lavoratori

Ci vuole bilancio mentale

Ci vuole bilancio mentale

Il Foglio

L’articolo 81 della Costituzione è una piccola biografia d’Italia. Nella sua versione originaria, voluta da Luigi Einaudi, la norma imponeva una disciplina fiscale persino più rigorosa del principio del pareggio di bilancio oggi in vigore. In questa direzione si mosse la legislazione di bilancio fino al 1965, gli anni della grande crescita, della lira stabile e della tassazione moderata. Nel 1966 ci fu purtroppo il cambio di rotta, quando la Corte costituzionale ammise il ricorso all’indebitamento come forma di copertura finanziaria delle nuove spese: si aprì la voragine della politica lassista, il deficit allegro e il debito incontrollato, la cui coda è giunta fino ai giorni nostri.

Le forti tensioni subite dai debiti sovrani negli anni scorsi sono state all’origine della decisione dei paesi membri dell’Unione europea di includere negli ordinamenti nazionali il famigerato Fiscal compact. Il quale sarà pure una camicia di forza, ma solo fino a un certo punto: le spese devono pareggiare le entrate, ma il ricorso all’indebitamento è ancora consentito, con una votazione delle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e al verificarsi di eventi eccezionali come una forte recessione (ad aprile scorso, il Parlamento italiano ha fatto ricorso a questi margini di flessibilità, rinviando il conseguimento del pareggio di bilancio al 2016).

In questo contesto, appare poco comprensibile l’iniziativa di alcuni deputati del Partito democratico – tra cui Stefano Fassina – che con un emendamento alla riforma costituzionale sul Senato chiedono al governo Renzi il superamento del Fiscal compact. I “bersaniani” rivendicano una politica di bilancio anticiclica e misure di stimolo per la dOmanda aggregata. Nessuno nega che un problema di domanda interna esiste, in Italia e persino in Germania. Ma uno stimolo keynesiano ha forse senso con una decisione di scala europea, non con un messaggio nazionale di maggior spesa purchessia. La Banca centrale europea sta adottando una politica monetaria coraggiosa e poco convenzionale, ma ciò è possibile solo e soltanto in virtù della disciplina fiscale, anche di rango costituzionale, che l’Italia e gli altri paesi sI sono imposti. Riaprire oggi una discussione sull’articolo 81 della Costituzione – non in un contesto di ragionati investimenti comuni, ma soltanto per riaprire alla possibilità di rigagnoli di spesa pubblica clientelare – sarebbe un errore fatale: il deficit di oggi è la tassazione di domani e nessuno scommetterebbe su un paese che riprende a firmare cambiali per il futuro. Per di più nel momento in cui, su un altro fronte, annuncia finalmente tagli quantificati (seppur lievi) in sede di revisione della spesa pubblica.

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

L’articolo 18 (che garantisce l’inamovibilità dal posto di lavoro di qualsiasi dipendente privato che non sia dirigente) risale allo Statuto dei lavoratori che, concepito in pieno ’68, venne poi approvato il 20 maggio 1970. Esso quindi rappresenta un mondo che, piaccia o no, non esiste più. Per dare, sinteticamente, l’idea di che mondo era, basti ricordare che, allora, era proibito importare in Italia persino un’auto giapponese. I confini nazionali erano impermeabili e le guardie di frontiera li vigilavano in armi. L’euro era ancora da venire. La Cina era un paese dove la gente moriva di fame a milioni. Il Medio Oriente (salvo periodiche tensioni con Israele) era presidiato stabilmente da feroci satrapie ossequienti al potere delle multinazionali anglo-americane del petrolio. Il mondo, nel suo complesso, era poi diviso a mezzadria fra gli Stati Uniti e l’Urss che si neutralizzavano a vicenda con l’equilibrio del terrore.

Oggi l’articolo 18, espressivo di quel mondo, è sopravvissuto a quel mondo che non c’è più. È rimasto un tabù. Che infatti raggiunge un doppio obiettivo negativo. Da una parte non difende i lavoratori e, dall’altra, allontana gli investimenti. Se l’articolo 18 difendesse i lavoratori ma, nel contempo, tenesse lontani gli investimenti, ci potrebbe essere un dibattito fra i vantaggi e gli svantaggi della sua sopravvivenza. Ma, visto che non difende i posti di lavoro esistenti, e, nel contempo, con il suo puro valore simbolico di carattere dissuasivo, compromette quegli investimenti che potrebbero contribuire a creare nuovi posti di lavoro, si capisce che il dibattito sulla sopravvivenza o meno dell’articolo 18 è puramente ideologico e non è più basato sull’analisi del dare e dell’avere.

Perché l’art.18 non difende il posto di lavoro? Primo, perché quasi metà degli occupati nel settore privato, lavorando in società che hanno meno di 15 dipendenti, non godono dalla sua protezione. Questi ultimi infatti (nell’indifferenza di tutti, sindacati in primis) sono licenziabili immediatamente, senza sostanziose indennità e senza giusta causa. Poi ci sono i dipendenti delle aziende più grosse, nei quali l’art. 18 dovrebbe operare ma che, a causa della crisi, hanno delocalizzato in altri paesi la produzione oppure hanno semplicemente chiuso l’azienda. Anche questi dipendenti, che sono centinaia di migliaia, art. 18 o no, hanno perso il posto di lavoro. Poi ci sono i giovani al di sotto dei 40 anni per i quali l’art.18 non opera perché essi sono stati assunti in base a forme contrattuali contorte che hanno salvato le capre dei sindacati con i cavoli degli imprenditori. Infatti queste assunzioni sono avvenute solo a condizione che si accettasse, per questa categorie di persone, la non copertura dell’art.18, confermando così che sindacati e parte della sinistra, che fingono di essere stretti in difesa dell’art.18, sono disposti, nei fatti, pur di tenere in vita il tabù dell’art. 18 (e sperando che i giovani non se ne accorgano), a far pagare le conseguenze della flessibilità più estrema solo alle classe giovanili per le quali, sempre per lo stesso motivo, si sta preparando anche un avvenire pensionistico miserrimo.

La difesa ad oltranza dell’art. 18 è quindi puramente formale perché la sua protezione, come si è visto, agisce solo su una larga minoranza dei dipendenti privati. Una minoranza, inoltre, che si sta restringendo a vista d’occhio con il passare del tempo, creando disparità di trattamento socialmente e politicamente inaccettabili. In compenso, l’art.18 è diventato come il pallone di pezza che i bambini di un tempo si contendevano nelle partite nel cortile durante le sere d’estate. Viene periodicamente gettato in campo, e politici, sindacalisti, opinionisti, incapaci di risolvere i problemi, si accapigliano fra di loro secondo schemi e ragionamenti arrugginiti perché sono di mezzo secolo fa. L’art. 18 infatti non è più un problema da analizzare lucidamente nei pro e nei contro ma solo una bandiera da strappare all’avversario.

Visto che l’art. 18 tutela oggi solo una minoranza di lavoratori privati (perchè la mondializzazione non consente di ingessare nessuna impresa) bisognerebbe pensare di garantire, a tutti, il diritto di essere indennizzati automaticamente, con somme e parametri contrattualmente prestabiliti, in caso di perdita del posto di lavoro. In tal modo, da una parte, il lavoratore dispone di una somma per far fronte alle necessità insorgenti fra un’occupazione e la successiva e, dall’altra, si rende costosa per gli imprenditori la decisione di interrompere un rapporto di lavoro, introducendo, a loro danno, un’onerosità che penalizza l’eventuale soggettività che, non bisogna nascondercelo, è sempre possibile. Non solo, per evitare di fare un salto nel buio (anche se non è questo il problema) si potrebbe introdurre questa nuova normativa in un’area abbastanza ampia (chessò l’Italia settentrionale) e per un periodo di tempo significativo (tre anni). Dopo, a esperimento concluso, si potrebbe decidere definitivamente, con ragione di causa. Purtroppo nessuno degli attuali difensori (putativi) dell’art. 18, vuol rischiare di vedere come andrebbe a finire. Perché, se si scoprisse che l’art. 18 punisce, più che avvantaggiare, tutti i lavoratori privati, verrebbe meno una bandiera che, fin che c’è, si può agitare con più risultati demagogici che non con un ragionamento.

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Lavoro flessibile in crescita: togliere lacci crea posti

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il mercato del lavoro resta in grande crisi. Ma laddove si tolgono i vincoli, e si ha più coraggio, qualcosa inizia a muoversi. Nel secondo trimestre di quest’anno l’Istat evidenzia un aumento dei dipendenti a termine del 3,8%, pari a 86mila lavoratori in più rispetto ai 12 mesi prima. Anche il ministero del Lavoro e l’Isfol, analizzando i dati sui rapporti di lavoro attivati, segnalano, negli stessi tre mesi, una crescita dei contratti a termine del 3,9 per cento. Un incremento maggiore, ed è una notizia, riguarda l’apprendistato che dal varo della Testo unico Sacconi (fine 2011) inverte rotta e nel terzo trimestre 2014 cresce addirittura del 16,1% (+12mila contratti circa rispetto al secondo trimestre 2013, +8mila, su base destagionalizzata, rispetto al trimestre precedente). Un incremento concentrato essenzialmente nella classe d’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Resta invece in difficoltà l’apprendistato di primo livello per i giovani in età 15-19: dal 2010 il numero di nuovi rapporti risulta più che dimezzato.

Il dato sull’apprendistato è un primo segnale. Ma indicativo di quanto aiutino regolazioni semplici. Le aziende, da sempre, lamentano difficoltà nell’utilizzo di questo strumento carico di troppa burocrazia e di difficile gestione pratica (nonostante gli incentivi e i forti sgravi contributivi previsti). Ebbene, prima il decreto Giovannini, poi ulteriori interventi semplificatori su libretto formativo e formazione pubblica contenuti nel decreto Poletti, hanno colto nel segno e reso un po’ più accessibile l’apprendistato alle aziende. Sul coinvolgimento degli studenti il decreto Carrozza ha lanciato un programma sperimentale per coinvolgere alunni di quarta e quinta superiore. Il provvedimento attuativo è però arrivato ben sette mesi dopo, a ridosso della fine della scuola. A settembre partirà solo una grande azienda, Enel, con circa 150 assunzioni di studenti-apprendisti.

La direzione è quella giusta, ma la burocrazia va combattuta fino in fondo e serve un piano di comunicazione e orientamento ad ampio raggio. È poi importante abbattere le barriere ideologiche semplificando ancor più l’apprendistato a partire dai 14 anni, come chiede una parte della maggioranza capeggiata da Maurizio Sacconi (la misura convince pure il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi). Molto può fare anche «Garanzia giovani» (che è partita in forte sordina) e serve un legame vero tra scuola e lavoro, come sottolineano anche dal Pd, con l’economista del lavoro Carlo Dell’Aringa. È positivo, poi che il nuovo regime di a-causalità fino a 36 mesi dei rapporti a tempo non abbia “colpito” i contratti a tempo indeterminato che fanno segnare la prima variazione positiva (+140/0) da oltre due anni. L’attenzione ora è alla delega lavoro sul «Jobs act»che riparte a settembre. Serve coraggio, magari togliendo il limite del 20% ai contratti a termine e rendendo più flessibili mansioni e recesso nei contratti a tempo indeterminato. Il lavoro ha bisogno della ripresa economica, non c’è dubbio. Ma anche norme semplici, certe e chiare per le imprese possono aiutare.

Distacchi sindacali, verso un paese normale

Distacchi sindacali, verso un paese normale

Sergio Soave – Milano Finanza

Il dimezzamento dei distacchi sindacali, annunciato dalla titolare del ministero della Riforma della pubblica amministrazione Marianna Madia, ha il pregio di indicare uno dei nodi più aggrovigliati del sistema che paralizza l’Italia: l’intreccio conservatore tra burocrazia e corporazioni. La burocrazia, cioè la struttura amministrativa e gestionale pubblica, dovrebbe rappresentare l’interesse generale, contrapposto a quello legittimo ma particolare rappresentato dalle corporazioni o, se si preferisce un termine più carezzevole, dalle parti sociali. È così negli Stati che funzionano, indipendentemente dal fatto che la politica del governo sia basata sulla coesione sociale, come in Francia, o persino sulla decisione congiunta nel controllo di essenziali temi aziendali, come in Germania.

In Italia invece di una dialettica tra l’interesse generale e quelli particolari, cioè tra burocrazia e corporazioni, vige da sempre uno scambio delle parti, che trova nei distacchi sindacali, o anche simmetricamente nell’esercizio da parte dei sindacati di funzioni pubbliche come l’assistenza fiscale, un’espressione plastica. Si tratta però delle conseguenze di un intreccio conservatore assai profondo e radicato. Il governo fa bene a indicare un simbolo particolarmente evidente della patologia, ma non può illudersi di curarla partendo dai sintomi. Questo intreccio ha costituito la trama di continuità delle società italiane, dai Comuni in poi, che sostituiva o innervava Stati deboli o oligarchie autoreferenziali, ha resistito a tutti i cambiamenti istituzionali, è stato glorificato dal fascismo e rinforzato dall’antifascismo. Così in Italia è senso comune pensare che un segretario generale (di un ministero o di un sindacato) resta, mentre i ministri e i capi partito passano. Questo intreccio ha per sua natura un carattere conservatore, il che di per sé non sarebbe un male, ma lo ha declinato soprattutto negli ultimi decenni in una chiusura ermetica alle esigenze di riforma che nascono dalla globalizzazione dei mercati, e questa e la ragione che ha visto le varie esperienze politiche di governo bloccate nelle loro volontà o velleità riformistiche.

Ora ci prova Matteo Renzi, che ha una condizione di particolare forza politica, dovuta essenzialmente alla debolezza dei suoi concorrenti politici e alla comprensione generale dell’esigenza di cambiamento di cui ha fatto una bandiera propagandistica.Merita tutto l’incoraggiamento possibile che, per essere sincero, deve metterlo in guardia contro la faciloneria di misure simboliche che vanno bene per iniziare un processo di riforma e di trasformazione assai più complesso e profondo, ma non possono certo sostituirlo.

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Sergio Soave – Italia Oggi

Il dimezzamento dei distacchi sindacali, annunciato dalla titolare del ministero della riforma della pubblica amministrazione Marianna Madia, ha il pregio di indicare uno dei nodi più aggrovigliati del sistema che paralizza l’Italia: l’intreccio conservatore tra burocrazia e corporazioni. La burocrazia, cioè la struttura amministrativa e gestionale pubblica, dovrebbe rappresentare l’interesse generale, contrapposto a quello legittimo ma particolare rappresentato dalle corporazioni o, se si preferisce un termine più carezzevole, dalle parti sociali. È così negli stati che funzionano, indipendentemente dal fatto che la politica del governo sia basata sulla coesione sociale, come in Francia, o persino sulla codecisione nel controllo di essenziali temi aziendali, come in Germania. In Italia invece di una dialettica tra interesse generale e interessi particolari, cioè tra burocrazia e corporazioni, vige da sempre uno scambio delle parti, che trova nei distacchi sindacali, o anche simmetricamente nell’esercizio da parte dei sindacati di funzioni pubbliche come l’assistenza fiscale, un’espressione plastica. Si tratta però delle conseguenze di un intreccio conservatore assai profondo e radicato. Il governo fa bene a indicare un simbolo particolarmente evidente della patologia, ma non può illudersi di curarla partendo dai sintomi.

Questo intreccio ha costituito la trama di continuità delle società italiane, dai Comuni in poi, che sostituiva o innervava stati deboli o oligarchie autoreferenziali, ha resistito a tutti i cambiamenti istituzionali, è stato glorificato dal fascismo e rinforzato dall’antifascismo. Così in Italia è senso comune pensare che un segretario generale (di un ministero o di un sindacato) resta, mentre i ministri e i capi partito passano.

Questo intreccio ha per sua natura un carattere conservatore, il che di per sé non sarebbe un male, ma lo ha declinato soprattutto negli ultimi decenni in una chiusura ermetica alle esigenze di riforma che nascono dalla globalizzazione dei mercati, e questa è la ragione che ha visto le varie esperienze politiche di governo bloccate nelle loro volontà o velleità riformistiche. Ora ci prova Matteo Renzi, che ha una condizione di particolare forza politica, dovuta essenzialmente alla debolezza dei suoi competitori e alla comprensione generale dell’esigenza di cambiamento di cui ha fatto una bandiera propagandistica. Merita tutto l’incoraggiamento possibile che, per essere sincero, deve metterlo in guardia contro la faciloneria di misure simboliche che vanno bene per iniziare un processo di riforma e di trasformazione assai più complesso e profondo ma non possono certo sostituirlo.

Sindacati pagati dagli iscritti

Sindacati pagati dagli iscritti

Cesare Maffi – Italia Oggi

Non è piaciuta ai sindacalisti la riduzione di distacchi, aspettative e permessi retribuiti. Si sono sprecate le accuse di populismo, di demagogia, perfino di incremento di spesa a seguito del provvedimento con il quale la ministra Marianna Madia, in applicazione dell’articolo 7 del decreto-legge n. 90 sulla pubblica amministrazione (convertito dalla legge 114), ha invitato le organizzazioni sindacali a comunicare quali distacchi intendano revocare.

Invece la novità è altamente positiva, per più motivi.

C’è una ragione di risparmi, evidente. Se un insegnante torna a insegnare anziché continuare a svolgere attività sindacale, non ci sarà più bisogno di assumere un supplente in sua sostituzione. Quand’anche i sindacalisti che rientrano al lavoro avessero poco lavoro da svolgere, un risparmio ci sarebbe quando quel posto fosse cassato dall’organico per superfluità. Similmente il discorso vale per i permessi retribuiti.

C’è un aspetto politico da non trascurare. Matteo Renzi è riuscito dove avevano tentato, senza troppi successi, ministri del passato di vario orientamento. Ha dimostrato di non aver timore reverenziale verso le centrali sindacali. Già si era avvertita la sua allergia alla concertazione. Anche taluni toni quasi sprezzanti indicano la sua mancata subordinazione alla Triplice. Semmai, pur se il passo avanti è importante e meritevole, non è sufficiente.

Il vero obiettivo sarebbe far tabula rasa dei privilegi concessi ai sindacalisti dallo statuto dei lavoratori (non per nulla, poco dopo l’approvazione, vi fu chi parlò piuttosto di «statuto dei sindacalisti». Il principio dovrebbe essere di non mettere a carico della collettività i costi dei sindacati. L’attività sindacale andrebbe pagata dai tesserati, non già indiscriminatamente da tutti i dipendenti, compresi i non aderenti, nel caso delle imprese private, o da tutti i contribuenti, nel caso del comparto pubblico. Posto che la riforma del lavoro è ricorrentemente annunciata (anche se da ultimo attenzione e polemiche si sono concentrate sull’articolo 18), inserirvi anche la revisione delle spese sostenute per i sindacati non sarebbe un fuor d’opera. In parte, si è fatto con i partiti. I sindacati non dovrebbero rimanere esenti.

Distacchi sindacali dimezzati, in ballo 1.400 dipendenti

Distacchi sindacali dimezzati, in ballo 1.400 dipendenti

Matteo Barbero – Italia Oggi

Sono almeno 1.400 i dipendenti pubblici che dal 1° settembre dovranno rientrare in servizio dal distacco sindacale. È uno degli effetti del taglio delle prerogative sindacali previsto dal decreto Madia sulla p.a. e reso operativo dalla circolare n. 5/2014 diramata la scorsa settimana dalla Funzione pubblica (si veda ItaliaOggi del 23 agosto 2014). L’art. 7 del dl 90/2014 ha previsto che, a partire da settembre, i contingenti complessivi dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali già attribuiti al personale delle p.a. siano ridotti del 50% per ciascuna associazione sindacale. Per i distacchi, in particolare, la riduzione è operata con arrotondamento dell’eventuale frazione residua all’unità superiore e non trova, comunque, applicazione qualora l’associazione sindacale sia titolare di un solo distacco sindacale. Entro il prossimo 31 agosto, tutte le associazioni sindacali rappresentative dovranno comunicare la revoca dei distacchi sindacali non più spettanti alle amministrazioni, che a loro volta lo comunicheranno alla Funzione pubblica al fine di consentire le opportune verifiche a consuntivo. Secondo i dati forniti dagli stessi sindacati, i distacchi in essere oscillano tra i 2.700 e i 2.800, la metà dei quali fra pochi giorni dovrà cessare.

Queste cifre, però, si riferiscono alle c.d. unità di lavoro equivalenti, per cui i lavoratori interessati alla misura possono essere in numero maggiore. I risparmi attesi per le casse pubbliche, sempre stando alle fonti sindacali, non dovrebbero superare i 25 milioni di euro. Sebbene si tratti di piccoli numeri, nelle unità operative interessate indubbiamente si pone un problema organizzativo non trascurabile. Non a caso, la circolare n. 5/2014 dedica particolare attenzione al rientro dei dirigenti sindacali oggetto dell’atto di revoca. Questo, infatti, dovrà avvenire nel rispetto dell’art. 18 del CCNQ 7 agosto 1998, nonché delle altre norme di tutela dei dirigenti sindacali previste dagli ordinamenti di settore per il personale in regime di diritto pubblico.  

Permessi e distacchi sindacali dimezzati

Permessi e distacchi sindacali dimezzati

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Scatterà dal 1° settembre il dimezzamento alle prerogative sindacali stabilito dal dl Madia. Entro il 31 agosto tutte le sigle dovranno comunicare alle amministrazioni la revoca dei distacchi «non più spettanti» (sono interessati circa mille lavoratori che quindi tra cinque giorni rientreranno negli uffici). Il taglio del 50%, finalizzato «alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica», interesserà anche i permessi retribuiti. Ma non i permessi sindacali attribuiti alle Rsu (questo perché non sono attribuiti alle singole organizzazioni sindacali). E la riduzione prevista dal dl Madia non si applicherà anche «alle aspettative sindacali non retribuite, ai permessi non retribuiti e ai permessi per la partecipazione a riunioni sindacali su convocazione dell’amministrazione per il solo personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia (ciò in quanto per essi non è previsto alcun contingente).
La titolare di Palazzo Vidoni, Marianna Madia, ha reso nota ieri la circolare che attua la sforbiciata del 50% alle prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni prevista dall’articolo 7 del dl 90. Per le forze di polizia ad ordinamento civile e per il corpo dei vigili del fuoco si prevede, in sostituzione della riduzione del 50%, che alle riunioni sindacali indette dall’amministrazione «possa partecipare un solo rappresentante per sigla sindacale».
Sul fronte dei distacchi (che nella Pa corrispondono a un’aspettativa retribuita con la sospensione dell’attività lavorativa) la circolare specifica che la riduzione «non si applica nell’ipotesi di attribuzione all’associazione sindacale di un solo distacco». Il contingente complessivo dei distacchi, rideterminato in virtù dell’articolo 7 del dl Madia, potrà essere nuovamente ripartito tra le sigle sindacali con le relative procedure contrattuali e negoziali. In tale ambito, specifica la nota di Palazzo Vidoni, sarà possibile definire, «con invarianza di spesa», forme di utilizzo compensativo tra distacchi e permessi sindacali. 
Il distacco revocato dà diritto al rientro al lavoro (il posto viene infatti accantonato). Si può tuttavia far domanda per essere trasferiti in altra sede della propria amministrazione quando si dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver tenuto il domicilio nell’ultimo anno nella sede di richiesta ovvero in altra amministrazione anche di diverso comparto della stessa sede. Una sorta di mobilità, anche interdipartimentale, che va comunque applicata, spiega la Funzione pubblica, «nel rispetto dei principi ai quali si ispira questa disciplina con particolare riferimento ai requisiti e alle competenze professionali richiesti per il trasferimento». Nel solo comparto Scuola per il triennio 2013-2015 sono stati autorizzati 681 distacchi (in 340 torneranno quindi nelle scuole), con un risparmio di oltre 10 milioni annui (nel caso dei docenti si eviteranno le nomine dei supplenti).
La riduzione del 50% si applica anche al monte ore complessivo dei permessi sindacali retribuiti. Nell’anno corrente, sottolinea Palazzo Vidoni, il taglio verrà effettuato secondo il metodo del calcolo «pro-rata». Vale a dire: dal 1° gennaio 2014 al 31 agosto il contingente dei permessi sindacali spetta in misura piena, mentre dal 1° settembre al 31 dicembre, va ridotto nella misura del 50 per cento. Con la conseguenza, pertanto, che dal 1° settembre, qualora in seguito alla riduzione e alla rideterminazione del contingente le associazioni sindacali abbiano esaurito il relativo contingente a disposizione, «le medesime non potranno più essere autorizzate alla fruizione di ulteriori ore di permesso retribuito».
La circolare specifica come nel caso in cui i sindacati abbiano comunque utilizzato prerogative sindacali in misura superiore a quelle spettanti nell’anno dovranno restituire il corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti. In difetto l’amministrazione compenserà l’eccedenza l’anno successivo (fino al completo recupero). Per il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, «non è con il taglio di distacchi e permessi che si risolvono i problemi della Pa. Basta demagogia. Ci aspettiamo ora che il Governo rinnovi i contratti dei pubblici dipendenti fermi scandalosamente da ben sette anni». Il taglio «chiaramente metterà in difficoltà», ma «siamo forti e continueremo ad esercitare la nostra funzione» sottolinea Michele Gentile, responsabile Cgil dei settori pubblici.  

Vecchie ricette

Vecchie ricette

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Nonostante l’aggiustatina che droga e mignotte potranno dare al pil, il governo rimane a caccia di 20-25 miliardi. La legge di stabilità puntava sul contenimento della spesa, ma dalla spending review non sono arrivati, né arriveranno, i risparmi desiderati, per cui ecco che dal cilindro di ferragosto escono, more solito, tagli ai salari e alla previdenza per tenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tutto condito con l’ennesima puntata – temo non l’ultima – della fiction intitolata “articolo 18” e il solito balletto di dichiarazioni contrastanti tra diversi esponenti del medesimo governo. Non so se andrà davvero cosi, ma se fosse si tratterebbe di una grande delusione e di un grave errore di politica economica. Delusione perché non c’era bisogno del rottamatore armato di inedito vigore giovanilista per mettere in campo pratiche vecchie e già rese obsolete da chi le ha praticate in precedenza non cavando un ragno dal buco, anzi. Ma, soprattutto, ci troveremmo di fronte al gravissimo errore – economico, sociale, politico, di psicologia collettiva – di tornare a spremere il ceto medio che, come ha notato con efficacia Dario Di Vico sul Corriere, ha invece bisogno di continuare a credere di potercela fare a uscire dal pantano recessivo e deflattivo in cui siamo, pena il ritorno di quella depressione che fin qui si è mangiata i consumi e ha azzerato gli investimenti. E saremmo di fronte a una “spremitura” non solo insensata – non si esce dalla crisi punendo il ceto produttivo, sia esso lavoratore dipendente, professionista o imprenditore – ma anche contraddittoria, perché tutti i proclami della politica negli ultimi mesi sono andati in direzione opposta.

Non è un caso che il governo Renzi, primariamente, abbia voluto caratterizzarsi con la manovra degli “80 euro”. Dunque, e assurdo dare con una mano – senza neppure avere la copertura di spesa – nella speranza, peraltro poco fondata, di rimettere in moto la domanda interna, e poi prendere con l‘altra. E questo vale sia per l’eventuale intervento sugli stipendi della pubblica amministrazione, sia per il cosiddetto prelievo sulle pensioni d’oro. Nel primo caso, il tema non e quello di togliere (0 non dare più) un po’ a tutti – secondo la deleteria logica dei tagli lineari, ancor più devastanti laddove c’e maggior bisogno di meritocrazia – ma di rendere efficienti le amministrazioni riparametrando il numero degli addetti. Questo significa trasferire dipendenti da un’amministrazione a un’altra? Ottima cosa. Questo significa mandare a casa un po’ di persone? Spiacevole, ma necessario. E se poi ciò dovesse avvenire sia trasferendo al privato funzioni non strategiche ora nel pubblico (e ce ne sono tante), restringendo così il perimetro funzionale dello stato centrale e periferico, sia per via di una coraggiosa semplificazione del nostro elefantiaco e fallimentare decentramento amministrativo, ancor meglio.

Quanto alla previdenza, pensare di considerare “ricchi”, e quindi da spremere, i pensionati che stanno sopra i 2 mila euro lordi (ma anche con l’altra cifra che circola, 3.500 euro, sempre lordi, il discorso non cambierebbe), è stupido, prima ancora che profondamente sbagliato. E lo sarebbe, sbagliato, anche se l’asticella che individua l’area di prelievo si alzasse di molto. Non solo perché in quest’ultimo caso si rastrellerebbero risorse infinitesimali, ma perché non è dai redditi, per quanto alti, che si deve provare a ricavare ciò che serve a risistemare – specie se lo si vuole fare una volta per tutte – la baracca dei conti pubblici. No, l’obiettivo deve essere, e senza intenti punitivi, il patrimonio. Prima di tutto quello pubblico, sul quale occorre costruire una modalita di “sfruttamento” – cui chiamare a concorrere quello privato, con l’obbligo di acquisto di nuovi titoli e non con prelievi patrimoniali – con ‘intento di ridurre sotto il cento per cento del pil il debito pubblico (e relativi oneri) e ricavare risorse per investimenti in conto capitale. Bini Smaghi dice che si trattercbbe di una manovra pericolosa? Rispetto molto il suo parere, ma non lo condivido. Intanto perché egli critica allo stesso modo tutte le ipotesi di intervento sul debito, dal consolidamento alla patrimoniale, ma io non propongo né l’una né l’altra. E poi perché pecca di conservatorismo in un fronte che a furia di prudenze ci ha portato ad accumulare 2.168 miliardi di debito, di cui cento solo nel primo semestre di quest’anno. E non è certo con il mestolo degli avanzi primari che si svuota questo enorme pentolone.

Dunque, Renzi – che ha mostrato apprezzabile prudenza verso le ipotesi adombrate da alcuni suoi ministri – nel rimettersi in marcia tralasci questo pericoloso itinerario. Che è anche l’unico modo per uscire vivo dallo scontro sull’articolo 18. Il quale è un tabù che sarebbe meglio cancellare, ma è anche uno strumento, specie dopo la riforma Poletti del contratto a termine, dagli effetti decisamente limitati. Abolirlo sarebbe politicamente efficace, economicamente poco significativo. Ora, delle due l’una: o Renzi ha un piano di rilancio dell’economia vero, e allora può anche fregarsene di toccare l’articolo 18, oppure non ha carte in mano e quello diventa il suo jolly. Io preferisco la prima ipotesi.

Toccare i diritti acquisiti si può. Perché non partire dalla Pa?

Toccare i diritti acquisiti si può. Perché non partire dalla Pa?

Piercamillo Falasca – Il Foglio

Se la politica non riforma l’economia, l’economia riforma se stessa come può. La deflazione è una nuova tappa (quasi da manuale della lunga crisi italiana iniziata nel 2008, un fenomeno di aggiustamento naturale del livello dei prezzi, conseguenza inevitabile della scarsa competitività del sistema produttivo e del calo della domanda interna. Non avendo l’Italia una moneta nazionale, l’aggiustamento non può avvenire con una svalutazione (che solitamente è accompagnata da inflazione): si determina invece il calo dei prezzi di beni e servizi. Non è una buona notizia, e d’altronde non lo sarebbe nemmeno una svalutazione o l’uscita dall’euro, in verità: come tutti gli aggiustamenti di un’economia claudicante, la deflazione miete molte vittime. Si abbatte il reddito delle imprese e con esse il costo del lavoro, calano gli stipendi e aumenta la disoccupazione, con effetti ulteriormente nefasti sulla domanda.

E’ un circolo vizioso, i cui beneficiari di breve periodo sono i percettori di reddito fisso che si avvantaggiano dal calo dei prezzi a cui comprano. Ovviamente non esistono redditi totalmente fissi, se è vero che la deflazione aumenta i rischi di qualsiasi azienda e di qualsiasi rapporto di lavoro, per tutelate che sia. Ma senza dubbio, al tempo della deflazione, c’e chi può dormire sonni più tranquilli di altri: i dipendenti pubblici. E dunque, in un momento in cui perfino alcuni esponenti di governo lasciano intendere di essere disposti a mettere mano ai cosiddetti “diritti acquisiti”, è cosi eterodosso pensare allora che una misura equitativa sarebbe un piccolo taglio medio di tutte le retribuzioni pubbliche – lo 0,5 per cento, ad esempio – per destinare queste risorse pubbliche a investimenti in conto capitale che spingano innovazione, competitività e buona occupazione privata? Mezzo punto percentuale di retribuzioni pubbliche sono poco più di 800 milioni di euro annui, soldi con cui in 4-5 anni costruiremmo banda larga e ammoderneremmo scuole, strade, porti e aeroporti. Sarebbe una piccola grande rivoluzione.

Dal 2001 al 2011, le retribuzioni pubbliche sono aumentate molto più che nel privato (vedi dati Istat e Aran), senza peraltro alcun particolare miglioramento di produttività. Poi si sono fermate, come tutte le altre. Dal 2007 al 2011 il personale pubblico è diminuito dell’1,4 per cento (da 3,43 milioni di unità a 3,28), ma la retribuzione individuale media dei dipendenti a tempo indeterminato è cresciuta del 10 per cento: il taglio è avvenuto con i pensionamenti e la riduzione dei precari, mentre troppi dipendenti e dirigenti hanno goduto della malapratica delle “progressioni orizzontali”. C’è allora margine per un piccolo “sacrificio” da parte dei più garantiti tra i garantiti, i titolari di quei “diritti acquisiti” che anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, vuol mettere in discussione, a vantaggio dell’intera collettività e del futuro dell’economia italiana.