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Lavoro, le proposte che mancano

Lavoro, le proposte che mancano

Luca Ricolfi – La Stampa

«Care e cari, è il momento delle scelte, chiare, dedicate a creare lavoro». Così Susanna Camusso inizia la lettera con cui invita gli iscritti alla Cgil a partecipare in massa alla manifestazione di sabato prossimo a Roma. La segretaria del primo sindacato italiano ha perfettamente ragione: è il lavoro la priorità assoluta del Paese. E lo è per la semplice ragione che in nessuna parte del mondo avanzato (tranne forse in Grecia) la frattura fra chi ha un lavoro e chi non ce l’ha è così ampia come da noi. Chi lavora, lavora tantissimo, spesso in nero o con il doppio e triplo lavoro, chi è fuori del mercato del lavoro, giovani e donne innanzitutto, ha poche possibilità di entrarci, e pochissime di farlo con un contratto di lavoro «vero», ossia regolare, full time, a tempo indeterminato. Ma c’è anche un dramma nel dramma. Il dramma è che né il governo né il sindacato ci stanno offrendo un piano credibile per creare lavoro.

I due pilastri della ricetta della Cgil sono purtroppo i soliti: aumentare le tasse sui «ricchi», estendere le garanzie dello Statuto dei lavoratori alle piccole imprese. Un’idea, quest’ultima, da cui nel 2002, ai tempi del referendum sull’articolo 18, si era dissociato persino Cofferati. Quanto al governo, spiace dirlo, ma la sua strategia per creare posti di lavoro è scritta sulla sabbia. Il piatto forte è la cosiddetta decontribuzione (non far pagare i contributi sui nuovi assunti), un provvedimento che in questi giorni viene venduto sul mercato dei media ora come capace di creare 800 mila posti di lavoro in 3 anni (il ministro Padoan da Lucia Annunziata su Rai3), ora come capace di «incentivare» 850 mila assunzioni in un anno (il consulente Gutgeld sul Corriere della Sera). Ma si tratta di cifre campate per aria, e ora cerco di spiegare perché.

Prima osservazione: il budget per la decontribuzione stanziato per il 2015, se nelle prossime ore non verrà ancora cambiato qualcosa, è pari a 1,9 miliardi. Il costo dei contributi per un lavoratore a tempo indeterminato a tempo pieno è di circa 10 mila euro l’anno. Questo significa che, con il budget stanziato (1,9 miliardi) il governo è in grado di azzerare i contributi di 190 mila lavoratori, non certo di 850 mila. E infatti, per poter sostenere che potrebbero essere 850 mila, ossia più del quadruplo del reale, Gutgeld è costretto ad arrampicarsi acrobaticamente sugli specchi: molte assunzioni sono a part time, un lavoratore part time costa solo 4.500 euro l’anno di contributi, e comunque non tutte le assunzioni 2015 partono il 1° gennaio, quindi ci saranno anche aziende che richiederanno lo sgravio per pochi mesi. In questo modo, passin passetto, i 10 mila euro di contributi per lavoratore scendono a 2.200, e un budget di 1,9 miliardi riesce, miracolosamente, a «incentivare 850 mila assunzioni». Sembra il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: visto che i soldi per 850 mila assunzioni incentivate non ci sono proprio, si ricorre al trucco di conteggiare tutto, compresi i rapporti di lavoro part-time e le assunzioni di pochi mesi.

Seconda osservazione: il fatto che un’assunzione sia senza contributi, non garantisce minimamente che a quella assunzione corrisponda un posto di lavoro in più, ossia un posto che, senza quel contributo, non sarebbe mai stato creato. Se gli incentivi sono dati a pioggia, è verosimile che buona parte di essi vadano a coprire assunzioni che vi sarebbero state comunque, ad esempio per rimpiazzare chi va in pensione o cambia azienda; gli incentivi, in altre parole, rischiano di servire solo ad alleggerire i conti delle imprese.

Naturalmente dare una mano alle imprese è più che giusto, dopo anni di asfissia fiscale. Non solo, ma non v’è dubbio che, a fronte di 190 mila assunzioni incentivate, alcune (20 mila? 30 mila?) possano corrispondere a posti di lavoro in più, che senza gli incentivi non sarebbero stati creati. Ma il punto è che questa non è la strada più efficiente per massimizzare la creazione di nuovi posti di lavoro, specie con un budget limitato. Se la priorità è creare posti di lavoro nuovi, che senza gli incentivi non sarebbero mai nati, la via maestra è riservare gli incentivi alle imprese che aumentano l’occupazione, di cui sappiamo che hanno un’elevatissima reattività agli incentivi. La mia stima più prudente è che, con un contratto del genere (Job Italia), in un solo anno si creerebbero almeno 300 mila posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati, e si imprimerebbe al Pil una spinta pari ad almeno l’1% (il che, tra l’altro, permetterebbe di coprire i costi della mancata contribuzione).

Lo scenario che si prospetta, invece, pare di tutt’altro tipo. I sindacati, nonostante la generosa apertura di Susanna Camusso al Job-Italia nell’intervista rilasciata l’altro giorno a Francesco Manacorda sulla «Stampa», sembrano intenzionati a dare battaglia su questioni tutto sommato minori, tipo gli annunciati ritocchi alla disciplina dei licenziamenti (articolo 18 e dintorni). Il governo, per parte sua, non sembra rendersi conto che le risorse stanziate per alleggerire i contributi, troppo poche e troppo disperse, non sono in grado, neppure lontanamente, di lenire la piaga della mancanza di lavoro. Così, il dramma nel dramma si perpetua. Tutti parlano di occupazione, ma i tempi della politica sono lentissimi, e il copione, a quanto pare, non è molto diverso da quelli di sempre.

L’altra faccia dell’articolo 18

L’altra faccia dell’articolo 18

Eugenio Somaini – Europa

La frase di Draghi «il problema non è licenziare ma assumere» si presta a diverse interpretazioni e richiama quella della Sibilla «ibis redibis non morieris in bello», che come è noto poteva essere intesa come «andrai tornerai, non morirai in battaglia» o come «andrai non tornerai, morirai in battaglia». Non sono a conoscenza di studi approfonditi e conclusivi su quale è stato l’impatto dell’articolo 18 sull’occupazione, mi limiterò quindi a qualche considerazione di buon senso.

La prima è che l’esiguo numero dei casi in cui l’articolo 18 è stato invocato e applicato non prova di per sé l’irrilevanza dei suoi effetti concreti: è possibile, e direi addirittura probabile, che la lunghezza dei tempi di decisione dei tribunali e l’incertezza degli esiti della cause abbia dissuaso molte imprese dall’effettuare licenziamenti che avrebbero potuto risultare impossibili e costosi, sia in termini di soldi, sia ancor più in termini di reputazione e di clima sui luoghi di lavoro.
I licenziamenti che l’articolo 18 impediva e che la sua abolizione consente sono quelli che da un lato non hanno giusta causa e dall’altro non hanno carattere discriminatorio o serie motivazioni disciplinari.

Ciò che dovrebbe d’ora in avanti essere possibile è licenziare chi lavora poco e male e sostituirlo con chi lavora di più meglio: si tratterebbe di licenziamenti che non avrebbero nulla a che vedere con l’arroganza padronale, le “braghe bianche” evocate da Scalfari con una vena demagogica che finora non gli avevamo conosciuto (che sia un sintomo del populismo dilagante?) e sarebbero dettati solo da ragioni di efficienza e dalla ricerca di una maggiore produttività, qualcosa che andrebbe senz’altro ascritto a merito di un imprenditore. Licenziamenti di questo tipo sarebbero necessariamente accompagnati da assunzioni sostitutive e da guadagni di competitività per le imprese che potrebbero indurre a espansioni della produzione e a nuove assunzioni, questa volta aggiuntive e non meramente sostitutive.

I guadagni di produttività potrebbero anche essere maggiori di quelli immediatamente derivanti dalla sostituzione di un lavoratore scarsamente motivato con uno più capace e motivato ed essere dovuti al fatto che la licenziabilità per scarso impegno o scarsa produttività dovrebbe determinare in tutti reazioni che vanno nel senso di una maggiore produttività, tali effetti potrebbero prodursi anche senza alcun licenziamento, in quanto la licenziabilità dovrebbe indurre molti a mutare la propria condotta e ad abbandonare comportamenti che prima non erano soggetti a sanzioni ma che nel nuovo regime potrebbero portare alla risoluzione del rapporto di lavoro (ovviamente con il pagamento del dovuto risarcimento).

In sostanza è plausibile supporre che l’abolizione dell’articolo 18 produca col tempo effetti benefici attraverso due canali: quello della sostituzione, con licenziamento, di lavoratori poco produttivi con lavoratori più produttivi, e quello dell’incentivo a una maggiore produttività, che non potrebbe non trovare riscontro anche in un aumento delle retribuzioni. L’inconsistenza dei timori talvolta espressi che l’abolizione dell’articolo 18 porti allo scatenamento di impulsi antioperai del padronato risulta evidente alla luce del fatto che i licenziamenti da essa consentiti comportano oneri significativi in termini di risarcimenti che equivalgono alla retribuzione di lavoro che non viene prestato, una circostanza che dimostra come il problema del licenziamento sia ancora considerato soprattutto dal punto di vista del lavoratore.

Un ulteriore effetto positivo potrebbe riguardare l’immagine che gli stranieri hanno del mercato del lavoro e della giustizia italiana in materia di lavoro, un’immagine che per certi versi è probabilmente caricaturale e che può essere dissipata solo da misure che abbiano anche una valenza simbolica, valenza che, a torto o a ragione, l’articolo ha certamente acquisito anche grazie alla strenua e demagogica difesa che ne viene fatta, una difesa che sembra fatta apposta per dare a quella caricatura una credibilità che altrimenti le farebbe difetto.

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Un’operazione a costo zero per le imprese. Da appena 100 milioni per lo Stato. Ma molto costosa per i lavoratori. Il provvedimento sull’anticipo del Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta-paga, vistato dalla Ragioneria, entra in extremis nella legge di Stabilità varata ieri sera dal consiglio dei Ministri. Verranno rispettate le due condizioni annunciate dal governo: volontarietà della scelta di incassare anzitempo il Tfr da parte del lavoratore e nessun deficit di liquidità per le imprese, soprattutto quelle medio-piccole. Ma chi sceglierà di avere il Tfr in busta paga subirà su queste somme la tassazione secondo l’aliquota marginale. È questa, secondo le indiscrezioni, l’ipotesi sulla quale è orientato il governo. L’operazione Tfr in busta paga, quindi, non sarebbe conveniente, soprattutto per i redditi medio-alti.

Il testo definitivo non è stato distribuito ieri in conferenza stampa. Il meccanismo prevede che le banche che anticiperanno alle imprese le risorse per pagare il Tfr in busta-paga avranno la stessa remunerazione che oggi viene garantita al Tfr in azienda (1,5% più lo 0,75% del tasso d’inflazione). Il provvedimento dovrebbe avere un arco temporale che terminerebbe nel 2018 (data che coincide con la scadenza delle Tltro, l’operazione di rifinanziamento mirata a lungo termine della Bce).

Il dipendente privato (per quello pubblico la norma non vale) potrà fare richiesta di ottenere il Tfr in busta-paga mensilmente anziché alla fine del periodo lavorativo.Visto che l’accantonamento del Tfr corrisponde a circa una mensilità all’anno, per un lavoratore che incassi 1.400 euro netti significa ottenere in busta-paga più di 100 euro al mese per 13 mensilità. L’impresa per cui lavora dovrà farsi certificare dall’Inps il diritto alla prestazione. Tale certificazione verrà trasmessa alla banca che deciderà se erogare il finanziamento. Al termine del periodo lavorativo del dipendente, sarà l’azienda a dover restituire i soldi alla banca finanziatrice. Se non lo farà, la banca per recuperare le spettanze dovrà rivolgersi al fondo di garanzia dell’Inps. La novità sta nella controgaranzia dello Stato, pari a 100 milioni per il 2015. Tale controgaranzia consente alle banche di non trovarsi in difficoltà con le regole di Basilea perché evita loro di farsi carico di un fardello patrimoniale per i finanziamenti legati al Tfr in busta paga. Il provvedimento, previo decreto attuativo e successivo protocollo tra ministeri competenti e Abi, dovrebbe essere operativo a metà 2015 con effetto retroattivo dall’inizio dell’anno.

Ci sono due aspetti ancora da chiarire. Il primo attiene appunto alla cifra che lo Stato potrebbe incassare per la tassazione della parte del Tfr che entra in busta-paga e che una stima quantifica minimo in un miliardo e mezzo e massimo in 4 miliardi. L’altro aspetto riguarda il fondo Inps che raccoglie i versamenti effettuati dalle imprese sopra i 50 dipendenti, importi che con la nuova normativa potrebbe perdere. La manovra conterrebbe anche un altro aumento secco del prelievo, quello dell’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20%.

La riforma dei contratti è la priorità

La riforma dei contratti è la priorità

Vincenzo Visco – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro si è concentrato sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, argomento che tutti gli esperti considerano di scarso rilievo pratico, ma che ha una valenza altamente simbolica e quindi risulta politicamente molto rilevante. Il motivo per cui l’articolo 18 è percepito come un simbolo ha a che vedere con la storia stessa del movimento operaio a partire dalla fine dell’800. Il problema di fondo è se il lavoro debba essere liberamente scambiato sul mercato o invece debba essere diversamente regolato e tutelato. La questione rievoca le battaglie sul lavoro minorile, la tutela delle lavoratrici e della maternità, l’orario di lavoro, l’ambiente di lavoro, i diritti di rappresentanza, ecc… In sostanza l’articolo 18 evoca il principio secondo cui i datori di lavoro non possono fare quello che vogliono o ritengono più opportuno nei confronti dei loro dipendenti. Il venir meno di certe tutele o di certi principi rievoca tempi in cui l’equilibrio necessario tra lavoratori e datori di lavoro era profondamente squilibrato e il rischio che si possa tornare indietro.

Del resto anche oggi in Paesi non certo poco importanti la tutela del lavoro appare squilibrata, carente, precaria e talvolta assente. È comprensibile quindi l’attenzione con cui si guarda a questo problema. Queste sono le questioni che, più o meno consapevolmente, sono dietro le polemiche attuali che hanno ovviamente una valenza ideologica e politica in quanto riguardano i poteri effettivi o immaginati della parti in causa. Naturalmente le questioni relative ai licenziamenti discriminatori o disciplinari o comunque privi di una giusta causa possono essere (e sono in pratica) risolti diversamente nei vari Paesi, e non è detto che il reintegro sia necessariamente preferibile al risarcimento, né che l’intervento del giudice sia da preferire a una soluzione arbitrale. Tuttavia è evidente che qualsiasi soluzione si volesse adottare, sarebbe opportuno che fosse condivisa e non imposta, e al tempo stesso che non è utile né ragionevole rifiutarsi di discutere delle soluzioni alternative possibili, se cambiare può portare a miglioramenti.

Ma le questioni rilevanti del nostro mercato del lavoro sembrano altre: l’articolo 18 ha, come si è detto, una importanza concreta marginale, anche se sul piano politico la sua aggressione può apparire utile. Il problema di fondo risiede invece nella sistematica perdita di competitività del Paese dopo l’ingresso della moneta unica che avvenne, è bene ricordarlo, in un contesto in cui in tutti i Paesi partecipanti l’inflazione era sotto il 2%, il disavanzo sotto il 3% del PIL, e la bilancia dei pagamenti era in equilibrio, il tasso di cambio lira/euro inoltre – checchè se ne dica – fu a noi favorevole. Subito dopo tuttavia, dall’inizio degli anni 2000, inizia un processo di divaricazione tra la dinamica della produttività (stagnante) e quella dei salari nominali (crescente). La divergenza riflette due fattori fondamentali: l’andamento dell’inflazione, superiore alla media europea, e la carente capacità di innovazione del sistema.

In poco più di 10 anni abbiamo così perso 30-40 punti di competitività rispetto alla Germania che ha affrontato l’ingresso dell’euro con una incisiva riforma del mercato del lavoro e della contrattazione promossa dal governo, ma condivisa da imprese e sindacati. In Italia il meccanismo contrattuale è rimasto invece lo stesso, furono inoltre assicurati in più occasioni rinnovi dei contratti del pubblico impiego che si sarebbero dovuti evitare e che hanno svolto la funzione di pivot rispetto al resto del mercato del lavoro; inoltre anche negli altri settori protetti dalla concorrenza si manifestavano fenomeni analoghi, e alla fine anche i contratti dell’industria erano spinti verso una crescita non giustificata dalla produttività. Il risultato è stato una perdita di esportazioni, di reddito e di occupazione, una carenza di investimenti, un peggioramento delle condizioni di bilancio, nonostante l’aumento della tassazione. L’esplosione della crisi finanziaria e la pretesa dei Paesi creditori di imporre ai soli Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento hanno fatto il resto. È dal sistema di contrattazione che occorre quindi iniziare, esso va reso flessibile sia a livello privato che pubblico, sia a livello aziendale che territoriale, con l’obiettivo di far crescere contemporaneamente sia la produttività (investimenti pubblici e privati) che i salari.

Oggi ciò non avviene, anzi avviene il contrario. Per esempio, se si esamina l’ultimo contratto dei metalmeccanici si vede che esso prevede per il 2014, anno di recessione e di deflazione, un incremento salariale superiore al 2% che poteva apparire modesto e moderato quando il contratto fu firmato nel dicembre 2012, ma che risulta oggettivamente stravagante ex post nella situazione attuale in cui non tutte le imprese, anzi probabilmente molto poche, sarebbero in grado di onorare gli impegni senza conseguenze negative. Gli interventi sul mercato del lavoro dovrebbero quindi farsi carico e trovare soluzioni per questi problemi che sono quelli rilevanti. E non si dica che l’Italia è diversa dalla Germania a causa della presenza prevalente di piccole imprese, in quanto la necessaria elasticità salariale e di organizzazione del lavoro potrebbe essere assicurata anche da apposite contrattazioni in sede locale e territoriale, tenendo conto della localizzazione delle imprese, e di altri specifici fattori di costo. I cambiamenti necessari sono quindi molti e profondi. Si tratta di avere coraggio e consapevolezza da parte sindacale e imprenditoriale ed equilibrio e capacità di leadership da parte del governo. Ma nella situazione attuale non mi sembra esistano altre alternative.

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Ammortizzatori sociali, nel 2013 spesi 23,8 miliardi

Serena Uccello – Il Sole 24 Ore

Nel 2013, i cittadini che hanno beneficiato di un ammortizzatore sociale (Cassa integrazione guadagni, mobilità e indennità di disoccupazione, Aspi e MiniAspi) sono stati quasi 4,6 milioni, con un aumento del 6,5% rispetto al 2012 (280mila unità in più). Se si paragonano, invece, i dati del 2013 con quelli del 2008 (ultimo anno senza la piena crisi), l’aumento è stato di 2,4 milioni di persone (+113,6%), in quanto in quell’anno le persone beneficiarie di ammortizzatori sociali furono 2,1 milioni. A rivelarlo è il terzo Rapporto del Servizio Politiche del Lavoro della Uil, secondo cui nel 2013 sono stati spesi 23,8 miliardi, segnando un aumento del 5% rispetto all’anno precedente (1,1 miliardi di euro in più).

«Un gran numero di persone – sottolinea Guglielmo Loy, segretario Confederale Uil – circa un terzo dei lavoratori del settore privato, ogni anno conosce l’esperienza, spesso amara e angosciante, in alcuni casi un sollievo per l’aver evitato comunque il licenziamento, di avere una forma di sostegno al reddito». Un sistema di protezione sociale che, tra indennità e contributi figurativi, nell’ultimo anno è costato 23,8 miliardi di euro, (+13,8 miliardi di euro rispetto al 2008). Il tutto finanziato per 9,1miliardi di euro con i contributi di lavoratori e aziende e per 14,7 miliardi di euro a carico della fiscalità generale.L’importo medio, tra sussidi e contribuzione figurativa, per ogni beneficiario di ammortizzatori sociali, è di 5.191 euro pro capite (4.353 euro per la cassa integrazione, 18.589 euro per la mobilità e 4.768 euro per l’Aspi, Mini Aspi e indennità varie di disoccupazione). Nello specifico – spiega Loy – le persone protette dalla cassa integrazione guadagni, tra ordinaria, straordinaria e deroga, sono state 1,5 milioni (in diminuzione del 3,9% rispetto al 2012); mentre aumentano dello 0,9% le persone in mobilità, ordinaria e in deroga (arrivando a 187mila unità complessive); mentre tra Aspi, MiniAspi e Indennità di disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, i benefieiari sono stati 2,8 milioni con un aumento del 13,6% rispetto al 2012 (+341mi-
la).

Tornando ai costi, perla cassa integrazione la spesa è stata di 6,7 miliardi di euro, in aumento del 9,9% rispetto al 2012 (604 milioni di euro); per le indennità di mobilità ordinaria e in deroga il costo è stato di 3,5 miliardi di euro, con un aumento del 19,6% sul 2012 (+568 milioni di euro); perAspi, Mini Aspi e disoccupazione ordinaria, speciale edile e agricola, il costo è stato di 13,6 miliardi di euro in leggera diminuzione rispetto al 2012 (-0,3%). Il capitolo degli ammortizzatori in deroga, finanziati completamente dalla fiscalità generale, nel 2013 e stato, tra cassa integrazione in deroga e mobilità in deroga, di 2 miliardi di euro.

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Filippo Caleri – Il Tempo

La riforma del lavoro c’è. O meglio ci sarà. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso il sì del Senato al Jobs act, la legge delega al governo per cambiare le regole che disciplinano il mercato dell’impiego, ha messo il primo tassello per rendere la disciplina in materia più flessibile. Non è una rivoluzione copernicana ma non appena i decreti delegati saranno emanati sarà possibile di modificare ad esempio le mansioni in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (da individuare «sulla base di parametri oggettivi») e mantenendo il livello salariale. Non solo. Arriverà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che significa che le tutele previste dall’articolo 18 saranno meno forti per i neoassunti. Non significa che l’occupazione ripartirà, visto che per creare posti di lavoro servono gli investimenti. E quelli non si fanno per legge. Ma sicuramente gli imprenditori non avranno più scuse sulla pesantezza del quadro regolamentare quando devono assumere. Intanto ieri è arrivato il plauso dell’Ocse a Renzi. Il via libera del Senato al Jobs Act «è uno sviluppo molto positivo». Se «pienamente implementato», il provvedimento «può contribuire a mettere il Paese su un sentiero di crescita più dinamica» ha detto Il segretario generale dell’Ocse, Gurria. Ecco le misure principali.

Neossunti
Per i nuovi assunti ci sarà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e cioè in relazione all’anzianità. Si va all’eliminazione del reintegro per i licenziamenti economici, che viene sostituito dal solo indennizzo certo e crescente con gli anni di servizio.

Licenziamenti
Resta la possibilitò del reintegro per i licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare “particolarmente gravi”, le cui fattispecie saranno poi specificate nel decreto delegato. Questo sempre per i neoassunti. Il reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta per i licenziamenti discriminatori.

Contrati stabili
L’obiettivo del Governo è quello di promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata» rendendolo «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Questo comporta un riordino delle tipologie contrattuali, con l’abolizione delle forme «più permeabili agli abusi e più precarizzanti, come i contratti di collaborazione a progetto». Per questo si punta a definire un Testo organico semplificato dei contratti e rapporti di lavoro.

Cambiare mansioni
Sì alla revisione delle mansioni del lavoratore nel caso che parta la riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ma va basata su «parametri oggettivi», per «la tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita» ma anche “economiche”, con limiti alla modifica dell’inquadramento. Nella revisione delle mansioni anche la contrattazione aziendale e territoriale può individuare “ulteriori ipotesi”.

Il Governo assume
Arrivano 1,5 miliardi aggiuntivi per i nuovi ammortizzatori sociali. L’obiettivo è di estenderli a una platea di lavoraori più larga. In tutto sul piatto ci sono 11-12 miliardi. Con questi maggiori fondi si punta anche sulle politiche attive e su una maggiore tutela della maternità.

Salario minimo
Resta l’obiettivo di introdurre «eventualmente anche in via sperimentale» il compenso orario minimo anche per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti nazionali.

Ferie da regalare
Confermata la possibilità per il lavoratore che ha ferie in eccesso di cederle a colleghi che ne abbiano bisogno per assistere figli minori che necessitano di cure.

Solidarietà
Si punta a semplificare e ad estendere il campo di applicazione dei contratti di solidarietù potenziandone l’utilizzo in chiave “espansiva”, per aumentare cioè l’organico riducendo l’orario di lavoro e la retribuzione del personale.

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Lorenzo Vendemiale – Il Fatto Quotidiano

“Non siamo partiti dall’edilizia, ma dall’annoso problema dei lavoratori socialmente utili e della gara per i servizi di pulizia”. A svelare il bluff dell’operazione “Scuole belle” sono gli stessi vertici del ministero dell’Istruzione. L’obiettivo non erano le scuole: i soldi, 450 milioni di euro in totale, sono stati in realtà stanziati per risolvere il problema degli ‘ex Lsu’, migliaia di lavoratori che svolgono le opere di pulizia nelle strutture scolastiche del Paese, messi in difficoltà dal ribasso dell’ultima convenzione Consip. Il progetto di manutenzione è solo il modo di garantire a questi dipendenti la continuità occupazionale perduta. Così gli istituti scivolano in secondo piano: fondi distribuiti a pioggia, senza considerare gli interventi realmente necessari; importi, in alcuni casi di decine di migliaia di euro, spesi per operazioni marginali, perché solo queste rientravano nelle competenze dei lavoratori da occupare.

“Scuole Belle” insomma si trasforma, diventa la storia un’iniziativa che riguarda sì la scuola italiana, ma non è stata calibrata sulle esigenze della scuola italiana. Non più il grande progetto annunciato in pompa magna dal presidente del Consiglio, ma i classici due piccioni con una fava. Anche i presidi ne sono consapevoli. “Il progetto non è come l’hanno presentato: pensavamo di poter gestire quelle risorse, con certe cifre avremmo potuto fare cose importanti. In realtà c’è solo da scegliere tra alcune opzioni di lavori possibili. È tutto incanalato perché quei soldi servono a dare da mangiare ai lavoratori socialmente utili, le scuole vengono dopo”, spiega Fernando Iurlaro, dirigente dell’Istituto comprensivo Copertino, in provincia di Lecce.

I soldi dove ci sono più lavoratori

La riprova sta proprio nel processo con cui l’esecutivo ha elaborato la graduatoria e quantificato gli importi. I 150 milioni per il 2014, che diventeranno 450 milioni fino ai primi mesi del 2016, sono esattamente quanto serve a colmare il gap aperto dall’ultimo bandoConsip. E i fondi sono stati distribuiti tra le varie province del Paese non sulla base delle richieste delle scuole ma sul numero dei lavoratori. Tanto che su 450 milioni totali 330 finiscono al Meridione – la Campania da sola ne prende 171, la Puglia 68 – solo perché la maggior parte degli Lsu si trova in queste regioni. Non certo perché le strutture del Sud siano messe peggio di quelle del Nord.

A ricostruire l’iter è Sabrina Bono, capo dipartimento Miur per le risorse finanziarie: “Quella dei lavoratori socialmente utili è un’emergenza che nasce dalla gara per i servizi di pulizia: l’esternalizzazione, se da un lato ha razionalizzato i costi, dall’altro ha generato una pressante questione sociale. Per affrontarla, il nuovo governo ha pensato ad una soluzione che non fosse il solito ricorso agli ammortizzatori sociali. E visto che sul tavolo c’era già il tema dell’edilizia scolastica, si è deciso di inaugurare un filone riguardante la piccola manutenzione”. Questo genere di lavori, infatti, ricade proprio all’interno della convenzione Consip che riguarda gli “ex Lsu”. Così sono stati messi in cantiere un tot di opere in base al fabbisogno di questi lavoratori, non delle scuole. Legittimo. Anche lodevole, a sentire alcuni protagonisti come i sindacati o i vertici del ministero, soddisfatti di aver raggiunto un duplice obiettivo: “Per noi è una bella iniziativa, fino all’anno scorso in alcune scuole si facevano collette fra i genitori per riverniciare le aule. Abbiamo ricevuto tante lettere di ringraziamento”, afferma la Bono. Sicuramente, però, non è quello che aveva raccontato il premier Renzi, che negli ultimi mesi aveva più volte sbandierato l’intenzione di mettere la scuola al centro dei piani del governo. Mentre le cose sono andate diversamente.

Gli effetti negativi sui lavori

La particolare genesi del progetto, infatti, ha comportato alcune storture nella destinazione dei fondi alle scuole e nel loro impiego. La prima, la più macroscopica, è che il principale criterio di ripartizione è stato il numero di lavoratori presenti nella provincia: i soldi, insomma, non sono andati alle scuole che ne avevano più bisogno. Del resto, non c’è stato alcun bando a cui gli istituti potevano partecipare, nessun censimento specifico per monitorare gli interventi da effettuare (se non la consueta comunicazione che all’inizio di ogni anno i presidi fanno ai Comuni di appartenenza). Così nelle province più “munificate” dal progetto (come ad esempio Napoli con 37 milioni di euro, o Lecce con 10 milioni) è capitato che alcune scuole, le più grandi, si vedessero assegnati fino 200mila euro. Cifre ben lontane dai 7mila euro fissati come importo minimo dal Miur, o dalla media di 20mila euroscarsi per plesso. Sempre, però, per fare interventi “di cacciavite”. La lista delle operazioni possibili, poi, è abbastanza ristretta: verniciatura delle pareti e cancellazioni di scritte; riparazioni degli infissi; rimozione e riallocazione delle strutture didattiche (praticamente montare o spostare mensole, armadi, lavagne); piccoli interventi all’impianto idrico-sanitario (caldaie escluse, però); rifacimento e manutenzione del giardino.

È possibile spendere decine, a volte centinaia di migliaia di euro solo in questo tipo di lavori? Evidentemente sì. Si doveva farlo, del resto. Al massimo è stata concessa la possibilità di destinare fondi avanzati per pagare a canone servizi di pulizia e giardinaggio per i prossimi mesi. E pazienza che in alcuni casi gli stessi presidi abbiano avanzato dei dubbi. “A me alcuni costi sono sembrati spropositati. Ad esempio, il 15% secco solo per pulizie di fine cantiere (altra voce della circolare, ndr) mi è sembrato esagerato”, spiega Tonino Bacca, dirigente scolastico del circolo “Livio Tempesta” a Lecce. La sua direzione didattica si è vista assegnare 166mila euro, di cui 25mila circa se ne andranno solo per smontare i cantieri. “A casa mia non avrei mai fatto quei lavori a quelle cifre”, conclude. “Se avessi potuto decidere, avrei speso solo una parte dei fondi in manutenzione e il resto li avrei destinati a migliore la qualità delle attrezzature e dell’offerta formativa”. Discorso simile in un’altra scuola della provincia: qui la preside (che ha preferito rimanere anonima) ha speso circa 50mila euro per riverniciare 16 aule; ma pochi mesi prima la ritinteggiatura di 10 aule, a spese del Comune, era costata solo 17mila euro; in proporzione, meno della metà. È il genere di inconvenienti che si verifica con i finanziamenti a pioggia. Il risultato, alla fine della giostra, è una “mano di fresco” ai 7.751 plessi interessati, che ha lasciato parzialmente soddisfatti i presidi: da una parte felici di aver migliorato le condizioni delle loro strutture, dall’altra convinti che con le stesse cifre si sarebbe potuto fare di più e di meglio. Tutti contenti, invece, i lavoratori impiegati dal progetto, i veri beneficiari dell’iniziativa.

Lsu: chi e quanti sono

Per capire di chi si tratta e da dove nasce questa esigenza bisogna fare un passo indietro. In totale parliamo di circa 21mila uomini e donne in tutta Italia, concentrati per oltre il 50% nelle regioni del Sud. Alcuni provengono dai cosiddetti “appalti storici”, impiegati in questo settore sin dagli anni Ottanta. Altri, la maggior parte, sono appunto gli ex “lavoratori socialmente utili” (Lsu): disoccupati o cassaintegrati che nel 2001 il governo Prodi decise di stabilizzare all’interno delle scuole per i lavori di pulizia, impegnandosi a stanziare ogni anno le risorse necessarie per mantenerli. La loro situazione si è però complicata nel corso degli anni: le opere di pulizia sono state prima sottratte agli enti locali nel 2007, poi esternalizzate. E l’ultima gara Consip del 2011 ha visto dei ribassi tali (in alcuni casi anche del 30-50%) da indurre le ditte a presentare un piano di riduzione consistente dell’orario di lavoro. Si tratta della Dussmann in Puglia e Toscana; della Manutencoop in Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia e Trentino Alto-Adige; e del consorzio Rti in Sardegna, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo Molise, Valle D’Aosta, Piemonte e Liguria (nelle altre regioni la gara non è stata completata).

Già negli scorsi anni erano state varate delle operazioni straordinarie di pulizia, per far fronte all’emergenza. Quindi, nel febbraio 2014, il lancio di “Scuole belle”, per dare una svolta alla questione. Con i soldi del progetto, infatti, i lavoratori dovrebbero essere a posto almeno per due anni. Poi alcuni di loro dovrebbero andare in pensione, il bacino cominciare a svuotarsi. E il “bubbone” sgonfiarsi. Con piena soddisfazione del governo. Un po’ meno delle scuole, che per essere pulite meglio dovrebbero sperare in una disoccupazione maggiore.

Non si usi la Costituzione per difendere l’articolo 18

Non si usi la Costituzione per difendere l’articolo 18

Andrea Del Re – Corriere della Sera

Il sondaggio di Nando Pagnoncelli (Corriere, 28 settembre) evidenzia che il 53% degli italiani non sa cosa preveda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Quella norma rimane dunque più un tema della politica che non del sentire quotidiano. Il che conforterebbe l’assunto di quanti sostengono che si tratti di una mera battaglia ideologica. L’articolo 18 si applica a circa un terzo dei lavoratori – chi si trova in imprese sopra i 15 dipendenti (tranne sindacati, partiti, associazioni culturali). Il datore di lavoro sotto quella soglia, in caso di licenziamento illegittimo, se la «cava» con un risarcimento massimo di 6 mensilità, salvo che non venga dichiarato discriminatorio. «Precari» sono dunque, di fatto, tutti i dipendenti, anche a tempo indeterminato, sotto il fatidico numero di 15 assunti.

Vista l’imbarazzante applicazione di certa magistratura, nel 1985 e nel 1987 il «padre» dello Statuto, il giurista socialista Gino Giugni, tentò invano di modificarlo spostando la soglia a 80 dipendenti e 5 miliardi di lire di fatturato. Nel ’90, Dc e Pci approvarono la possibilità per il lavoratore, vinta la causa, di rinunciare al reintegro in cambio di 15 mensilità. Sono rari i casi in cui il lavoratore abbia poi preferito la reintegrazione al risarcimento: il che dimostra l’inapplicabilità dell’art. 18 nella pratica quotidiana. La Consulta, nel ’92, ritenne legittima tale scelta. Nel 2000, la stessa Corte dichiarò l’ammissibilità del referendum per l’abrogazione dell’articolo 18, definendolo una norma dal contenuto non «costituzionalmente vincolato». Il reintegro è solo «uno del modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro»; senza di esso «resterebbe comunque operante la tutela risarcitoria» di cui si sottolineò la «tendenziale generalità». Dai ripetuti pronunciamenti della Consulta, in modo inequivocabile, si ricava che 1’articolo 18 non ha valore di intangibilità costituzionale e può essere sostituito dalla sola tutela risarcitoria – questa sì indefettibile.

La vera riforma dell’articolo 18

La vera riforma dell’articolo 18

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari. Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.

È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali. Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

Infatti nella via di un’impresa sono rari i casi in cui per sopravvivere deve licenziare, delocalizzare, oppure ridurre l’occupazione (fini per cui tra l’altro si possono attivare già altri strumenti). Rari i casi di disoccupazione tecnologica: già Sismondi, due secoli fa, ironizzava con chi teme que le roi, demeuré tout seul dans l’ile, en tournant constamment une manivelle, fasse accomplir, par des automates, tout l’ouvrage de l’Angleterre. Rari sono anche i casi opposti, in cui l’azienda aumenta gli organici perché è riuscita a invadere nuovi mercati, oppure perché ha sbaragliato la concorrenza con un’innovazione. La gran parte delle aziende, per la massima parte della loro vita, procede per variazioni incrementali, una nuova filiale di vendita, una macchina più veloce, un’organizzazione del lavoro più efficiente: la metodica, incessante, noiosa ricerca di fare le cose in modo più produttivo. Rare sono le inaugurazioni di nuovi capannoni, rare per fortuna le chiusure, la normalità è migliorare marginalmente ogni fase di ogni attività: e questo significa anche trovare persone marginalmente più capaci di svolgerle.

Fare squadra non è soltanto la qualità mitizzata di leader mitizzati, lo fanno tutte le cellule delle organizzazioni: e nessun allenatore riesce a fare squadra se la sola soluzione di cui dispone è allungare la panchina. Per questo, i miglioramenti marginali di efficienza sono «giustificato motivo economico» per licenziamenti individuali: se anche ci fosse ricorso al giudice e questo ordinasse il reintegro, l’azienda deve potere optare per l’indennizzo. È vero, l’azienda è, per storica definizione, luogo dello scontro di classe; è anche, per umane ragioni, luogo di abrasioni caratteriali: dietro il licenziamento disciplinare ci può essere una meschina ripicca, una stupida vendetta. Ma la fabbrica è anche il luogo in cui ognuno è nodo di un reticolo complesso di relazioni, verticali e orizzontali, anche i rapporti gerarchici sono trasformati dalla generale disintermediazione: sarebbe proprio stupido rischiare di danneggiare un ambiente sociale con una palese ingiustizia.

Recuperare produttività è il cuore del problema italiano. Molto dipende dai servizi erogati dallo Stato, quindi dal funzionamento dello Stato stesso, molto dalla produttività delle singole aziende. Per le poche che sono leader mondiali nei loro settori, per le tante che cercano di tenere il mare, l’aumento della produttività è un processo incrementale, che si basa sulla continua ottimizzazione delle funzioni e sulla selezione di chi meglio le sa svolgere. La produttività dell’Italia ristagna da 15-20 anni, rispetto ad aumenti molto più congrui dei paesi concorrenti: eppure il governo sembra voler lasciare a questo proposito le cose come stanno, non far nulla per facilitare questo processo di miglioramento interno.

Le nuove norme, e quindi anche il considerare «giustificato motivo economico» i miglioramenti marginali di efficienza, non si applicheranno a chi oggi ha un contratto a tempo indeterminato. E nella nostra cultura giuslavoristica rimarrà per anni il principio della job property, che la riforma avrebbe dovuto sradicare. Se per i casi di licenziamento disciplinare non si desse all’azienda la possibilità di procedere per l’indennizzo in luogo del reintegro, e se questa comunque non valesse per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato fino alla loro pensione, ci sarebbe veramente da interrogarsi sul perché di tanta contestazione a una legge che estende diritti a molti (dipendenti di aziende con meno di 15 persone, lavoratori non a tempo indeterminato, contratto di reinserimento per tutti) e non ne leva a nessuno. Verrebbe da dire che questa è stata una finta battaglia, ingaggiata soltanto per poter dire di averla vinta.

Politiche attive, rilancio urgente

Politiche attive, rilancio urgente

Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore

Superare la vecchia idea del posto fisso e l’articolo 18. È questo il progetto di Matteo Renzi e del Jobs Act per portare l’Italia nella modernità. Operazione certamente possibile. A condizione, tuttavia, di garantire a chi perde un lavoro un’efficiente rete di servizi al lavoro e adeguati programmi di riqualificazione professionale. Solo così si potrà realizzare il più volte annunciato passaggio da un sistema passivo di welfare, ormai alle corde, alle politiche attive e di ricollocazione del celebrato modello nordico.

Di politiche attive, invero, si parla da almeno vent’anni, a partire dalla legge Treu e, a seguire, dalla legge Biagi. Ma nulla è stato fatto. Anzi, la situazione si è non poco complicata con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha contribuito a una profonda frammentazione delle politiche del lavoro oggi gestite, con differenziali di efficienza preoccupanti quanto evidenti, su scala regionale. Si spiega così una delle novità più importanti contenuta nel progetto di Jobs Act: l’istituzione di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, alla quale si intendono attribuite competenze gestionali in materia di servizi al lavoro, politiche attive e indennità di disoccupazione. Alle Regioni verrebbe garantito il mantenimento della definizione delle politiche attive del lavoro e anche un loro coinvolgimento nella costituzione dell’Agenzia nazionale. Quanto all’indennità di disoccupazione, poiché è una competenza dell’Inps, si prevede il raccordo tra l’Agenzia nazionale e l’Istituto, sia a livello centrale che a livello territoriale.

Pur con le difficoltà di coordinamento con i vari enti competenti di servizi e funzioni che essa dovrebbe gestire, ci si attende che l’Agenzia possa realizzare diversi obiettivi. Innanzitutto, superare la sostanziale mancanza di indirizzo e coordinamento a livello nazionale delle politiche attive e dei servizi per il lavoro dell’attuale regime. Inoltre, si spera che possa finalmente realizzare un più efficace raccordo tra politiche attive e passive e una vera condizionalità dei sussidi con un’effettiva attivazione dei lavoratori disoccupati, in particolare percettori di indennità di disoccupazione, pena la perdita del sostegno al reddito.

La realizzazione di tale obiettivo di collegamento di misure di sostegno al reddito e misure volte al reinserimento del disoccupato nel mercato del lavoro è attuata anche attraverso la grande novità degli accordi di ricollocazione stipulati tra agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati e i percettori di un sostegno al reddito. Gli operatori privati sarebbero incentivati alla presa in carico dei lavoratori disoccupati per la loro ricollocazione mediante una remunerazione a fronte dell’effettivo inserimento nel mercato del lavoro per un periodo minimo e proporzionata alla difficoltà di collocamento del soggetto reinserito al lavoro.

Il rapporto tra servizi pubblici e privati per l’impiego si inquadra in un doppio canale. Accanto alla competizione per il ricollocamento di disoccupati e in particolare percettori di sostegno al reddito, si rilancia la promozione della collaborazione e la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati per il lavoro, con l’obiettivo di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Con questo obiettivo paiono volersi ridefinire i criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, nonché i livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego.

Dopo il fallimento della Borsa nazionale del lavoro, la delega del Jobs Act intende anche rilanciare i sistemi informatici esistenti per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni sociali erogate. Sarebbe questo uno strumento fondamentale, che dovrebbe essere a disposizione di tutti gli operatori del mercato del lavoro per garantire un efficace collegamento delle politiche attive e passive. Per rendere più efficace il sistema informativo del mercato del lavoro si prevede l’istituzione del fascicolo elettronico unico comprensivo di tutti gli elementi riferibili alla vita attiva della persona, dai percorsi educativi e formativi a quelli lavorativi, alle transizioni e ai relativi sussidi, fino al conto corrente previdenziale.

Tutto questo è condivisibile. La domanda, tuttavia, è se vi sono oggi le condizioni per realizzare progetti da tempo noti e presenti nelle riforme del lavoro che via via si sono succedute. La credibilità del Jobs Act si gioca, del resto, tutta qui: nella ragionevole aspettativa che il lavoratore che perde il posto non sarà lasciato solo e che una moderna rete di servizi al lavoro, pubblici o privati poco importa, lo accompagnerà verso la ricerca di un nuovo impiego.

Su questo fronte, la recente esperienza di Garanzia Giovani non lascia invero ben sperare. A fronte di uno stanziamento di 1,5 miliardi si è capito, dopo i primi mesi di sperimentazione, che per il nostro Paese il vero problema non tanto sono le risorse quanto la capacità di utilizzarle bene attraverso un’amministrazione pubblica in grado davvero di costruire le premesse dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Ebbene, nonostante la “garanzia” della presa in carico e del diritto a ottenere, entro quattro mesi, una proposta di lavoro o di stage o, in alternativa, un percorso di riqualificazione professionale, meno di un quarto dei 200mila giovani italiani registrati al programma Garanzia Giovani è stato convocato per un colloquio preliminare e poco altro. Tutti gli altri sono fermi davanti a una porta, quella delle politiche attive, che rimane incomprensibilmente chiusa anche quando le dotazioni finanziarie ci sono. Una prova ulteriore che le riforme del lavoro non passano necessariamente dalle leggi e dalla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quanto dalla capacità della nostra politica di attuarle giorno dopo giorno.

Sul lavoro le idee – come gli annunci e i convegni – non mancano. Ma se non vogliamo attendere il fallimento della quinta riforma del lavoro negli ultimi cinque anni è necessario un cambio di prospettiva che porti a prestare maggiore attenzione, più che alle regole, alla loro effettiva implementazione. Queste sono, del resto, le politiche attive. E non saremmo ancora oggi a parlare di introdurre una condizionalità dei sussidi, chiave di volta di un equo e moderno sistema di welfare, se avessimo dato attuazione a leggi vigenti da oltre un decennio.