionamento, si argomenta che se il costo del lavoro diminuisce, un’impresa sarà più competitiva e cioè: pagando meno una persona che compie un certo lavoro, il lavoro costerà meno e potrà essere venduto a un prezzo più basso. Se, ad esempio, si riduce la tariffa kilometrica dei taxi, ogni tratta costerà di meno, rendendo così più competitivo il servizio di taxi rispetto alle alternative presenti (es.: bici, auto privata, mezzi pubblici, ecc…).
Purtroppo spesso si da per scontato che la produttività non cambia nel tempo, rimanendo costante indipendentemente dalla paga o da altri fattori. Semmai, questa aumenta a seguito di investimenti specifici.
E’ ovvio che una persona ben pagata lavora meglio, se non altro perché vede riconosciuto il suo impegno. In ogni caso, questo ragionamento serve a far comprendere che l’analisi del costo del lavoro senza l’analisi della produttività non porta a nessuna conclusione azzeccata. Così come senza un’analisi della cause che portano a modificare il costo del lavoro o la produttività, non si può pensare di proporre una qualsiasi riforma che sortisca degli effetti positivi nel medio-lungo periodo.
Eurostat, l’istituto di statistica europeo, fornisce dati molto interessanti sulla produttività. Nella tabelle che riportiamo in Appendice, l’Istituto analizza i dati sulla produttività reale per addetto nei 28 paesi dell’Europa Unita. Fatto 100 la produttività misurata nel 2010, l’Italia ha un valore di 102 nel 2004, raggiunge un valore pari a 103 nel 2007, e scenda a un valore di 98 nel 2013. Quindi, alla riduzione del 6% del salario intercorsa fra il 2007 e il 2013 si è accompagnata una riduzione della produttività per addetto del 4,85%.
Attenzione a leggere bene questi dati: si guardi il caso della Germania e della Spagna. In Germania il salario è cresciuto, fra il 2007 e il 2013, del 3%, mentre la produttività per addetto è scesa del 2%. Però nello stesso periodo la disoccupazione è scesa di circa il 3%, facendo sì che vi fossero più addetti e quindi, a parità di produttività, abbassando il valore della produttività per addetto (produttività totale / occupati).
In Spagna, invece, a fronte di un calo del salario reale del 3%, c’è stato un aumento della produttività per addetto del 10%. Eppure la Germania tira, la Spagna no. Questo si spiega con riferimento al numero di addetti: infatti, se la disoccupazione aumenta più della produttività totale dovremmo assistere a un aumento della produttività per addetto. In Spagna la disoccupazione è aumentata ed è circa il doppio della nostra: ora è circa al 25%, era poco più dell’8% nel 2007. Meno persone che fanno le stesse cose, produttività che sale. Fra Germania e Spagna c’è una differenza di 20 punti nel tasso di disoccupazione e questo spiega la differenza fra i dati dei due paesi.
In definitiva, come emerge dalla seguente figura, l’Italia ha molti punti di produttività da recuperare. E da anni, da ben prima dell’introduzione dell’Euro.
Grafico X: Relazione fra la retribuzione reale per addetto e la crescita della produttività nelle principale economie sviluppate, 1999-2013

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FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15

Il settore manifatturiero

Nello specifico, prendendo a riferimento il comparto manifatturiero, il settore che traina sostanzialmente il nostro export e che da lustro all’idea di Made in Italy, come fa osservare il Centro Studi di Confindustria (Scenari Industriali, giugno 2014), dal 2007 al 2013 il manifatturiero in Italia ha perso competitività rispetto ai partner europei sia in termini di produttività oraria sia di costo del lavoro:

grafico 6

Come riporta il Centro Studi di Confindustria, a commento del grafico appena riportato:
«Sul piano internazionale il manifatturiero italiano ha perso competitività in termini di CLUP2 rispetto sia alla media dell’Eurozona sia ai singoli principali paesi (che infatti si collocano tutti nel quadrante in basso a destra del grafico), dato che la produttività del loro manifatturiero è cresciuta più che in Italia, con un costo del lavoro che è aumentato a ritmo inferiore. Durante la crisi anche l’industria manifatturiera tedesca ha sofferto in termini di produttività, che è cresciuta solo dell’1,5%. L’andamento del costo del lavoro in Germania è stato, tuttavia, ben più contenuto che in Italia (+14,8% cumulato), grazie a una moderazione salariale già in atto nel periodo pre-crisi e che si è allentata solo di recente. Tra il 2007 e il 2013 il CLUP tedesco ha pertanto registrato un incremento pari al 13,0%. Ciò fa sì che dall’inizio della crisi la competitività di costo del manifatturiero italiano sia arretrata rispetto a quella dell’industria tedesca di 6,2 punti percentuali, aggravando il già ampio divario accumulatosi nel decennio precedente (35 punti dal 1997 al 2007)» (p. 51)
Nel settore manifatturiero, il CLUP è aumentato del 20% in 6 anni (2007-2013), rendendo il settore meno competitivo. E non c’è svalutazione che tenga per riportare competitività ad un sistema che ha dei problemi strutturali! A conferma di quanto detto prima, come si vede nel seguente grafico riportato nell’ottimo studio di Confindustria anche nel settore manifatturiero il problema della competitività del sistema Italia ha una storia lunga almeno 3 lustri.

grafico 7

Esistono molteplici spiegazioni alla base di una scarsa competitività del sistema Italia. Qui vogliamo riportare due soli dati: l’andamento dello Stock di capitale fisso e la spesa in Ricerca e Sviluppo. Il primo dato serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa e il secondo dato serve a capire se il sistema Italia investe per sviluppare nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuovi processi.
Stock di capitale lordo, stock di capitale netto e ammortamenti, Anni 1980-2009.
(Variazioni percentuali, Valori concatenati – Anno di riferimento 2000)

grafico 8

FONTE: ISTAT – Investimenti fissi lordi per branca proprietaria, stock di capitale e ammortamenti.
 
Come si vede, lo stock di capitale netto nel paese cresce ad un tasso sempre più basso, specialmente negli anni dello sviluppo massiccio dell’informativa applicata all’industria e ai servizi (dagli anni ’90 in poi), consegnandoci all’alba della crisi un Paese poco attrezzato per rispondere con la tecnologia alle sfide che ha davanti. Non va meglio, ovviamente, alle spese per Ricerca & Sviluppo: le imprese coprono il 50% delle spese in R&S, lo Stato l’altro 50%, con valori al di sotto della Spagna o del Portogallo.

grafico 9

 

Senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività. Ma senza investimenti, non avremo mai alcuna innovazione.

Conclusioni

I salari reali sono diminuiti e ora sono in linea con la media Europea: questo ci ha detto l’Istat poche settimane fa. Se non fosse accaduto null’altro, questa sarebbe una buona notizia. Purtroppo, come abbiamo cercato di mettere in luce in questo studio, la riduzione del salario si accompagna a una riduzione della produttività che ha fra le sue cause una scarsa attitudine delle imprese italiane e dello Stato a investire in R&S e nello stock di capitale utile alla produzione. Ai lettori lasciamo trarre le conclusioni sulle vere urgenze del paese.

Appendice

tabella1

 

 

Rassegna Stampa
La Notizia
Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Paolo Bracalini – Il Giornale

«Una corruzione devastante per la crescita». Come ogni monito della Corte dei conti anche dall’ultimo esce un Paese allo sbando, una pubblica amministrazione preda di sciacalli, tangentari, ladri di ogni tipo. Ma chi vigila su questo disastro di pubblica amministrazione? La Corte dei conti stessa, per l’appunto. Che però, quando si tratta di giudicare il proprio operato, pur di fronte ad uno scenario descritto come devastante, si promuove a pieni voti. Basta guardare le tabelle sugli incentivi e premi pubblicati dalla magistratura contabile nella sezione «Trasparenza» per l’ultimo anno disponibile, il 2011 (e quelli più recenti?). Anche per i severissimi giudici contabili non ci si distacca da una prassi molto diffusa negli uffici pubblici italiani: la percentuale schiacciante cioè di funzionari modello che si meritano, ogni anno, un premio economico in aggiunta allo stipendio. Nel caso della Corte dei conti, su 2.477 dipendenti totali (circa 600 magistrati), le pecore nere che non hanno avuto incentivi o bonus sono stati soltanto 56, gli altri 2.421 invece hanno incassato premi fino a 1.760 euro a testa per i risultati ottenuti nel controllo di sprechi, opacità e dissesti delle finanze pubbliche, oggetto però di malagestione e corruzione come denunciato dalla stessa Corte. Se la percentuale di premiati si avvicina al 100%, non così avviene per le presenze negli uffici. A gennaio 2014 un terzo degli uffici superava il 30% di assenze, mentre negli ultimi mesi dell’anno ferie e malattie sono calate, anche se con punte del 26% all’Ufficio servizi sociali o e del 27% all’Ufficio centralino.

E come sono i conti della Corte dei conti? Nel decreto di approvazione del bilancio firmato dal presidente Raffaele Squitieri, segnala come le misure della spending review «abbiano inciso in modo evidente anche sulle risorse assegnate alla Corte dei conti». Rispetto al 2014, parliamo di un 5% in meno di fondi. Quest’anno, per il funzionamento della Corte dei conti, andranno 268.427.893 euro, 12 milioni in meno del 2014. La dieta a cui la spending review ha costretto i magistrati contabili – che non sembrano averla gradita particolarmente – non tocca però alcune voci di spesa, definite «non modulabili», cioè intoccabili. Leggiamo: «Risultano incomprimibili le spese non rimodulabili, che incidono per circa il 78% sul totale del bilancio, con una percentuale del 74% riservata alle competenze fisse ed accessorie a favore di tutto il personale. In particolare, per i capitoli relativi al trattamento economico del personale di magistratura si rileva uno stanziamento invariato rispetto a quello del precedente esercizio».

La spesa per gli stipendi e il personale, dunque, resta «incomprimibile». Il totale previsto per questa voce, nel 2015, è di 236 milioni di euro. I vertici hanno subito il taglio della retribuzione al tetto di 240mila euro fissato dal governo. Così, se fino al 30 aprile 2014 al presidente della Corte andavano 311mila euro, ora lo stipendio, al netto di contributi previdenziali e assistenziali, è solo di 227mila euro. Tra i 150mila e i 200mila sono gli altri incarichi di vertice, mentre ai dirigenti vanno dai 70mila ai 135mila. Tra le spese del segretariato generale, «missione tutela delle finanze pubbliche», si trovano 140mila euro per «erogazione dei buoni pasto al personale di magistratura», 475mila euro come «indennità di rimborso spese di trasporto al personale di magistratura per trasferimenti nel territorio nazionale», 84mila per quelle all’estero, 76mila euro per «acquisto mobili e arredi», e 26 milioni complessivi come «retribuzioni corrisposte al personale di magistratura». I quali magistrati, poi, sono spesso impegnati fuori, con incarichi esterni. Il prospetto relativo al primo semestre 2014 conta 76 dipendenti, non solo magistrati, autorizzati a svolgere una funzione in un altro ente pubblico. Comuni, regioni, ministeri, Asl. Dove vengono chiamati a svolgere funzioni apicali. Come il consigliere Luigi Caso, che al ministero del Lavoro ricopre il ruolo di Capo di Gabinetto, o il consigliere Francesco Alfonso, capo dell’Ufficio del consigliere giuridico al ministero dell’Economia; o come i vari magistrati nei consigli di revisori o organismi di controllo di enti pubblici. Cioè proprio quella pubblica amministrazione verso cui la Corte dei conti lancia i suoi ripetuti (e sacrosanti) strali.

Province, il piano per il 20mila esuberi

Province, il piano per il 20mila esuberi

Andrea Bassi – Il Messaggero

Per il governo è qualcosa in più di un passaggio delicato. È una prova. Uno spartiacque. Riuscire a gestire il più grande processo di mobilità di dipendenti pubblici mai tentato in Italia. Sono i 20 mila lavoratori delle Province che da qui al 2016 dovranno trovare una nuova collocazione. Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ieri ha messo a punto il primo importante passaggio di questo percorso, una circolare che detta le linee guida per determinare il destino di questi 20 mila statali. In realtà, alla fine, il processo di mobilità potrebbe riguardare una platea meno ampia di personale, circa 15mila in tutto. Dai 20mila di partenza, infatti, vanno sottratti i dipendenti delle Province che lavorano nei centri per l’impiego. Personale che sara ricollocato nella nuova Agenzia prevista dal Jobs act. Vanno anche sottratti tutti coloro che entro il 2016 avranno, con le regole vigenti, i requisiti per andare in pensione. Non sono pochi.

Per le province il blocco del turn over è stato molto incisivo. L’età media del personale è alta e dunque i numeri sarebbero consistenti. Ed ancora, i 20mila, vanno decurtati da coloro che potranno essere pensionati in base alle regole pre-Fornero. Per la Pubblica amministrazione, in effetti, fino al 2016 è in vigore una norma inserita nel cosiddetto «Decreto D’Alia» che permette in caso di dichiarazione di esuberi, di poter mandare in pensione il personale con i requisiti più favorevoli previsti dalle vecchie norme, che fino al 2015 prevedevano il pensionamento con 61 anni di età e tre mesi, e 36 anni di contributi. Insomma, al netto di pensionati, prepensionati e dipendenti dei centri per l’impiego, il numero totale dei dipendenti delle Province da ricollocare sarebbe ben inferiore ai 20mila e più vicino ai 15mila. Cosa sarà di questi dipendenti? L’intenzione del governo, indicata nella circolare Madia, è di concentrare sul loro riassorbimento tutte le forze e le risorse disponibili. Con qualche effetto collaterale, come la necessità di spostare di un biennio, dal 2016 al 2018, il termine per la stabilizzazione dei lavoratori precari del pubblico impiego.

Per assorbire il personale delle Province entreranno in campo, in prima battuta, le Regioni. Quelle che negli anni scorsi hanno trasferito delle loro funzioni agli enti provinciali, dovranno riprendersele indietro con tutto il personale adibito a quelle stesse funzioni. Nel caso in cui questo trasferimento di deleghe non ci sia stato, allora le Regioni dovranno destinare tutte le risorse per le assunzioni del biennio 2015-2016, al netto solo di quelle necessarie per i vincitori di concorso, per assorbire i dipendenti provinciali. In pratica tutto il turn over sarà vincolato all’assunzione dei lavoratori delle Province. Una misura simile la dovranno attuare anche le altre amministrazioni dello Stato, Comuni compresi. La Presidenza del Consiglio avvierà un monitoraggio sui fabbisogni di personale e sulle risorse disponibili di tutta l’articolazione della macchina statale. Anche in questo caso, sempre al netto dell’assunzione dei vincitori di concorso, le risorse dovranno tutte essere destinate ad assorbire i dipendenti provinciali. Stesso discorso vale anche per gli uffici giudiziari. Il bando per la mobilità per coprire 1.031 posti da cancelliere, dovrà essere prioritariamente destinato a quei lavoratori in mobilità delle Province che ne facciano richiesta.

Basterà questo a dare un posto tutti i dipendenti in mobilità? Al ministero della Funzione pubblica ne sono convinti. Eppure nella circolare è stata inserita una sorta di «clausola di salvaguardia». Se alla fine di questo processo dovessero rimanere dei lavoratori in esubero, c’è scritto, ci saranno solo due strade per gestirli. La prima sarà quella dei «contratti di solidarietà», con riduzione per tutti delle paghe e dei tempi di lavoro. Se nemmeno questo dovesse bastare scatterà il collocamento in disponibilità. Significa due anni all’80% dello stipendio e poi, eventualmente, il licenziamento. Ma questa, dice la circolare, è solo la «extrema ratio».

Jobs Act, il bluff delle tutele universali estese ai precari

Jobs Act, il bluff delle tutele universali estese ai precari

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Nel dibattito che da mesi accompagna il Jobs Act Poletti 2.0, il tema dei nuovi ammortizzatori sociali ha svolto il ruolo di Cenerentola nella celebre favola, se messo a confronto con il clamore suscitato dalla disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annesse nuove norme sul recesso. Poi il governo ha deciso di affiancare i due schemi di decreto legislativo, facendoli approdare – una volta ottenuto il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato – entrambi nelle Commissioni abilitate a fornire il parere obbligatorio anche se non vincolante sui testi.

La delega, con riferimento con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, elencava, inoltre, i seguenti principi e criteri direttivi: 1. rimodulazione e omogeneizzazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore; 2. incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti; 3. universalizzazione del campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al suo superamento e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite; 4. eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’Aspi, di una prestazione limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, in condizioni di disagio, con obbligo di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.

Si trattava, nelle intenzioni del governo, di un’operazione ambiziosa, promessa come “estensione universale” delle tutele. In realtà, la scarsità delle risorse finanziarie ne ha imposto un notevole ridimensionamento. Cosi, il provvedimento (all’articolo 5) commisura la durata della Naspi (ovvero la Nuova Aspi) alla pregressa storia contributiva del lavoratore per un periodo massimo di quattro anni; non prevede, inoltre, alcun incremento per i lavoratori con carriere contributive “più rilevanti”. Quanto all’annunciata “universalità” delle prestazioni non vi è traccia dell’estensione della Naspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (come richiesto dalla legge delega); viene introdotta, invece, un’indennità diversa (per requisiti, durata e copertura finanziaria) denominata Dis-Coll. Lo schema di decreto, poi, prevede un periodo di sperimentazione più breve (di otto mesi per la Naspi e di un anno per la Dis-Coll) rispetto a quello richiesto dalla legge-delega. A decorrere dal primo maggio prossimo e in via sperimentale per l’anno 2015, viene istituito (articolo 16) l’assegno di disoccupazione (Asdi) destinato ai soggetti che abbiano fruito della Naspi per l’intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, i quali, privi di occupazione, si trovino in una condizione economica di bisogno.

Nello schema predisposto è stato incluso, all’ultimo momento, all’articolo 17, anche il contratto di ricollocazione (stralciato dal testo riguardante il contratto a tutele crescenti). Dovrebbe rappresentare “il nuovo che avanza” nel campo delle politiche attive del lavoro, ma la sua piena operatività è a rischio: si rinvia la disciplina di alcuni importanti aspetti a un successivo decreto legislativo. La disposizione stabilisce che abbiano diritto al contratto di ricollocazione soltanto i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo: resterebbero quindi fuori dal campo di applicazione del contratto di ricollocazione i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo soggettivo e quelli licenziati legittimamente per giustificato motivo oggettivo. A conti fatti, anche chi, come il sottoscritto, è favorevole al contratto di nuovo conio e alle annesse tutele in tema di recesso, non può esimersi dal sottolineare l’esistenza di uno squilibrio tra le tutele che vengono meno nel caso di licenziamento e le nuove che si aggiungono sugli aspetti della protezione del reddito e del principale strumento delle politiche attive (il contratto di ricollocazione, appunto).

A determinare tale squilibrio saranno state certamente le limitate disponibilità finanziarie. Ma il “fatto materiale” (ovvero lo squilibrio) sussiste. Sarà anche per questo motivo, allora, che il ministro Giuliano Poletti si è messo, di impegno, a sostenere che il sistema pensionistico ha bisogno di flessibilità, in mancanza della quale gravi saranno le conseguenze sociali della riforma Fornero (un provvedimento che, a mio avviso, sta bene com’è). Si torna a parlare dell’idea dell’acconto – come prestito restituibile a rate – sulla pensione spettante, in caso di perdita del lavoro in prossimità della maturazione dei requisiti. Pare che l’Inps ne abbia quantificato gli oneri in circa 400 milioni l’anno che potrebbero essere ricavanti da un pesante giro di vite (grazie al ricalcolo col metodo contributivo per il quale “spinge” molto il presidente designato, Tito Boeri) non solo le “pensioni d’oro”, ma anche quelle di “bronzo”. In sostanza, con la ripresa annunciata, le aziende dovranno fare i conti con gli esuberi fino a ora “coperti” con gli ammortizzatori sociali ancien regime. Una pensione, in Italia, non la si nega mai a nessuno. Ed è sicuramente meglio che lavorare.

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

Andrea Bassi – Il Messaggero

La percentuale è bassa. Quasi irrisoria. Solo lo 0,007%. Su tre milioni circa di dipendenti pubblici, i casi di licenziamento per motivi disciplinari in un anno, il 2013 l’ultimo per il quale i dati sono disponibili, sono stati 220 in tutto su un totale di circa 7 mila procedimenti avviati. Novantanove di questi, il 45 per cento del totale, sono stati messi alla porta per assenze ingiustificate dal servizio; altri settantotto (il 36 per cento) per aver commesso reati; trentacinque, il 16 per cento, per inosservanza delle disposizioni di servizio, per negligenza o per comportamenti scorretti nei confronti di colleghi e superiori. Solo sette, invece, i licenziamenti per doppio lavoro non autorizzato e nessuno nel comparto scuola. Sono stati, invece, circa 1.300 i provvedimenti di sospensione dal lavoro.

I numeri sono stati appena diffusi dall’Ispettorato della funzione pubblica, l’organismo del ministero guidato da Marianna Madia che si occupa di verificare la correttezza dei comportamenti dei dipendenti pubblici. Lo stesso ispettorato inviato a indagare sulle assenze dei vigili urbani di Roma nella notte di San Silvestro. Non è un caso che i numeri siano stati diffusi proprio in questi giorni. In settimana ripartirà in Commissione Affari Costituzionali del Senato l’iter della riforma sulla Pubblica amministrazione. Il governo e il relatore del provvedimento, Giorgio Pagliari, dovrebbero presentare delle proposte di modifica all’articolo 13 del testo, quello che affronta proprio il tema del licenziamento dei lavoratori del pubblico impiego.

Nei giorni scorsi il ministro Madia ha messo alcuni paletti. Ha, per esempio, chiarito che nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari dichiarati illegittimi dalla magistratura, per gli statali, a differenza dei lavoratori privati, rimarranno le tutele dell’articolo 18 nella versione precedente le modifiche del «jobs act». In pratica se ad essere licenziato illegittimamente sarà un lavoratore pubblico, avrà sempre diritto al reintegro nel posto di lavoro. Per i lavoratori privati, invece, il reintegro rimarrà solo una possibilita residuale, quando cioè il fatto contestato dal datore di lavoro si sarà dimostrato del tutto inesistente. In tutti gli altri casi i lavoratori privati avranno solo diritto ad un indennizzo monetario crescente che, al limite, potrà arrivare a 24 mensilità di stipendio.

Cosa dirà allora l’emendamento che il governo e il relatore si preparano a depositare? Secondo quanto annunciato dal ministro Madia, ci sarà una delega specifica per semplificare le procedure di licenziamento disciplinare già previste dalla riforma Brunetta. In particolare l’intenzione del governo sarebbe quella di agevolare soprattutto quelle per «scarso rendimento». Una possibilità che la legge Brunetta già prevede. Le norme attuali stabiliscono che il lavoratore possa essere messo alla porta se riceve una valutazione insufficiente del rendimento per almeno un biennio. Ma dalle tabelle pubblicate dall’Ispettorato della Funzione pubblica, almeno per il 2013, nessun lavoratore risulta essere stato licenziato con questa motivazione. Il problema è che la valutazione dei dipendenti statali, seppure esplicitamente prevista, è rimasta fino a questo momento sulla carta.

Sempre la riforma Brunetta prevede che ogni anno gli statali ricevano un voto per poter accedere ai premi. Il 25 per cento dei lavoratori più bravi dovrebbe portarsi a casa un super-premio del 50 per cento delle risorse del trattamento accessorio, un altro 50 per cento un premio più basso in quanto dovrebbe dividersi il restante 50 per cento del salario accessorio, mentre l’ultimo 25 per cento dei dipendenti, quelli meno produttivi, non riceverebbe alcuna gratifica. L’avvio di questo meccanismo era legato tuttavia alla contrattazione collettiva. Essendo i contratti bloccati da ormai cinque anni consecutivi, non se ne è mai fatto nulla. Adesso il governo, attraverso la delega sulla pubblica amministrazione, ha intenzione di riprendere in mano il capitolo della valutazione rendendola effettiva.

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Archiviata la prospettiva di un posto fisso, per molti l’unica alternativa alla disoccupazione è saltare da un impiego precario all’altro anche nella formula dei cosiddetti mini-jobs. Si tratta del gradino più basso del precariato, sottopagato e ad elevata incertezza. A guidare l’exploit i settori del commercio, della ristorazione, del turismo e dei servizi. A tirare un bilancio è uno studio della Cgia di Mestre. Casalinghe, pensionati, badanti, studenti, disoccupati e «dopolavorisiti» sono le categorie che usufruiscono più di tali voucher, ovvero della possibilità di essere «assunti» per qualche ora da un committente venendo retribuiti attraverso l’utilizzo di un «buono- lavoro» di 10 euro lordi all’ora (pari a 7,5 euro netti).

I mini-jobs proliferano soprattutto nel Nordest: l’anno scorso sono stati venduti oltre il 40% del totale nazionale dei «buoni»: il 28,5% nel Nordovest, il 16,6% nel Centro e il 14,8% nel Sud e nelle Isole. Dal 2012, dice ancora la Cgia, anno in cui questo strumento è stato esteso a tutti i settori economici, il ricorso è più che triplicato: da poco più di 23.800.000 ore utilizzate due anni fa si è passati a 71.600.000 ore previste per l’anno in corso. Numeri triplicati anche se si analizza il trend dei lavoratori interessati: nel 2012 sono state coinvolte poco più di 366.000 persone, quest’anno, invece, ne sono previste più di un milione.

Ma questa forma di precariato ha comunque un risvolto positivo. Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, spiega che «proprio in virtù di questo strumento è stato possibile far emergere una quota di sommerso che altrimenti sarebbe stata difficile da contrastare. Ora, anche i lavoretti saltuari sono tutelati. In più, chi viene assunto per poche ore con questi buoni può menzionare nel suo curriculum questa esperienza. Inoltre, per limitare l’utilizzo improprio di questi buoni, il legislatore ha stabilito che ognuno di questi deve essere orario, datato e numerato progressivamente». Tuttavia, la possibilità di aggirare la norma non manca: purtroppo, questa possibilità è presente in qualsiasi caso, figuriamoci quando si tratta di un accordo che, come in questi casi, è di natura verbale.

I voucher rappresentano un sistema di pagamento che i datori di lavoro possono utilizzare per remunerare quelle prestazioni svolte al di fuori di un normale contratto di lavoro, garantendo al prestatore d’opera la copertura previdenziale presso l’Inps e quella assicurativa presso l’Inail. Sia per l’imprenditore sia per il lavoratore la legge stabilisce degli importi annui limite oltre ai quali l’utilizzo dei voucher non è più consentito. Lo scarto tra il numero dei voucher utilizzati e quelli venduti si sta assottigliando sempre di più: se nel 2013 l’incidenza dei primi sui secondi era dell’88,5, per l’anno in corso ale al 93,8%. Nel 2013, ultimo anno in cui sono disponibili i dati ufficiali, i settori maggiormente interessati dall’utilizzo di questi «buoni-lavoro» sono stati il commercio (25,2% del totale dei lavoratori coinvolti), il turismo-ristorazione (17,6%), e i servizi (13,6). Resta comunque molto elevato l’uso dei voucher anche nel settore manifatturiero (19,5%).